Caffè Lungo – Proseguono a Yerevan le proteste contro il Primo Ministro Pashinyan, accusato di tradimento della patria dopo la firma dell’accordo del 10 novembre. I partiti di opposizione e il Presidente Sarkissian invocano le dimissioni del premier, che, tuttavia, mantiene la maggioranza in Parlamento.
1. LA DELUSIONE DEL POPOLO ARMENO
Sembrano destinate a non concludersi presto le proteste esplose a Yerevan il 10 novembre scorso, una data che resterà per sempre nella memoria della popolazione armena, poiché ha segnato la sconfitta nel conflitto in Nagorno Karabakh. La delusione risulta ancora più amara se si pensa che l’Armenia, fino a poche settimane prima, poteva considerarsi, di fatto, la vincitrice del conflitto: grazie al sostegno di Mosca, infatti, Yerevan era riuscita a preservare nel tempo lo status quo consolidato a Bishkek nel 1994, che le aveva permesso di mantenere il controllo sul Karabakh e sui territori limitrofi.
L’emblema della sconfitta è proprio l’accordo che il premier Pashinyan ha firmato con l’Azerbaijan, che ha determinato la perdita di territori essenziali per il controllo della regione contesa. Il Primo Ministro ha dichiarato che la decisione è stata dolorosa, ma anche inevitabile, dal momento che la prosecuzione del conflitto avrebbe portato alla perdita totale dei territori contesi, inclusa la capitale Stepanakert. I problemi, per Yerevan, non si limitano alla sconfitta militare e alla perdita dei territori: il Paese sta affrontando una grave crisi di rifugiati in fuga dal Nagorno Karabakh, diretti verso l’Armenia.
La frustrazione, per il Governo armeno e per la sua popolazione, cresce ancora di più a fronte degli eventi che in questi stessi giorni si stanno verificando a Baku. Per le strade della capitale azera sono state organizzate parate e manifestazioni di orgoglio nazionale. Inoltre il Presidente Ilham Aliyev ha proclamato l’8 novembre “Giornata della Vittoria”: una nuova festività nazionale con cui, negli anni a venire, il popolo azero ricorderà la presa della città di Shushi/Shusha e il conseguente recupero di buona parte dei territori sottratti al Paese negli anni Novanta.
Fig. 1 – Gruppi di manifestanti protestano per le strade di Yerevan, invocando le dimissioni del premier Pashinyan, 11 dicembre 2020
2. LA RESISTENZA DI PASHINYAN ALL’OPPOSIZIONE INTERNA
I partiti di opposizione stanno sfruttando questa fase di crisi politica interna per screditare Pashinyan, accusandolo di essere un traditore della patria e di non aver sostenuto il proprio Paese al tavolo delle trattative con Mosca e Baku. Una coalizione di 17 partiti ha organizzato delle proteste di piazza contro il Primo Ministro e ha proposto di costituire un Governo di transizione che possa rinegoziare i punti più controversi dell’accordo del 10 novembre. Anche il leader della Chiesa Apostolica Armena, Karekin II, ha mostrato il suo disappunto nei confronti di Pashinyan: la sconfitta contro l’Azerbaijan ha determinato infatti la perdita di alcuni importanti luoghi sacri, alimentando la rabbia delle autorità religiose verso il premier.
Nonostante le numerose pressioni, ad oggi Pashinyan continua a godere del sostegno della sua coalizione parlamentare. Secondo la legge armena non è possibile costringere il Premier a dimettersi, fino a quando detiene la maggioranza in Parlamento. Inoltre i 17 partiti di opposizione non costituiscono una coalizione credibile agli occhi della popolazione armena: la maggior parte di essi, infatti, ha giocato un ruolo negativo nella storia del Paese, sostenendo il sistema stagnante e corrotto sviluppatosi in epoca post-sovietica. È stato proprio Pashinyan, con la Rivoluzione di Velluto del 2018, a rinnovare questo sistema, promuovendo la democrazia e lo Stato di diritto e conquistando il favore del popolo armeno. Forte di questa consapevolezza, negli ultimi giorni il premier non ha mostrato segni di debolezza.
Fig. 2 – Dopo la firma dell’accordo con Baku, per molti armeni Pashinyan ha smesso di rappresentare l’eroe della Rivoluzione di Velluto, e si è trasformato in traditore della patria
3. L’INASPETTATO INTERVENTO DI SARKISSIAN
In questa fase di crisi politica interna il Presidente armeno Sarkissian ha preso parte attiva al dibattito sul futuro del Paese. Il suo approccio è una novità nel panorama politico di Yerevan: infatti, con la riforma costituzionale del 2015, l’ex Presidente Sargsyan aveva trasferito la maggior parte dei poteri nelle mani del Primo Ministro, relegando di fatto il Presidente a una funzione meramente simbolica e di rappresentanza. Tuttavia la gravità degli eventi legati al conflitto in Nagorno Karabakh ha indotto Sarkissian a rompere il silenzio. Dopo la firma dell’accordo del 10 novembre, quest’ultimo ha preso le distanze dalla decisione di Pashinyan, accusandolo di non averlo interpellato durante le trattative e invitandolo a dimettersi. Sarkissian ha dichiarato pubblicamente che sarebbe necessario costituire un Governo di unità nazionale, che si sostituisca a quello attualmente al potere e che conduca l’Armenia fuori dalla crisi. Anche durante la sua recente visita a Mosca Sarkissian ha dimostrato un rinnovato e vigoroso attivismo politico, presentando a Putin il suo punto di vista sulla situazione. Ad ogni modo Putin non ha accolto favorevolmente le accuse rivolte a Pashinyan. Al contrario ha elogiato la sua decisione di firmare l’accordo, evitando così di trascinare l’Armenia in una condizione ancora più complessa di quella in cui si trovava a inizio novembre. Ma, soprattutto, decidendo di firmare il trattato sponsorizzato da Putin, Pashinyan ha contribuito, ancora una volta, a rendere la Russia il vero arbitro delle complesse dinamiche del Caucaso meridionale.
Fino ad oggi le proteste non hanno veicolato alcun tipo di cambiamento sostanziale nel Paese: Pashinyan mantiene la carica di Primo Ministro, forte della maggioranza in Parlamento e del favore del Cremlino, i cui disegni politici risultano più facilmente realizzabili con al potere un premier vulnerabile in cerca di supporto esterno. Pashinyan dovrà dimostrarsi capace di sostenere ancora a lungo il peso delle critiche e di una situazione politica difficile.
Chiara Soligo
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