Analisi – Israele sembra aver superato la stagnazione politica e si appresta al primo Governo “bicefalo” della sua storia. I problemi relativi alla Covid-19 e alla possibile annessione di Territori palestinesi rendono ancora instabile la governabilità del Paese.
IL NUOVO GOVERNO
Poco più di un mese fa, dopo oltre cinquecento giorni senza un Governo stabile e tre elezioni, la Knesset ha approvato, con 73 voti favorevoli e 46 contrari, un esecutivo di coalizione. Il nuovo Governo, formato dai due principali partiti nazionali, Likud e Blue and White, è stato voluto dal Parlamento per affrontare la crisi del coronavirus nelle sue prime settimane, guardando in modo specifico all’aspetto economico. Si tratta quindi di un Governo insolito per Israele, “di coalizione”, perché l’emergenza sanitaria ha richiesto un livello di unità nazionale superiore al solito: superare le divisioni politiche tra Netanyahu e Gantz era il passo necessario per evitare la quarta elezione in un anno, che sarebbe avvenuta durante il periodo pandemico.
I due leaders si andranno a succedere secondo il seguente format: i primi sei mesi sono formalmente “di emergenza” e vedranno Benjamin “Bibi” Netanyahu come Primo Ministro e Benny Gantz come vicepremier e Ministro della Difesa. A seguire, Netanyahu rimarrà in carica per altri dodici mesi, per poi lasciare il posto a Gantz. Gantz diventerà quindi Primo Ministro e Netanyahu vicepremier. Durante i primi sei mesi di “emergenza” non si effettueranno nomine di alcun tipo, in particolar modo giudiziarie, per cui Netanyahu potrà mantenere il controllo sulla magistratura e controllare in parte il processo che a breve lo vedrà coinvolto per corruzione, frode e abuso di fiducia. Successivamente, anche se Bibi non avrà il Ministero della Giustizia, un membro di Blue and White, ma molto vicino alle posizioni di Netanyahu, sarà nella commissione che controllerà le nomine dei giudici.
Fig. 1 – La barriera israeliana della Cisgiordania è una barriera incompiuta, conosciuta come “il muro”, e costruita dal Governo di Israele. La parte che circonda la città di Belen è decorata da numerosi graffiti
COME IL PAESE HA GESTITO L’EMERGENZA COVID-19
L’epidemia di coronavirus in Israele è coincisa con il lungo periodo di stagnazione politica che ha aggravato inizialmente una situazione già precaria.
Nonostante in questi giorni una seconda ondata di coronavirus stia preoccupando il Paese, Israele ha amministrato in modo efficiente l’emergenza Covid-19. I casi sono stati 24mila, con 17mila guarigioni, e le morti 319. Un risultato ottimale, a confronto con altre situazioni regionali (vedi Iran), che ha dimostrato l’efficienza medica israeliana e che ha proiettato il Paese anche come leader dello sviluppo vaccinico insieme all’Inghilterra e agli Stati Uniti.
La crisi sanitaria ha plasmato il modo in cui Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) hanno cercato di rintracciare, trattare e testare la malattia, nonché la loro capacità di far rispettare un blocco su vasta scala, una direttiva “rimanere a casa” e l’uso obbligatorio di maschere per il viso. La situazione, ben amministrata dal duo Netanyahu-Ganz, ha inoltre visto un’insolita intesa con i palestinesi per il coordinamento sulla casistica nei territori amministrati dalla ANP. Diverse sono state le voci che hanno così pensato all’emergenza sanitaria come possibile “neutral broker” del conflitto, auspicando la ripresa di un processo di pace sulla base della cooperazione sanitaria.
