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C’è chi dice no: la mancata fusione finanziaria tra Londra e Hong Kong

AnalisiLa fallita fusione tra il mercato finanziario di Hong Kong e quello di Londra ha fatto molto rumore, anche grazie al protagonismo mediatico recentemente acquisito da Hong Kong. Guardato da vicino, però, l’accordo era reso improbabile dai ricorsi storici, dai contesti domestici e internazionali, e dalla forte condizionalità (abbandonare il merger di LSE e Refinitiv). I più maliziosi hanno visto una mossa politica da parte dell’élite finanziaria hongkonghese, ma è più probabile che quest’ultima e Pechino abbiano collaborato per attrarre capitali e garantire il futuro dell’ex colonia britannica.

UN FULMINE A CIELO NUVOLOSO

Difetti fondamentali, posizionamento a lungo termine sconveniente, preferita la partnership con il mercato di Shanghai (SHSE) – queste le ragioni addotte da London Stock Exchange Group (LSE) nelle comunicazioni ufficiali annesse al rifiuto dell’offerta di Hong Kong Stock Exchange (HKSE), l’ottavo naufragio dal 2000 a oggi, un incagliarsi già sperimentato da Stockholm Stock Exchange, Deutsche Boerse AG, Maquarie Group, NASDAQ e NYSE.
Dopo aver acquistato il London Metals Exchange a fine 2012 (nel 2018 piattaforma di lancio per i metal futures in RMB), Hong Kong Exchanges and Clearing Ltd. aveva presentato un’offerta di acquisizione a LSE per 36 miliardi di euro. Una tempistica non casuale, dato il pubblico annuncio in concomitanza con la scelta di LSE di acquisire la compagnia di analisi di dati finanziari Refinitiv, e l’annessa conditio dello stop all’operazione da parte di LSE.
Sullo sfondo ci sono le tensioni USA-Cina, il traballare della maggioranza parlamentare di Boris Johnson, l’IPO di Saudi Aramco in LSE a rischio a causa dell’incertezza di Brexit, l’IPO di Alibaba in Hong Kong Stock Exchange (HKSE) messa in discussione dai disordini a Hong Kong.

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Fig. 1 – La sede dell’Hong Kong Stock Exchange (HKSE) a Hong Kong

“DIFETTI FONDAMENTALI”

Il merger avrebbe permesso a HKSE di diversificarsi al di fuori della mainland cinese e incorporare le competenze LSE, garantendo in cambio a Londra un ponte finanziario senza precedenti verso l’Asia. Noi italiani siamo particolarmente interessati, essendo LSE il mercato azionario principale sia per l’Inghilterra che per l’Italia dopo l’acquisto di Borsa Italiana (BI) nel 2007. Eppure, alla chiusura dell’11 settembre, giorno dell’annuncio, i corsi di BI restavano al di sotto del prezzo-per-titolo offerto da HKSE, indicando da subito poca fiducia da parte dei mercati nella riuscita del merger. Le ragioni del rifiuto di Londra si dipanano su tre direttrici principali: i piani correnti di LSE, le pressioni degli stakeholders e le implicazioni politiche.
In primo luogo per LSE è più sicuro scegliere di restare sul piano Refinitiv, in tempo di Brexit e incertezza globale (FED abbassa i tassi, BCE promette nuova fase di QE, Cina e Giappone svalutano i rispettivi corsi valutari – misure anti-cicliche che rimandano a una fase recessiva globale). Investire nella raccolta ed elaborazione di dati finanziari sembra presentare molti vantaggi e nessun ovvio svantaggio, mentre creare un network borsistico globale con un partner condizionato da Pechino espone a seri rischi.
In secondo luogo ci sono diversi interessi in gioco: Thomson Reuters resta influente stakeholder in Refinitiv, pur non detenendone più la maggioranza, il che aumenterebbe anche l’ampiezza potenziale del network di LSE. Inoltre, Blackstone Group ha già acquisito la maggioranza di Refinitiv e guadagnerà molto dall’acquisizione di quest’ultima da parte di LSE.
Ci sono poi le considerazioni politiche. Nel 2016 si era tentato un merger tra LSE e Deutsche Borse AG: si prospettava il più grande merger di operatori di borsa, accorpando tre fra gli indici più rilevanti al mondo (Euro Stoxx 50, FTSE 100 e DAX) nello stesso mercato. Le agenzie regolatrici europee hanno fermato il piano nel 2017, ma la volontà di evitare un cartello celava dubbi su Londra quale sede del colosso, con l’incertezza Brexit all’orizzonte. Nel caso di HKSE, l’incertezza parte da Whitehall, e si pone soprattutto in caso di interruzione dei rapporti preferenziali tra Londra e l’UE, che ridurrebbe le opzioni di Londra per bilanciare l’eccezionale trazione gravitazionale esercitata da economia e soft power cinesi.

