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“Considerazioni inattuali” sull’Ucraina

È possibile discutere delle vicende in Ucraina senza ricorrere ad argomentazioni banalizzanti che provocano reazioni stereotipate uguali e contrarie?

Scriverne esclusivamente in astratto omettendo i consueti luoghicomuni sulla politica russa, degli Stati Uniti o sull’allargamento dell’UE? Non parlare di temi in apparenza ritenuti fondamentali come la libertà dei popoli o l’etnicità vera o presunta, la democrazia o il regime autoritario che sempre più spesso diventano alibi o coperture? Una metafora esiste e va ricercata alle origini del pensiero politico.

CONSIDERAZIONI INATTUALI – Intorno al 1876, il filosofo tedesco Friedrich Nietzsche comincia a lavorare alle «Considerazioni inattuali», opera ambiziosa purtroppo rimasta incompiuta, ma che sarebbe oggi importante per leggere la sua filosofia con maggiore sistematicità. Nel progetto del filosofo erano previsti in origine una dozzina di saggi dedicati a vari temi quali il concetto di filisteo nella cultura tedesca, il filosofo, la storia, il ruolo dell’intellettuale, la musica o la nazione in guerra. Ne completò alla fine solo quattro il più famoso dei quali è «Sull’utilità e il danno della storia per la nostra vita». L’autore attacca il sapere storico ipertrofico in maniera ossessiva, caratterizzato da una pletora di spiegazioni sostenute da frenetici specialisti che in realtà amplificano il nulla attraverso lo stesso punto di vista comune. La visione del mondo è alla fine banalizzata da un eccesso di analisi in apparenza diverse, ma in realtà del tutto simili, benché confliggenti e quindi inutili: «Non esistono i fatti, ma solo le interpretazioni». Le considerazioni inattuali enunciano tesi contro i valori dominanti, ma esse stesse ne costituiscono invece il futuro non essendo legate all’immediato, al piccolo beneficio contingente. Esse diventano allora tutt’altro che ‘inattuali’ e devono condurre ad «… agire in modo inattuale, ossia contro il tempo e in tal modo sul tempo e, speriamolo, a favore di un tempo venturo».

IL DIALOGO DEI MELI – Evocata attraverso la citazione di Nietzsche una visione alquanto metafisica delle relazioni internazionali, o meglio della loro analisi possibile, il secondo punto obbliga il ricordo di quello che è stato definito un trattato in miniatura di scienza della politica e delle relazioni internazionaliil dialogo dei Meli (Tucidide, V, 82) da millenni sottende numerosi archetipi giunti in buona salute fino a noi come appunto il rispetto della neutralità, la politica di potenza, la politica coercitiva e alla fine la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali.  Per questi motivi la vicenda presenta un carattere idealtipico i cui significati tornano sovente ad affacciarsi anche nel mondo globalizzato. Melo fa già parte dell’impero ateniese, ma ha goduto fino al momento di una relativa autonomia. Atene non mette in dubbio l’alleanza pura e semplice, né lamenta specifiche infedeltà dei Meli, ma pretende che essa si trasformi in alleanza attiva, in belligeranza aperta contro i comuni nemici. Nell’equilibro generale delle forze la presenza o meno della piccola isola e degli orgogliosi isolani in un campo o nell’altro non sposta gli equilibri generali a favore di alcuno. Atene deve imporre la sua volontà per un motivo assai semplice: nel nome della propria sicurezza, non consente il minimo dubbio sul ruolo di supremazia che esercita su tutta l’alleanza anche attraverso una deliberata azione di forza. 

LA SICUREZZA: OSSESSIONE IMPERIALE – L’argomento della sicurezza dell’impero, alla base di scelte operate in passato descritte da Tucidide, non è nuovo, ma spinge verso una situazione sempre più pericolosa perché dinamica, determinata da un punto di equilibrio che si sposta in avanti imponendo conquiste continue per il consolidamento: Atene ne è conscia e lo si potrebbe definire un rischio calcolato. Nel lungo racconto di Tucidide questo concetto è sottolineato, oltre che nell’episodio di Melo, in almeno altri tre punti. Pericle parla della necessità della guerra per preservare l’impero ateniese; Cleone, esprimendo la necessità di punire severamente e con fermezza chi defeziona, lo ribadisce e infine Alcibiade, nel VI libro (dopo l’episodio di Melo) getta le basi della rovinosa spedizione in Sicilia nel nome della sicurezza di Atene. Tucidide probabilmente non approva, ma riconosce la solida logica del ragionamento contenuta nel dialogo con i Meli. Fa comunque un’osservazione molto importante da cui indirettamente si può ricavare un suo giudizio critico sulla politica ateniese: non si tratta più di atti deliberati, ponderati e voluti ogni volta, ma dettati da uno stato di necessità  che sembra essere fuori controllo dalla volontà politica generale.