Fig. 2 – Un gruppo di manifestanti palestinesi si scontrano con le forze israeliane in una protesta durante la cerimonia funebre di Mustafa Yacoub, 29 anni, ucciso dopo essere stato colpito dalle forze israeliane nel villaggio di Kufl Hares vicino alla città della Cisgiordania settentrionale di Salfit, a Ramallah, in Cisgiordania, il 10 luglio 2020
L’ EREDITÀ POLITICA DI NETANYAHU
Mentre per Gantz le priorità governative saranno i settori educazione, infrastrutture, giustizia e sicurezza, Netanyahu ha come principale obiettivo quello relativo alla sicurezza, su cui ha sempre basato i successi di ogni suo Governo. È per questo motivo che la possibile annessione di un terzo della Cisgiordania, inclusi territori nella Valle del Giordano (considerato come passo necessario per la tutela dei confini israeliani) rappresenta un’intrigante possibilità per cimentare la grandezza, presente e postuma, di Netanyahu, la sua eredità politica per le generazione future.
L’Amministrazione Trump ha dato il via libera all’annessione il 1° luglio. Già dopo la pubblicazione del Piano di Pace, gli Stati Uniti hanno garantito pieno supporto a Israele, qualora volesse annettere come propri territori parti della Cisgiordania e della Valle del Giordano (indicati nella cartina sottostante). Tutta l’area, però, è già sotto il controllo israeliano, da ormai più di mezzo secolo. Tramite, infatti, un’occupazione militare, Israele ha creato una situazione in cui i territori palestinesi della Valle del Giordano e della Cisgiordania sono, de facto, territori israeliani. Costruendo aree vivibili per coloni israeliani, Israele ha creato molteplici insediamenti urbani, stabilendo così una massiccia presenza civile di coloni (ad oggi, 620mila). L’annessione rappresenterebbe solamente la formalizzazione di un processo ormai consolidato praticamente e socialmente.
UN’ANNESSIONE DAVVERO POSSIBILE?
Sul tema, però, permangono ancora diversi punti poco chiari. Due sono le correnti di pensiero sulla reale possibilità che l’annessione venga portata a termine.
La più nota riguarda i problemi giudiziari di Netanyahu e vede l’annessione come possibile e reale per spostare mediaticamente i riflettori dai guai giudiziari di Bibi verso una questione altrettanto spinosa, ma che, almeno in patria, garantirebbe a Netanyahu il supporto dell’estrema destra. Questa può essere l’unica vera ragione per cui Netanyahu potrebbe proseguire con il piano di annessione. Infatti non ce ne sono altre realmente favorevoli al leader del Likud, nemmeno quella ideologica voluta dai sionisti più estremisti. Come ci mostra Herb Keinon in un’analisi sul Jerusalem Post, l’argomento “annessione” non si è trasformato in un grido di battaglia da parte della destra sionista, nemmeno fra i coloni che più ne avrebbero beneficiato in pratica. Tutto lo sciame di notizie che desta attenzione sul tema è stato programmato a tavolino dal Governo per dare rilevanza alla questione in ottica prettamente estera.
La seconda corrente ritiene invece l’annessione solamente di tipo propagandistico, senza possibilità di compimenti pratici. La comunità internazionale ha già ampiamente e fortemente criticato la possibile annessione israeliana, soprattutto a livello europeo. Inoltre, nonostante gli Stati Uniti appoggino il piano di Netanyahu, non è detto che una futura Amministrazione democratica (o anche repubblicana), faccia lo stesso. Perché rischiare qualcosa che potrebbe portare a un’eruzione di violenza fra i palestinesi, a una rottura con la Giordania e con gli Stati del Golfo? E perché andare avanti con il piano, soprattutto quando, di fatto, Israele ha già pieno controllo e totale autonomia su tali territori? Questa corrente vede quindi Netanyahu aver usato strategicamente il tema dall’inizio della campagna presidenziale nel 2019 solamente per ricevere il supporto della destra tutta, centrale ed estrema. Tuttavia, ora che è tornato in carica, l’annessione non porterebbe alcun tangibile beneficio al prossimo esecutivo di Bibi… anzi.
Paolo Sasdelli
Immagine di copertina: Photo by Konevi is licensed under CC BY-NC-SA