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La risposta dell’Etiopia al coronavirus: ampliare lo spazio geopolitico

Analisi L’Etiopia ha proclamato lo stato d’emergenza per fronteggiare il coronavirus l’8 aprile, ma le misure di contenimento della Covid-19 non sono rispettate ovunque, sia per le difficoltĂ  in zone sovrappopolate o contesti informali, sia per le tensioni etnico-regionali. Sul piano internazionale, invece, il premier Abiy Ahmed sta cercando di rendere il Paese un protagonista della geopolitica africana e un hub affidabile per la Cina, mirando a una posizione privilegiata nel post-pandemia.

L’articolo è stato pubblicato anche sul sito dell’associazione Europa Atlantica.

LOCKDOWN VS APERTURA: UNA SCELTA NON SCONTATA

Ripercorrendo oggi le fasi della pandemia in Africa sembra probabile che l’Etiopia, tra le principali porte della Cina nel Continente, abbia avuto cognizione già a gennaio del pericolo imminente, comprendendo da subito di essere di fronte all’ormai noto dilemma tra tutela della salute pubblica e difesa dell’economia. La questione, però, è più profonda rispetto all’esperienza cinese o europea, perché la sfida per Addis Abeba – come per il resto dell’Africa – è all’interno di un contesto caratterizzato da scarsità di risorse, dimensioni sociali complesse e pericolo di marginalizzazione internazionale. In sostanza la scelta tra lockdown e apertura imponeva di soppesare da un lato la consapevolezza della sostanziale impossibilità di vigilare in tutta l’Etiopia sul rispetto di un’eventuale quarantena, dall’altro il pericolo di perdere la spinta economica e la posizione privilegiata al momento della ripresa, con la costante incognita delle tensioni etnico-regionali. E in un primo momento Abiy Ahmed ha puntato sulla salvaguardia del sistema produttivo, avviando un percorso molto graduale culminato ad aprile con l’imposizione di un moderato lockdown.

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Fig. 1 – La compagnia di bandiera etiope, la Ethiopian Airlines, ha un ruolo chiave nella geopolitica di Addis Abeba

L’AZIONE DI ABIY AHMED PER IL POSIZIONAMENTO INTERNAZIONALE

Non è un caso che durante le prime settimane della pandemia si sia sviluppato in Africa un intenso dibattito sulla linea dell’Etiopia, per la mancata sospensione dei collegamenti con la Cina e dei voli internazionali della Ethiopian Airlines, una decisione che secondo alcuni commentatori avrebbe favorito la diffusione del virus nei Paesi limitrofi, in particolare in Uganda. Addis Abeba, tuttavia, è riuscita a guadagnare un ruolo centrale per il contrasto al coronavirus in Africa, sia perché individuata dalla Cina tramite la Jack Ma Foundation per la distribuzione degli aiuti nel Continente – ed ecco il valore strategico della Ethiopian Airlines, – sia per il posizionamento di Abiy Ahmed sulla scena internazionale. In un editoriale del 25 marzo sul Financial Times, il premier etiope, Nobel per la Pace del 2019, ha sottolineato come gli sforzi mondiali per debellare il coronavirus siano vani se non coinvolgono direttamente l’Africa, attraverso un coordinamento a livello globale e una maggiore responsabilizzazione delle classi dirigenti locali, a cominciare da misure per l’interruzione dei conflitti (invocate anche dal Segretario Generale dell’ONU, Antonio Guterres) e per il sostegno economico-finanziario alle regioni subsahariane. Abiy Ahmed ha chiesto alla comunità internazionale di non abbandonare l’Africa, invitando il G20 a istituire un fondo da 150 miliardi di dollari e a rivedere i debiti dei Paesi più poveri, con una maggiore cooperazione all’insegna del bene collettivo, quindi ponendo in secondo piano gli interessi dei singoli Paesi, sia donatori, sia beneficiari. L’intervento di Abiy Ahmed è tuttora teso a richiamare l’attenzione sul rischio che le varie gestioni nazionali della pandemia comportino un disimpegno dei principali attori mondiali e, appunto, la marginalizzazione dell’Africa – il premier ha ovviamente in mente gli obiettivi geopolitici dell’Etiopia, particolarmente esposta su vari fronti nel Corno d’Africa, ma con gravi crisi interne.

