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Lo stato della democrazia in Africa – I

Due parole che non possono stare nella stessa frase, o un’impresa possibile? Cosa succede sotto il Maghreb? Proviamo a fare luce sulle possibilità di sviluppo della democrazia nel continente africano, con questo documento in tre puntate. Nella prima, analizziamo il contesto storico e visualizziamo il quadro generale entro cui tenta di instaurarsi la democrazia, tra fatiche, limiti e fallimenti. Ma anche con alcuni sviluppi positivi e incoraggianti

Anche alla luce di questa fase di grande attenzione nei confronti dei sorprendenti ed inattesi sviluppi politici in Nordafrica, appare importante analizzare lo stato della democrazia in Africa subsahariana, una regione del mondo che e’ probabilmente quella cui si presta meno attenzione dal punto di vista della politica interna, prendendola spesso al contrario come esempio di un fallimento endemico della democrazia.

CONTAGIO DAL NORDAFRICA? – Può l’onda di proteste che ha sconvolto i paesi arabi del Nordafrica attraversare il Sahara e diffondersi anche nei paesi dell’Africa subsahariana? Qual è il bilancio della democrazia in Africa a una cinquantina d’anni dall’indipendenza e venticinque anni dopo la caduta del muro di Berlino, che tanti cambiamenti ha portato anche nel continente nero?

Ipotizzando di scrivere questo testo anche solo due mesi fa, in ogni caso era opportuno tenere fuori dall’analisi i Paesi arabi della riva sud del Mediterraneo, che sono sì africani, ma la cui problematica è in gran parte diversa da quella dei loro soci membri dell’Unione Africana (54 paesi in totale con il prossimo arrivo del Sud Sudan).

I CAMBIAMENTI NELL’AREA MEDITERRANEA – Per quanto riguarda quei Paesi, basti qui sottolineare come la democrazia nel mondo arabo abbia dato sinora scarse prove di sè, riducendosi nella maggior parte dei casi al compimento di riti elettorali privi di valore a causa della scarsa partecipazione (segno di sfiducia degli elettori nel sistema) e delle ricorrenti frodi tese a perpetuare ad aeternum il potere di leader autoritari spesso corrotti ma appoggiati internazionalmente in nome dell’alt agli islamici.

Il tutto in un contesto di scarse o nulle prospettive di cambiamento: gli ultimi due mesi non hanno mutato queste prospettive, salvo l’ultima. Per un concorso di fattori, le popolazioni tunisina ed egiziana (oltre agli eventi libici tuttora in divenire) si sono ribellate come mai avevano fatto, abbattendo proprio quei regimi che sembravano più solidi (hanno sinora resistito meglio quei paesi, come Marocco ed Algeria, nei quali esiste maggior pluralismo).

LIMITI DELLA DEMOCRAZIA IN AFRICA – L’Africa subsahariana è spesso presa come l’esempio perfetto di fallimento della democrazia, che sarebbe un vano esercizio a quelle latitudini. Almeno, questo è il sentire comune in Europa. È vero che esistono molti condizionanti che limitano l’espressione democratica in Africa, ma la realtà è più variegata e ci sono stati degli sviluppi positivi per la democrazia africana negli ultimi anni.

LE INDIPENDENZE AFRICANE – Quando la maggior parte dei paesi africani divennero indipendenti, tra gli anni cinquanta e sessanta, la democrazia elettorale non era considerata una condizione essenziale per i nuovi Paesi. Anche se non mancarono elezioni in quei primi anni, spesso tra partiti definiti in chiave europea e non locale: la politica africana non disponeva di categorie proprie, perchè i processi d’indipendenza presero le potenze coloniali alla sprovvista. Esse non avevano minimamente previsto questa possibilità prima della guerra mondiale e, salvo in pochi casi, non avevano preparato tramite esperienze d’autogoverno una transizione verso l’autonomia dei territori coloniali. La prima preoccupazione dei nuovi stati fu poi di natura economica, più che politica: la chiave del futuro era assicurare agli africani l’accesso alle risorse naturali presenti nei loro paesi, non garantire il funzionamento di una democrazia, concetto poco presente nella cultura atavica africana.

