La crisi economica europea ha suggellato la Germania come locomotiva del vecchio continente. La sua potenza economica deriva anche dalla facilitĂ con cui esporta. Le recenti riforme sul mercato del lavoro hanno reso le imprese tedesche ancor piĂą competitive e produttive rispetto ai partner europei. Ma a quale costo sociale?
FARO ECONOMICO EUROPEO – Il modello economico tedesco sembra essere, specialmente dall’avvento della crisi mondiale, il futuro dell’Europa. La Germania, infatti, ha la piĂą grande economia nazionale in Europa ed è ancora la quarta potenza mondiale in termini di PIL nominale, grazie soprattutto a un surplus commerciale di oltre 200 miliardi di euro, sui livelli di quello cinese. Il suo è quindi un sistema economico basato non tanto sui consumi interni, quanto sulla domanda estera, ovvero le esportazioni, che avvengono, per gran parte, all’interno dell’area euro: vale a dire che una grande fetta degli importatori sono i partner dell’unione monetaria.
SVALUTAZIONE COMPETITIVA – Se la Germania è in grado di esportare piĂą dei partner europei è anche perchĂ© pratica indirettamente una cosiddetta “svalutazione competitiva” rispetto a tali Paesi. Far parte di un accordo di cambio nominale fisso, quale l’euro, infatti, implica che la competitivitĂ dipenda solo dal rapporto tra i prezzi relativi tra i partner, proprio perchĂ© il tasso di cambio nominale è invariabile. Allora piĂą i nostri prezzi crescono rispetto a quelli tedeschi, o questi ultimi diminuiscono rispetto ai nostri, piĂą il tasso di cambio reale (il prezzo relativo dei beni nazionali rispetto a quelli esteri) si rivaluta e noi perdiamo competitivitĂ .
INFLAZIONE – PerchĂ© allora Berlino è riuscita in una maggior competitivitĂ ? Dal 2000 a oggi si è registrata in Germania un’inflazione media dell’1,69% mentre Italia (2,29%), Spagna (2,86%), Portogallo (3,6%) e Grecia (3,1%) hanno mediamente sforato la soglia consentita dalle indicazioni della Banca Centrale Europea (BCE) del 2%. Ma ciò che conta è lo strumento con il quale è riuscita a contenere l’aumento dei prezzi. Nell’ultimo decennio la produttivitĂ tedesca è aumentata in modo costante e significativo (in media dell’1% circa), mentre quella italiana si è sostanzialmente appiattita.
PRODUTTIVITĂ€ – In economia la produttivitĂ può essere definita come il rapporto tra la quantitĂ di output e di input utilizzati nel processo di produzione. La produttivitĂ della quale si parla nel dibattito corrente è precisamente la produttivitĂ media del lavoro, definita come valore aggiunto per addetto. Allora grazie a una migliore dinamica della produttivitĂ le imprese non hanno bisogno di aumentare i prezzi per coprire i costi, perchĂ© il costo del lavoro rispetto al prodotto diminuisce. Difatti in Germania i salari medi hanno stagnato per oltre un decennio. Dal 2000 al 2012, secondo l’archivio tedesco, sono addirittura diminuiti dell’1,8%. Si può concludere che la Germania sia diventata piĂą competitiva grazie a una svalutazione salariale, praticando una sorta di dumping sociale.
MERCATO DEL LAVORO – Tale stagnazione è dovuta principalmente a una serie di riforme denominate “Hartz” (dal nome di Peter Hartz, membro del consiglio d’amministrazione della Volkswagen e della commissione “Servizi moderni per il mercato del lavoro”) completate nel 2005 dal Governo socialdemocratico del cancelliere Schröder e considerate le piĂą severe riforme del mercato del lavoro tedesco del dopoguerra. Il risultato è stato senza ombra di dubbio una maggior flessibilitĂ dei contratti lavorativi, consentendo un tasso di disoccupazione (6,8%) tra i piĂą bassi dell’Eurozona. Ma a questo dato contribuiscono anche i mini-job, ovvero impieghi pagati circa 450 euro al mese che oggi riguardano approssimativamente 8 milioni di individui, un quarto del lavoro dipendente. In aggiunta diminuiscono le prestazioni sociali ai disoccupati, in termini economici e di servizi. Si tratta, sostengono i critici, di una spinta verso precariato e flessibilitĂ , che spinge al ribasso anche i salari degli altri lavori.
DISUGUAGLIANZA – Numerosi studi empirici sulla distribuzione salariale tedesca hanno analizzato le conseguenze di tali riforme, concordando sul punto che vi è stata una netta diminuzione del salario reale e una crescita della sua dispersione, che tradotto vuol dire maggior disuguaglianza. Il risultato è l’impossibilitĂ di basare la crescita sui consumi interni, segnale di uno sviluppo piĂą armonico e sano, fatto che costringe l’economia tedesca a una stretta dipendenza dalla domanda esterna, con l’esito che le esportazioni risultano essere l’unico volano della crescita. La compressione dei salari non sarĂ mai una strategia di successo per la Germania e per l’Europa intera. Se il modello economico tedesco è il futuro dell’Europa, dobbiamo essere tutti molto inquieti.
Davide Del Prete