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Fig. 2 – Il premier etiope Abiy Ahmed

LE DIFFICOLTĂ€ INTERNE

Contestualmente, però, l’Etiopia sta faticando molto per tenere sotto controllo l’epidemia, tant’è che siamo passati dai circa 50 casi di inizio aprile agli oltre 3.300 di metà giugno (2,91 casi per 100mila abitanti secondo l’Africa Centres for Disease Control and Prevention dell’Unione Africana) a fronte di 180mila test, una cifra comunque contenuta rispetto ai 4.400 casi di Gibuti (450,30 casi per 100mila abitanti) e ai 3.600 del Kenya (6,68), ma sulla quale gravano le denunce di diversi osservatori sull’impossibilità per molti etiopi di accedere anche solo alle informazioni sulla Covid-19. Se nelle zone centrali – politiche e geografiche – il Governo ha proceduto con una discreta campagna di aggiornamento e sensibilizzazione, nelle aree periferiche i cittadini sono rimasti del tutto isolati, come accaduto in varie parti dell’Oromia, dove le comunicazioni sono state interrotte per favorire le operazioni dell’esercito contro gli insorti. L’Etiopia ha chiuso le frontiere il 23 marzo e ha dichiarato lo stato d’emergenza solo l’8 aprile, ma le misure – come altrove in Africa – si sono scontrate con le difficoltà di far rispettare il distanziamento sociale, soprattutto nei contesti lavorativi informali, nelle zone sovrappopolate e nei territori ostili al Governo centrale. Proprio a riguardo i provvedimenti di Addis Abeba devono essere contestualizzati in un clima politico non ottimale, soprattutto per due fattori. Il primo è il tentativo di Abiy Ahmed di inserire la lotta al coronavirus nella sua politica del Medemer, il principio secondo il quale ogni contrapposizione possa sempre essere condotta all’unità: nel governo dell’Etiopia questo concetto si traduce nell’impegno a trascendere le divisioni etnico-regionali in un’unione che valorizzi le diversità. Paradossalmente l’impostazione ha portato gli oppositori a identificare i provvedimenti sanitari come espressione dell’agenda politica “unificante” del Primo Ministro, quindi a non rispettarli. Il secondo punto, strettamente connesso al precedente, è il clima rovente per il rinvio delle elezioni, inizialmente previste per il 29 agosto e tuttora senza una nuova data. Le consultazioni legislative avrebbero rappresentato un importane banco di prova per Abiy Ahmed, che avrebbe portato di fronte al popolo il proprio progetto politico e l’operato degli ultimi due anni. La decisione di rimandare sine die le urne non è stata accolta pacificamente da tutto il Paese, soprattutto perché è giunta il 31 marzo, in un momento nel quale secondo il Governo il rischio pandemico era ancora contenuto. La polemica ha raggiunto toni aspri e le opposizioni hanno interpretato l’atto come una illegittima estensione delle misure straordinarie per fermare l’epidemia, denunciando una deriva autoritaria e minacciando l’apertura di nuovi fronti anche armati.

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Fig. 3 – Manifestazione del Fronte di Liberazione Oromo, considerato dal Governo etiope un gruppo terroristico fino al luglio del 2018

LA PREPONDERANZA DEL CONTESTO LOCALE

Proprio in questo senso appaiono ancora più evidenti le difficoltà nel far rispettare il lockdown e la necessità di un bilanciamento a sostegno dell’economia nazionale, in un contesto con risorse molto limitate. Per quanto il Governo abbia ampliato strutture sanitarie e numero di posti letto, le problematiche insolute restano ancora numerose, tra le quali la presenza di almeno 750mila rifugiati nei campi profughi. Se è vero che in varie circostanze gli indirizzi di Addis Abeba hanno favorito dei discreti successi, è altrettanto vero che in molte zone e in molti settori della popolazione il contrasto alla Covid-19 è del tutto insufficiente, per mancanze sia delle Istituzioni, sia della classe dirigente locale, con grandi contraddizioni che impongono perlomeno cautela nella lettura dei dati su contagi e decessi. La situazione, comunque, è più o meno in linea con il resto dell’Africa, considerato che ancora non sono davvero conosciute le dinamiche della pandemia nel Continente e che, a causa dello scarso impegno internazionale, i Paesi si trovano spesso costretti ad anteporre le specificità locali alla rigidità delle norme suggerite dall’OMS o dall’esperienza di altri Stati.

