Analisi – Nonostante le sensazionalistiche riforme e aperture avanzate e pubblicizzate dal giovane principe ereditario Muhammad Bin Salman, l’Arabia Saudita continua a essere teatro di numerosissime violazioni dei diritti umani, senza che alcun tipo di dissenso possa andare in scena.
UN NUOVO CORSO IN ARABIA SAUDITA?
Quando Muhammad Bin Salman, carismatico trentenne la cui giovane età riflette la realtà di un Regno dove più di due terzi della popolazione non supera i 35 anni, è stato designato principe ereditario della Monarchia saudita nel giugno 2017, il suo volto è diventato il simbolo del nuovo corso progressista di un Paese da decenni tacciato di conservatorismo. L’iniziativa di punta del paventato nuovo capitolo del Regno saudita è l’ambiziosissima Vision 2030. Si tratta di un cambiamento su molteplici fronti, che necessita accanto alle riforme economico-finanziarie anche di uno slancio progressista dal punto di vista sociale, fondamentale per conquistare il consenso tanto tra i sudditi sauditi quanto tra i potenziali investitori e visitatori internazionali.
Eppure, nonostante questo clima progressista, qualcosa stride con forza: la condizione dei diritti umani nel Paese rimane, a detta delle organizzazioni di settore, drammatica. Anzi, proprio l’apertura promossa da MBS è stata accompagnata da violente campagne di repressione contro ogni forma di opposizione, reale o ipotizzata, dai target estremamente eterogenei: membri della famiglia reale, esponenti della potentissima gerarchia religiosa passibili di dissentire dalle aperture sociali portate avanti da MBS, uomini d’affari, attivisti per i diritti umani e giornalisti. In questo quadro particolare scalpore è stato sollevato dall’arresto di alcune attiviste che, in via teorica in linea con l’agenda del principe ereditario, stavano a loro volta lottando per l’evoluzione dei diritti delle donne nel Regno.
Fig. 1 – Il Principe ereditario Muhammad bin Salman durante una cerimonia a Riyadh, ottobre 2019
LA CONDIZIONE FEMMINILE: “GUARDATE A VISTA”
Per decenni, la condizione di estrema dipendenza delle donne saudite dagli uomini della famiglia – e in particolar modo dal loro personale guardiano, il wali – e la totale mancanza di libertà femminile sono stati tra i baluardi delle critiche della comunità internazionale verso Riyadh in materia di diritti umani. Volendo ricorrere a un re-branding della propria immagine, è stata proprio questa la carta giocata dal Regno, che negli ultimi tre anni ha innanzitutto promosso una serie di riforme di costume: un allentamento delle disposizioni sull’abbigliamento femminile – che deve essere sì modesto e rispettoso, ma non corrispondere forzatamente all’abaya nero, – la partecipazione delle donne a concerti e manifestazioni sportive, e un primo approccio alla mixité de genre negli spazi pubblici, riscontrabile soprattutto nelle città più moderne come Jeddah e Riyadh.
Oltretutto una maggiore indipendenza femminile si rivela un fattore fondamentale per coinvolgere le donne nel mondo del lavoro, nel quale la loro presenza è assolutamente necessaria sulla via della massiva trasformazione economica prevista dalla Visione 2030. È così che le donne hanno finalmente ottenuto il permesso di guidare, sono state introdotte misure per proteggere le cittadine di genere femminile dalle discriminazioni sul luogo di lavoro, ed è stato ridimensionato il ruolo del wali, che fino a meno di un anno fa aveva completa potestà sulla vita della donna a lui sottoposta, moglie, figlia, madre o sorella che fosse. A partire da ottobre 2019, invece, le donne saudite possono finalmente ottenere un proprio passaporto, viaggiare senza il permesso del wali, sbrigare pratiche governative ed esercitare la potestà sui propri figli insieme al marito, con il quale per la prima volta non sono costrette per legge a convivere – già dal 2017, invece, esse possono ottenere cure mediche senza il permesso del tutore.
Fig. 2 – Una donna saudita in un cinema di Riyadh, giugno 2020
I CAMBIAMENTI CONCESSI DALL’ALTO
Peraltro, se ci affidiamo a una classifica pubblicata a fine giugno 2020 sulla condizione femminile nel mondo, queste riforme sembrerebbero avere funzionato, considerando che l’Arabia Saudita è risultata il miglior Paese in Medio Oriente per le donne. Tuttavia, sebbene sia indubbio che alcuni passi in avanti siano stato compiuti, e che anche dal punto di vista imprenditoriale ci sia stata una forte spinta femminile negli ultimissimi anni, questa classifica ha suscitato parecchie polemiche. Di fatti la figura del guardiano rimane ancora in auge dal punto di vista legislativo per fattispecie non esattamente trascurabili, quali il matrimonio, l’uscita dal carcere e l’accoglienza presso strutture anti-violenza. Inoltre bisogna anche considerare quanto queste pratiche patriarcali siano radicate nella mentalità saudita, tanto che una riforma legislativa, oltretutto parziale, non può certo rivelarsi sufficiente per trasformare le donne da soggetti dell’autorità maschile a cittadine indipendenti.
Paradossalmente proprio alcune donne che nonostante il carattere assoluto della Monarchia saudita hanno avuto il coraggio di militare per l’avanzamento della condizione femminile, e in particolar modo per ottenere il diritto alla guida, sono state misteriosamente arrestate nel maggio 2018, prima che questo divieto venisse sollevato. Esse sono tutt’ora detenute con l’accusa di tradimento. La loro liberazione non sembra imminente e secondo i media e le ONG alcune di loro sarebbero state sottoposte a tortura. La loro colpa è quella di aver avanzato delle rivendicazioni dal basso, il che costituisce di per sé un comportamento sovversivo in un regime ove i cambiamenti sono concessi dall’alto, e in nessun modo negoziabili dalla società civile.
Lorena Stella Martini
Immagine di copertina: Photo by Kaufdex is licensed under CC BY-NC-SA