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Gibilterra: Dio salvi la regina (e i possedimenti)

Acque agitate intorno alla Gran Bretagna. Alla annosa questione delle isole Falkland/Malvinas si è ora aggiunto un momento di difficoltà diplomatica con il Regno di Spagna. D’un tratto sembra di essere tornati indietro all’epoca coloniale quando per i territori nascevano conflitti sanguinosi e duraturi. Le similitudini non sono poche.

 

IL CONTENZIOSO CON L’ARGENTINA – Il 3 gennaio del 1833 tre decine di cittadini di Sua Maestà si stabilirono sull’isola East Falkland (dagli antagonisti chiamata Soledad), dopo che fin dal 1771 si era creato un piccolo stanziamento dal carattere non permanente su West Falkland (Gran Malvina per gli argentini).

Ci troviamo qualche decennio dopo i moti rivoluzionari bolivariani. All’epoca il continente era ancora un affare tra Spagna e Portogallo e in effetti lo sgarbo venne compiuto ai reali castigliani, allora sovrani dell’area in virtù del Trattato di Tordesillas (1494) e del successivo accordo di Madrid (1750), entrambi basati sull’istituto romano dell’uti possidetis ita possideatis, che sostanzialmente lasciava il possesso delle terre a chi già ci stava.

La Spagna non obiettò. La neonata nazione Argentina succedette alla Spagna e cominciò a protestare. La questione, pertanto, ha 180 anni. Le isole si trovano a 400 miglia nautiche dal continente (cioè 740 chilometri) e quindi sono fuori dalle acque territoriali (12 miglia) e anche dalla zona economica esclusiva (200 miglia), così come sancito dalla convenzione di Montego Bay del 1982, ratificata da entrambi i contendenti. Perciò, in base al diritto internazionale non appartengono a nessuno dei due. Al momento della “colonizzazione” erano disabitate, quindi non c’è stata violenza o costrizione da parte dei britannici. Fondamentalmente la controversia va avanti così da allora senza grandi novità.

La guerra lampo del 1982, durata un paio di mesi e costata la vita di circa mille uomini, non ha risolto la situazione, ma forse l’ha aggravata. L’Argentina ha perso militarmente e questo ha complicato l’aspetto politico. Le Nazioni Unite si sono sempre ben guardate dall’andare contro la Gran Bretagna, che siede nel Consiglio di Sicurezza. Dopo la fine delle ostilità, il Palazzo di Vetro ha semplicemente stabilito quello che era già chiaro da sempre, cioè che il risultato finale delle schermaglie sarebbe dovuto essere l’autodeterminazione, come sancito nell’art.1 della Carta Onu (tra l’altro, si tratta di jus cogens) o l’integrità territoriale con l’Argentina. La Corte Internazionale di Giustizia, adita dai sudamericani, ha invece decretato che  le parti avrebbero dovuto concordare la soluzione della controversia. In realtà, come osserva “El Mundo”, in questo caso il principio di autodeterminazione è una farsa. I votanti sono britannici, non abitanti autoctoni. Strano che chi ha “inventato” la democrazia moderna scivoli su questo. La Magna Charta Libertatum è la prima formalizzazione giuridica di diritti dei cittadini: risale al 1215 e la dobbiamo a Giovanni Senza Terra, sovrano d’Albione. Otto secoli dopo la democrazia viene “modellata” per avallare uno status quo che sia favorevole in maniera definitiva a Londra.

 

UN PRECEDENTE RISCHIOSO – Il caso delle Falkland/Malvinas è l’emblema del fallimento dell’Onu e la riaffermazione del principio di forza. Probabilmente cento o duecento anni fa la situazione sarebbe stata risolta a colpi di cannone, senza pensarci troppo. Oggi il mondo è più raffinato e predilige soluzioni pacifiche e diplomatiche. La politica mondiale non ha potuto prendere una posizione ufficiale per non turbare l’equilibrio e non ha saputo dettare le regole d’ingaggio. Ambedue i contendenti hanno ragioni da vendere, ma si è demandata la soluzione alla prova di forza del 1982. E ben poco ha aggiunto il referendum dello scorso marzo, votato dai soli britannici che, con percentuali più che “bulgare”, hanno optato per lo status quo sotto l’Union Jack. Da allora Downing Street lega le sue pretese politiche al fatto che, in ossequio alla Carta Onu, il “popolo” abbia espresso la propria scelta. Il precedente è pericoloso perché sancisce che l’autodeterminazione non va per forza verso l’indipendenza, però segna anche una pagina discutibile per la politica estera britannica, che utilizza a piacimento strumenti di democrazia diretta: non ci fu nessun referendum per quanti furono cacciati da Hong Kong e non è scontato che gli abitanti dell’Ulster ci tengano a rimanere sudditi di Elisabetta II. “Página 12, quotidiano argentino, ha centrato il bersaglio: il referendum non ha valore.