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Fig. 2 – L’allora Cancelliere dello Scacchiere Philip Hammond (centro) e il Vice-Premier cinese Hu Chunhua (destra) in visita al London Stock Exchange (LSE), 17 giugno 2019

UNA SCELTA POLITICA (MA NON TROPPO)

Salvo imprevisti, Hong Kong resterà parte della Cina e Pechino manterrà una forte influenza. Del resto il recente piano strategico di HKSE presuppone proprio maggiore affidamento sui trading links a stock e bond quotati a Shanghai (la hub finanziaria per eccellenza) e Shenzhen (la “capitale” delle startup cinesi di successo). Nell’era del decoupling USA-Cina è lecito aspettarsi che imprese e Istituzioni sul continente europeo siano più ricettive (e più soggette) all’approdo di capitali cinesi, ma era comunque improbabile che un progetto di tali implicazioni politiche sopravvivesse al vetting inglese, annunciato in TV dalla Business Secretary Andrea Leadsom: una mediatizzazione alquanto singolare, dal momento che questo tipo di accordo viene spesso negoziato con un profilo basso.
I più maliziosi considerano l’annuncio pubblico come un messaggio a Pechino da parte dell’élite finanziaria di Hong Kong, allarmata dalla progressiva perdita di “unicità” della città (oltre che interessata a bloccare il deal con Refinitiv). Bisogna però considerare che la Cina è rientrata con vigore nel discorso pubblico, prima con l’annuncio della Belt and Road Initiative (BRI), poi con l’inasprirsi delle tensioni con gli USA. Inoltre, Hong Kong è ora al centro dei riflettori per le proteste e l’annesso dibattito. In questo contesto, un affare da 36 miliardi con forti implicazioni politico-economiche non può che fare molto rumore: nemmeno l’operazione “Deutsche Borse – LSE” del 2016 aveva destato tanto scalpore, pur promettendo incisive conseguenze sui mercati finanziari globali.
Tuttavia quest’ultimo annuncio era stato dato durante una fase matura del processo negoziale, mentre quella di HKSE a LSE non è che un’offerta dell’ultimo secondo. Inoltre, quale sarebbe il messaggio che l’élite finanziaria di Hong Kong vorrebbe mandare alle autorità cinesi? Oppure, più semplicemente, potrebbe HKSE fare un’offerta di tale portata senza prima consultare Pechino? Improbabile.

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Fig. 3 – Il Premier britannico Boris Johnson insieme a quello irlandese Leo Varadkar, 9 settembre 2019. C’è anche la Brexit dietro il fallimento del progetto di fusione tra la Borsa di Londra e quella di Hong Kong

VUOTI DA COLMARE

Si osservi piuttosto la parabola di Hong Kong, un tempo filtro tra una mainland immatura e il mondo, ma il cui ruolo oggi si estingue. L’erosione dei privilegi e (de facto) dei confini è un processo quasi naturale, che si sviluppa di pari passo con la crescita economica e la progressiva apertura del sistema finanziario della mainland. Nel 1997 Hong Kong produceva il 27% del PIL cinese – nel 2019, si avvia inesorabilmente a scendere sotto il 3%. Ventidue anni dopo l’handover Shanghai, Shenzhen, Pechino, Chongqing e Guangzhou sono diventate megacity che oggi non soltanto superano Hong Kong in grandezza e produttività, ma impensieriscono le economie rivali di tutto il mondo. Shenzhen, subito oltre confine, è l’emblema della nuova Cina: da villaggio di pescatori nel 1979, con la sua Zona Economica Speciale è divenuta una ricchissima capitale globale dell’innovazione tecnologica, paradiso delle startup.
Negli ultimi mesi diversi attori istituzionali (incluso lo stesso Xi Jinping in una lettera aperta agli imprenditori cinesi) hanno chiaramente espresso la volontà di ridurre le spese per gli investimenti infrastrutturali e attenzionare maggiormente le imprese. A ciò si aggiunga la recente decisione della State Administration of Foreign Exchange cinese di rimuovere la soglia di capitale dei programmi d’investimento estero QFII (in dollari) e RQFII (in renminbi), facilitando l’ingresso di ingenti capitali nel mercato finanziario cinese e dando seguito alle dichiarazioni nell’ambito del Boao Forum 2017. La Cina ha bisogno di capitale estero, e sembrerebbe autenticamente disposta ad eliminare alcune barriere strategiche per facilitarne il flusso.
L’idea che il CEO di HKSE Charles Li non agisca in accordo con Pechino sembra quasi naïf: l’ipotesi più plausibile, semmai, è che l’élite finanziaria di Hong Kong ed il Governo cinese stiano cercando insieme una soluzione alla progressiva perdita di mordente di Hong Kong e alla necessità di capitali stranieri di Pechino. Stanti così le cose pare difficile che il progetto vada in porto, pur avendo gli ultimi anni hanno regalato più di qualche sorpresa.
Infine, sebbene la preferenza per Shanghai espressa a chiare lettere da LSE possa suonare come una strizzata d’occhio a Pechino e un distanziarsi dalle tendenze indipendentiste honkonghesi, è bene non dimenticare che le somiglianze tecniche tra SHSE e LSE sono ragione ben più evidente di una mancetta politica non necessaria.

Federico Zamparelli

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Federico Zamparelli
Federico Zamparelli

Udinese per nascita e affinità calcistica, genovese nel cuore, cittadino del mondo anche se fa un pochino cliché. Ho studiato Scienze Diplomatiche al SID di Gorizia (Università di Trieste) e proseguito con una magistrale in Global Studies, in un programma di doppia laurea con la LUISS di Roma e la China Foreign Affairs University di Pechino. Ora frequento un corso intensivo di lingua e cultura cinese alla Tsinghua University di Pechino, perché proprio non riesco a resistere al fascino del “regno di mezzo”. Parlo correntemente inglese e francese, le mie aree di maggior interesse sono l’Africa e l’Asia – in particolare la Cina – e nel Caffè metto la mia passione per l’economia, l’high tech e le politiche energetiche.

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