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I LEADER DIVENTANO DITTATORI – Una volta proclamata l’indipendenza e spariti gli imperi coloniali con l’eccezione di quello portoghese, i leader dei processi d’indipendenza si trasformano poco a poco in capi a vita o vengono deposti in frequenti colpi di stato militari, i cui istigatori si trasformano a loro volta in leader con vocazione all’eternità. Nel quadro della guerra fredda, l’Africa diviene un altro scenario del bipolarismo imperiale, nel quale i Paesi si schierano con Mosca o con Washington a seconda della convenienza e degli appoggi ricevuti. In questo contesto, a pochi importa che sopravviva una parvenza di democrazia elettorale. I partiti protagonisti dell’indipendenza tendono a diventare partiti unici con leader inamovibili, che possono essere rimossi solo mediante colpi di stato.

I regimi si fanno personali, plutocratici e di polizia. Di democrazia non si parla più in Africa fino al 1989. In alcuni paesi i colpi di stato sono frequenti e l’instabilità perenne. In altri si consolidano regimi che durano decenni attorno ad un leader (Costa d’Avorio, Zaire, Camerun, Malawi).

CADE IL MURO ANCHE IN AFRICA – La caduta del muro di Berlino cambia completamente il panorama anche in Africa. La sparizione del partner sovietico rende obbligata l’adozione della forma democratica occidentale, divenuta una conditio sine qua non per il mantenimento di rapporti economici privilegiati con le antiche potenze coloniali. Inizia la stagione delle conferenze nazionali, quando l’Africa, un po' a malavoglia, cerca di costruire quasi dal nulla esperienze di multipartitismo, quando sino a poco prima gli oppositori erano perseguitati.

Molto spesso, quello che succede è che l’ex-partito unico, convertitosi al multipartitismo per convenienza, s’impone facilmente in elezioni impossibili da vincere per i partiti d’opposizione: i dittatori si trasformano, negli anni Novanta, in presidenti rispettabili eletti in elezioni plurali nelle quali però hanno goduto di tutti i vantaggi e delle risorse accumulate in anni di permanenza al potere.

L’UOMO FORTE AFRICANO – In questo gioca un elemento importante della psicologia africana, che condiziona parecchio la democrazia nella regione: l’africano tende a rispettare l’uomo forte, traslitterazione del capo villaggio della cultura tradizionale, piuttosto che considerare un suo diritto decidere chi lo debba governare. Per questo motivo di fondo, mentre in Europa dell’Est le prime elezioni multipartitiche videro ovunque la sconfitta dell’ex partito comunista ed il trionfo degli oppositori alla dittatura, in Africa, esse videro generalmente la conferma dell’ex-partito unico che, spogliatosi di una patina superficiale d’ideologia marxista importata, completamente estranea alla cultura africana e trasformatisi in una specie di primus inter pares trionfarono nelle prime elezioni pluraliste (anche se poco aperte).

Ovvia eccezione il Sudafrica, che nel 1994 celebrò le prime elezioni aperte alle persone di colore e che videro il trionfo di Mandela e della sua ANC. Ma il Sudafrica è paese che ha ben poco a che spartire con i suoi vicini in termini di storia e società (e contrariamente alle previsioni di allora, si è trasformato nella prima democrazia africana). Un altro caso simile a quello del Sudafrica è quello dello Zimbabwe, dove lo ZANU di Robert Mugabe si consolidò al potere, senza però ottenere i risultati brillanti del Sudafrica: vi torneremo, ma senz’altro possiamo dire che Mugabe è molto distante da Mandela.

(1. continua)

Stefano Gatto [email protected]

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