Del resto, l’esito di questo referendum appariva abbastanza scontato: chi tra i britannici avrebbe rinunziato ai ricchi sussidi erogati agli abitanti della landa desolata? Ma la continuità è importante; c’è del petrolio che aspetta solo di essere scoperto laggiù. Gli interessi economici hanno prevalso sulla diplomazia e la circostanza della scadenza del trattato di Madrid sul divieto di sfruttamento delle risorse dell’Antartico (2041) complica il quadro perché a quel punto varrà solo il principio dell’influenza territoriale e le Falkland/Malvinas avranno un’importanza strategica eccezionale.

 

La mappa di Gibilterra, in posizione strategica tra Mediterraneo e Atlantico
La mappa di Gibilterra, in posizione strategica tra Mediterraneo e Atlantico

IL CASO DI GIBILTERRA – Uno schema simile lo abbiamo visto lo scorso agosto nel Mediterraneo. La rocca di Gibilterra venne ceduta da Madrid a Londra col Trattato di Utrecht nel 1713, in seguito alla Guerra di successione spagnola. Ma venne ceduta la proprietà e non la sovranità. In pratica, un prestito. Gli iberici hanno poi provato più volte a riconquistare manu militari la rocca e i sei chilometri quadrati che la circondano, ma sempre invano. Gli abitanti godono di status fiscali privilegiati e dell’orgoglio britannico. Oltre ai 14 chilometri dello stretto di Gibilterra, sede delle colonne d’Ercole, si trova l’Oceano Atlantico. Controllare Gibilterra significa, quindi, controllare l’accesso al Mediterraneo. Per secoli i britannici hanno potuto imporre dazi e condizioni di passaggio, in una parola hanno potuto influenzare tutto quello che succedeva nel mare chiuso, unito poi al possesso di Malta.

Gli andalusi, spagnoli, hanno sempre visto Gibilterra come un vulnus, un’enclave indebita a casa loro. La ferita è stata aggravata nel 1967 e nel 2002 quando i gibilterriani rifiutarono (con referendum) un’amministrazione congiunta. Lo scorso agosto i britannici hanno annunziato la costruzione di una barriera di cemento in mare per consentire il ripopolamento della fauna ittica. La vicenda è stata vista come l’ennesimo gesto ostile, che avrebbe impedito la pesca a strascico per le barche iberiche. Le contromisure di Rajoy non si sono fatte attendere: controlli doganali asfissianti, tassa di 50€ per i visitatori (illegale), non esplicite, ma caustiche allusioni al contrabbando.

Londra ha inviato una nave da guerra e ha mosso subito le pedine diplomatiche (dimenticandosi di essere euroscettica), con il presidente della Commissione Europea Barroso subito investito della questione. Il premier britannico Cameron ha preteso l’arrivo di ispettori europei e subito il Primo Ministro castigliano ne ha approfittato per chiedere “una valutazione globale”. Cioè rimettere tutto in discussione. In questo caso l’autodeterminazione è stata chiara e rispettata, ma fondata su un’interpretazione sui generis di un trattato. E per di più Downing Street ha reso la Rocca un Paese off-shore con tanto di capitali internazionali. È nato un fiorente contrabbando di sigarette e la pratica del bunkering, cioè il rifornimento di navi cisterna in una zona che sfugge al controllo con pregiudizio per l’ambiente.

Il problema è soprattutto fiscale, le aliquote britanniche sono di gran lunga inferiori a quelle spagnole. Riciclaggio e fondi neri sono corollario, con grave danno per l’erario di Madrid. Tutto ciò è stato visto dai sudditi di Juan Carlos come un affronto. Era facile attendersi una reazione.

 

Andrea Martire

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Andrea Martire

Appassionato di America Latina, background in scienze politiche ed economia. Studio le connessioni tra politica e sociale. Per lavoro mi occupo di politiche agrarie e accesso al cibo, di acqua e diritti, di made in Italy e relazioni sindacali. Ho trovato riparo presso Il Caffè Geopolitico, luogo virtuoso che non si accontenta di esistere; vuole eccellere. Ho accettato la sfida e le dedico tutta l’energia che posso, coordinando un gruppo di lavoro che vuole aiutare ad emergere la “cultura degli esteri”. Da cui non possiamo escludere il macro-tema Ambiente, inteso come espressione del godimento dei diritti del singolo e driver delle politiche internazionali, basti pensare all’accesso al cibo o al water-grabbing.

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