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Fig. 4 – Il campo profughi etiope di Kule, nella Regione di Gambella, ospita oltre 40mila persone

L’ETIOPIA SI MUOVE PER IL POST-PANDEMIA

In questi mesi Abiy Ahmed ha cercato di rendere l’Etiopia il fulcro, anche logistico, del futuro post-pandemico in Africa, che vedrà la prima recessione del Continente in 25 anni. La consapevolezza diffusa è che questa crisi stia colpendo uniformemente tutti Paesi africani sotto diversi aspetti, dall’economia alla sicurezza, amplificando potenzialmente quelle criticità che, già presenti, hanno reso difficoltosa la lotta alla Covid-19. Con circa 230mila casi ufficiali e poco più di 6mila decessi al 14 giugno, l’Africa sembra essere stata colpita in misura minore rispetto agli altri continenti: al netto dei sospetti sui numeri reali, non è ben chiaro il motivo – ma l’OMS ha lanciato l’allarme su una possibile accelerazione del contagio. Ci sono molti fattori e dinamiche da analizzare, dall’età media tendenzialmente bassa delle regioni subsahariane, fino al clima e alla presenza di malattie che potrebbero aver fornito anticorpi utili. Il dato, tuttavia, è che a livello macrosistemico l’Africa, anche per la congiuntura internazionale, uscirà provata dalla pandemia. Abiy Ahmed intravede un buon margine di manovra in questo contesto: il premier etiope sinora è stato molto attivo nel Corno d’Africa, o comunque, se si estende lo sguardo alla gestione delle acque del fiume Nilo – en passant, stanno riprendendo i colloqui tra Egitto, Etiopia e Sudan tra molte tensioni, – nel quadrante orientale del Continente, ma adesso l’obiettivo è ampliare il raggio geopolitico, tutelando la posizione del Paese nella filiera internazionale e rafforzando i rapporti strategici con la Cina. La diplomazia di Addis Abeba non è andata in quarantena. A inizio maggio Abiy Ahmed ha incontrato Isaias Afewerki, Presidente dell’Eritrea (dove i casi ufficiali di coronavirus sono 65), con il quale stanno proseguendo i negoziati di pace avviati nel 2018. Dall’altro lato c’è la Somalia (2.600 casi e 87 decessi), attanagliata anche da devastanti alluvioni e da un’invasione di cavallette: da metà giugno comincerà a Gibuti un tavolo tra Somalia e Somaliland, al quale parteciperà anche Abiy Ahmed. E per concludere, a proposito di Somaliland, è stato appena inaugurato il primo tratto del corridoio che unirà il porto di Berbera con l’Etiopia, un progetto da $400 milioni che servirà ad Addis Abeba per tornare direttamente sul mare.

Beniamino Franceschini

Photo by jorono is licensed under CC BY-NC-SA

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Perchè è importante

  • Il Governo etiope si è trovato a dover scegliere tra tutela della salute pubblica e difesa dell’economia, favorendo in un primo momento il mantenimento delle attivitĂ  produttive.
  • Il premier Abiy Ahmed ha reso l’Etiopia l’hub principale per la distribuzione degli aiuti cinesi e ha avviato un’azione politica e comunicativa internazionale per evitare che l’Africa resti ai margini nella lotta mondiale alla Covid-19.
  • In Etiopia rimangono forti le tensioni etnico-regionali e le proteste contro il Governo, sia per le accuse di scarso sostegno alle aree periferiche, sia per il rinvio delle elezioni previste ad agosto.
  • Tra le problematiche nella gestione della pandemia, la presenza di almeno 750mila rifugiati nei campi profughi.
  • L’Etiopia sta cercando di ottenere un posizionamento vantaggioso sulla scena geopolitica post-coronavirus, lavorando in Africa orientale e ponendosi come interlocutore affidabile per la Cina.

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Beniamino Franceschini
Beniamino Franceschini

Classe 1986, vivo sulla Costa degli Etruschi, in Toscana. Laureato in Studi Internazionali all’UniversitĂ  di Pisa, sono docente di Geopolitica presso la Scuola Superiore per Mediatori Linguistici di Pisa. Mi occupo come libero professionista di analisi politica (con focus sull’Africa subsahariana), formazione e consulenza aziendale. Sono vicepresidente del Caffè Geopolitico e coordinatore del desk Africa.

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