In 3 Sorsi – Contro le perplessità di banche e investitori, gli agricoltori kenioti hanno conferito maggiore credibilità all’agribusiness del Paese rendendo le banane un bene di largo consumo, anche a livello internazionale.
1. UNA PECULIARITÀ KENIOTA
Il Kenya, la cui popolazione raggiunge quasi i 52 milioni di abitanti, presenta uno scenario che non dovrebbe stupirci: come in molti degli Stati africani, infatti, l’agricoltura rappresenta il motore principale dell’economia e il settore dominante a livello di impieghi includendo circa il 60% della popolazione. È stato stimato che fra il 2013 e il 2017 essa abbia contribuito per il 21,9% al PIL nazionale e tuttora è considerata l’attività che giova maggiormente alla riduzione della povertà e al raggiungimento della sicurezza alimentare. È da qualche anno, però, che il Kenya si contraddistingue dagli altri Paesi del continente per un processo che, attraverso sforzi e sacrifici, è diventato la punta di diamante dell’agribusiness keniota: la cosiddetta banana revolution.
Embed from Getty ImagesFig. 1 – Due lavoratrici nella coltivazione di banani di una cooperativa agricola a Kirinyaga, in Kenya
2. PERCHÉ PROPRIO LE BANANE?
In Kenya ci sono 400mila coltivatori di banane e le piantagioni ricoprono l’1,7% del territorio, per un totale di circa 10mila chilometri quadrati. Tradizionalmente utilizzata come cibo di sussistenza e cresciuta in piccole quantità, la banana non è mai stata considerata un bene commerciabile e fruttuoso a livello internazionale dagli agricoltori kenioti, soprattutto a causa della mancanza di soldi per comprare i fertilizzanti e dell’assenza di sistemi di irrigazione. Grazie all’introduzione della coltura tissutale, che permette di crescere tessuti e cellule in un organismo artificiale separato dalla pianta originaria, è stato dimostrato che dalle piantagioni di banane si può ottenere il doppio del raccolto (e quindi del guadagno) rispetto alle altre colture. Solo nel 2018, infatti, sono stati prodotti 1,41 milioni di tonnellate banane. Inoltre la banana è coltivabile tutto l’anno grazie al clima costiero e vendibile a un prezzo molto meno fluttuante di quello del caffè. Partendo da queste consapevolezze, grazie all’aiuto di organizzazioni che operano sul territorio, è stata rivoluzionata la catena di mercato rendendo la banana uno fra i primari beni di largo consumo.
Embed from Getty ImagesFig. 2 – Un venditore di banane in un mercato di Nairobi
3. “WE HAVE NOT GONE BANANAS!” – “NON SIAMO IMPAZZITI!”
Le dinamiche tradizionali sono presto cambiate. Gli agricoltori si sono uniti in comunità lavorando e creando business collettivamente: con l’aumentata produzione, i coltivatori riescono ora a vendere le banane al chilogrammo a un prezzo fisso, aumentando il proprio potere negoziale senza dover accettare il prezzo deciso dai clienti come accadeva in precedenz. Le distanze fra il venditore e il consumatore sono state accorciate, eliminando così intermediari non necessari e garantendo una percentuale di guadagno più alta agli agricoltori. Questi ultimi, coinvolti maggiormente all’interno della value chain di produzione, sono ora consapevoli dei propri diritti e dei propri doveri, accrescendo la propria credibilità e stimolando la volontà delle banche a concedere prestiti e investimenti. Di fatto, la banana revolution racchiude in sé un concetto fondamentale per l’Africa: in mancanza di grandi tecnologie e capitali, le battaglie più importanti devono essere affrontate partendo da idee semplici portate avanti con solidarietà, conoscenza e impegno. È così che gruppi di agricoltori kenioti stanno combattendo la povertà e l’insicurezza alimentare con piantagioni di banane.
Francesca Carlotta Brusa
“2DU Kenya 76” by CIAT International Center for Tropical Agriculture is licensed under CC BY-SA