Vi ricordate le proteste dei minatori sudafricani dell’anno scorso? Dopo più di un anno torniamo a Marikana, dove in queste settimane, complice l’anniversario del massacro e gli sviluppi del processo, le rivendicazioni dei lavoratori sono tornate all’attenzione dei media.
IL CASO – Tra l’11 e il 16 agosto 2012, presso la miniera di platino gestita dalla società britannica Lonmin a Marikana, a circa 100 km da Johannesburg in Sudafrica, 34 persone vennero uccise e circa 78 ferite negli scontri tra le forze di sicurezza, la leadership del sindacato “moderato” NUM e i minatori in sciopero contro le condizioni salariali. Il massacro di Marikana rappresenta il più brutale uso diretto di forza da parte della polizia contro i civili dai tempi dell’apartheid. Una doccia fredda per un Paese che ancora si lecca le ferite lasciate dalle leggi razziali e che ha investito molto per ricostruire la propria immagine dopo l’inaugurazione del sistema democratico nel 1994. I sudafricani non amano discutere apertamente di questioni razziali e di discriminazione, ma le statistiche parlano da sole: le fasce di reddito sono ancora saldamente ancorate al colore della pelle, più del 65% della terra è concentrato in mani bianche (8,9% della popolazione totale) e l’indice GINI, che misura la distribuzione del reddito, è il più alto al mondo, 0.632 (un valore pari a 0 rappresenta la perfetta uguaglianza). Il nuovo Sudafrica di Zuma copre la tensione sociale sotto un velo d’ipocrisia. Il Governo cerca di acquisire consensi esaltando la propria reputazione internazionale e la propria eccezionalità nel continente africano. Non solo Pretoria frequenta il salotto buono dell’Occidente, ma è anche parte dei BRICS, l’esclusivo club degli emergenti. Nel frattempo il suo centro finanziario, Johannesburg, è la città più pericolosa al mondo e l’affascinante Città del Capo, il principale polo turistico, è tristemente diventata la capitale mondiale degli stupri; inoltre il Paese è secondo per numero di abitanti affetti da HIV dopo il Botswana.
IL SETTORE MINERARIO – Marikana ha davvero cambiato qualcosa o rappresenta un’altra nuvola di fumo in uno Stato che ancora non riesce a risolvere le contraddizioni? Quali sono state le conseguenze concrete delle proteste? Nonostante Lonmin Platinum abbia risolto la crisi con un aumento di circa il 20% delle retribuzioni e un bonus di 2000 rand (meno di 200 euro) per persona, la situazione non sembra essere migliorata né per la compagnia, né per i lavoratori. Oggi, la società britannica si ritrova nel mezzo di una crisi di settore che probabilmente la costringerà a ridurre la produzione per sostenere il prezzo del metallo, ricorrendo a massicci licenziamenti. La stagnazione del comparto commodities su scala globale (diminuzione della domanda di materie prime a causa del rallentamento della crescita mondiale – Cina in testa) si è sommata alle difficoltà del mercato del lavoro nel Paese. Nonostante la protesta abbia dato una scossa all’intero settore minerario del Sudafrica, estendendosi a macchia d’olio agli impianti per l’estrazione di oro, cromo e altri minerali, né il Governo, né i sindacati hanno intrapreso azioni concrete per uscire dall’impasse. La verità è che non si sa da dove cominciare. Se da una parte l’industria estrattiva impiega più di 500mila persone, dall’altra il suo peso sull’economia del Paese è andato restringendosi costantemente negli ultimi dieci anni, fino a scendere sotto il 10% del PIL. Le compagnie dipendono da prezzi stabiliti su scala mondiale e ultimamente i loro bilanci hanno registrato grosse perdite a causa del declino del rand, la moneta locale con cui esportano. A rendere ancora più problematico un aumento dei salari è il tasso di disoccupazione (circa un quarto della popolazione è senza lavoro), non contando coloro che hanno smesso di cercare lavoro.
La tragedia di Marikana causò la morte di 34 persone
MIGRANT LABOR – Un altro tema cruciale emerso a seguito dei fatti di Marikana, e strettamente collegato all’industria estrattiva, è quello dello sfruttamento dei cosiddetti “migrant workers”. È risaputo che, già dai tempi dell’apartheid, il successo dell’industria mineraria in Sudafrica ha le radici nello sfruttamento dei flussi migratori dai Paesi confinanti, non solo Lesotho e Swaziland (enclavi del territorio sudafricano), ma anche Botswana, Zimbabwe e Mozambico. Questi lavoratori, principali protagonisti delle manifestazioni dell’ultimo anno, provengono da aree rurali poverissime, sono quasi tutti analfabeti e svolgono il lavoro più duro: sono i “rock drill operators”, che trivellano la roccia in condizioni molto rischiose e spesso disumane. Il sistema di sfruttamento dei migranti non è cambiato in quasi vent’anni di democrazia: il ciclo prevede dodici mesi di lavoro e solo due brevi pause per Natale e Pasqua, il che costringe gli operai a rimanere lontani dalle famiglie per la maggior parte dell’anno. Dopo l’abolizione dell’apartheid, le società minerarie sono state costrette a fornire alloggi e “rimborsi spese” ai migranti perché potessero far fronte al mantenimento delle famiglie nelle campagne. Tuttavia, molti di questi lavoratori, per risparmiare sul trasporto, hanno scelto di vivere nei pressi delle miniere, dove spesso hanno una seconda famiglia da mantenere in baracche prive di elettricità e acqua corrente, in condizioni sanitarie estremamente precarie. Questa situazione, sempre più diffusa, ha generato un calo nelle rimesse verso le campagne, ed è alla base delle insistenti richieste di aumento salariale.
Valeria Giacomin