Tucidide
Tucidide

IL PUNTO DI VISTA DEI MELI – I Meli nutrono forte orgoglio per la loro indipendenza, verrebbe da dire – con un termine contemporaneo – per la loro identità di isolani e per la loro sovranità. Hanno sempre agito secondo giustizia, rispettato i trattati e attendono di essere trattati anche loro secondo giustizia confidando nella speranza, nell’aiuto degli Spartani o in quello divino. Benché istintivamente sembri che Tucidide nutra simpatia per loro, in altri passaggi ha sempre espresso critiche nei confronti di chi si abbandona a facili speranze, a fantasie non realistiche: in altre parole, anche se non usa mai apertamente l’espressione ingenuo, la lascia facilmente intuire. La critica di Tucidide semmai è rivolta alla natura umana. Altra è la speranza di cui parla ad esempio Pericle (II, 62) che si impone quando gli eventi sono ambigui e problematici. Diversamente si deve sfruttare il calcolo razionale dei fattori in campo, non basarsi su un vago presagio. Anche quando l’atteggiamento ateniese si lascia trasportare dalla speranza basata sulla propria superiorità, Tucidide ammonisce sul pericolo insito nell’abbandonarsi al sogno, a fantasie avventurose che sono parte della natura umana, ma non dell’agire politico. Considerazioni analoghe valgono per l’intervento divino. Tucidide, sebbene non sempre apertamente, informa l’opera allo spirito razionalista del tempo. Memorabile il primo esempio che fornisce al lettore: allo scoppio delle ostilità il Pelargico, un quartiere di Atene, è occupato dai profughi che riparano nella città. Poiché il Pelargico è interdetto per volere degli dei, si diffonde la credenza che questo sacrilegio sia all’origine della guerra, ma Tucidide afferma il contrario: la guerra ha cioè causato i profughi. La storia è degli uomini, non degli dei e la prima connotazione del realismo politico è un processo di disincantamento e oggettivizzazione del mondo umano.

I FATTORI MORALI – Il dato di fatto che resta confinato al di fuori del dialogo – la decisione finale e la resistenza dei Meli – trova però una sua comprensione molto più avanti nel tempo dall’epoca di Tucidide e molto più vicino a noi. Carl von Clausewitz non sottovalutava affatto – come Tucidide (e gli Ateniesi) – le «forze morali della guerra» (Della guerra, III, 3): «è una filosofia ben povera quella che, seguendo gli antichi metodi, arresta le sue regole e i suoi principi al di qua del limite ove cominciano le forze morali […]». Alla fine quindi il fattore morale occupa il primo posto: i Meli assediati riescono con brillanti sortite a tenere a bada gli assedianti, che si rivelano perfino negligenti nel sorvegliare il muro (o poco interessati a condurre con determinazione l’assedio). Alla fine tuttavia la caduta di Melo si rivelerà più su base politica che militare: infatti i filo-ateniesi all’interno della città assediata tradiranno aprendone le porte e dando il via al massacro dei Meli. Se la guerra tra potenze che ambiscono l’egemonia è il tema centrale della «Guerra del Peloponneso», alla fine è la guerra civile che diventa oggetto di riflessione politica e antropologica.

LA VICENDA UCRAINA NEL MOMENTO ATTUALE – La forma originaria della libertà politica consiste nel poter scegliere liberamente tra amici e nemici e il riconoscimento che si ottiene dall’avversario fa parte della propria identità. Dalla crisi in corso sembra ci si attenda ora più che altro la consacrazione solenne di un vincitore o semplicemente del più forte. Le descrizioni correnti (e ricorrenti) dei fatti sono incentrate sul conflitto asimmetrico tra la fiaccola della democrazia e un autocrate aggressivo (USA contro Putin) o sul conflitto tra le più le nobili nazioni dell’Occidente (a volte anche l’UE come retorica non è seconda a nessuno) e uno stato barbaro semi-asiatico (verrebbe da dire ‘rogue state’). Tutto è impostato su queste contrapposizioni: vere o presunte che siano, poco importa. Esse tuttavia conducono direttamente alla retorica della guerra, secondo l’altro principio del realismo politico in base al quale la politica è sempre polemos, anche quando non ricorre alle armi in maniera diretta o aperta. D’altra parte, in un momento di caos estremo come l’attuale, stabilire il concetto di ragione, o di diritto, non sembra impresa facile. Non si tratta ora di giudicare, ma di capire. Non si tratta di schierarsi più o meno apertamente, ma di riflettere sull’essenza delle relazioni internazionali.

Giovanni Punzo

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Giovanni Punzo

Giovanni Punzo (Monaco di Baviera, 1957), dopo la laurea in Scienze politiche (ind. internazionale) a Padova, è stato ufficiale degli alpini per tre anni in Alto Adige e si è specializzato in Diritti Umani. Le passioni per la geopolitica e gli alpini si sono curiosamente incrociate quando è stato richiamato in servizio partecipando a due missioni  in Bosnia e Kosovo tra il 2001 e il 2004 occupandosi di popolazione civile e psyops. Oltre a un breve saggio sul ‘decennio balcanico’ (Il paradigma balcanico. Un conflitto determinante, Cleup) ha scritto anche un libro di ricordi e riflessioni sulle due missioni (Dobro. Storie balcaniche, Cierre).

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