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Buon anno, Afghanistan

Il Giro del Mondo in 30 Caffè – Si è festeggiato due giorni fa in Afghanistan il Nawroz, il capodanno sciita, una delle festività più sentite e in passato vietate dai talebani. Dopo un 2010 particolarmente cruento e segnato dalla ricerca, da parte della coalizione occidentale, di una rapida e indolore via d'uscita, questo nuovo anno nasce in equilibrio sul sottile filo di un termine ambiguo: transizione. Verso cosa?

DA LISBONA A KABUL – …e poi via di corsa. Così potrebbe apparire il nuovo indirizzo politico che emerge nel 2010 in seno alla coalizione internazionale, al suo decimo anno di guerra. Tanti anni, tante vittime, ma soprattutto la concreta difficoltà di dire, oggi, cosa si possa considerare vittoria e cosa sconfitta. Al Qaeda praticamente è stata sradicata dal territorio: una vittoria, ma parziale, perché sacche di terroristi sopravvivono forti a cavallo dei confini col Pakistan e l'Asia Centrale. I Talebani incombono in tante zone del Paese, usano il solito terrore sulla popolazione, fanno guerriglia sempre dura ai nostri militari e intanto trattano in proprio con il governo centrale: sconfitta, ma parziale, perché il fronte talebano adesso è molto meno forte. Così si potrebbero elencare parecchi esempi di parziali vittorie e sconfitte, senza poter tracciare una chiara linea di demarcazione. D'altro canto, dopo dieci anni di combattimenti, i contorni si sfumano anzitutto agli occhi della popolazione che percepisce sempre più le forze militari straniere come occupanti anziché come protettrici, cerca la via della pacificazione nazionale con i Talebani anziché la loro estromissione dal Paese, comincia a maturare scontento verso il governo di Karzai. Ecco allora che diventa prioritario che Karzai, Talebani e militari stranieri chiariscano come e con che tempi intendano rapportarsi alla popolazione, ed è il Summit NATO di Lisbona in Novembre a trovare la chiave di questo riposizionamento: transizione. (Nella foto sopra: festeggiamenti per il Nawroz)

TANTA TATTICA, POCA STRATEGIA – Ma una transizione verso cosa? Anzitutto, verso maggiore sicurezza. Il concetto di sicurezza è però parecchio ampio e tocca tanto la vita militare quanto quella civile. Transizione in questo caso significherà, per come definito a Lisbona, trasferire quanto prima il controllo del territorio nelle mani delle forze di sicurezza afgane da parte degli eserciti stranieri, che proseguiranno, almeno fino al 2014, in una missione che dovrà cercare di convertirsi in missione di formazione e polizia. Se il concetto è certamente valido, non pare però che il contesto sia favorevole: le forze afgane non sembrano tecnicamente e materialmente in grado di gestire il territorio, il programma di affiancamento e formazione sembra frettoloso e, dulcis in fundo, polizia ed esercito sono percepiti dalla popolazione come corrotti e spesso pericolosi. Se non vi sarà infatti un reale miglioramento nel livello di sicurezza umana reale e percepita, difficilmente le operazioni militari e di polizia potranno ottenere risultati stabili. Né pare favorevole la strategia occidentale: essa non dimostra ancora come la missione ISAF possa davvero migliorare la suddetta sicurezza, per ottenere risultati, tutelarsi, e riguadagnare del credito prima di andar via. In questo senso il primo test è già pronto. Appena ieri infatti Karzai ha annunciato le prime sette aree che passeranno a breve sotto il diretto controllo delle forze locali: il distretto di Mihtarlam (provincia orientale di Laghman), le regioni di Panjshir (nord-est), Bamyan (centro) e Kabul (meno il distretto di Surubi), le città di Lashkargah (nella provincia meridionale di Helmand), Mazar-i-Sharif (provincia settentrionale di Balkh) e Herat City. 

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NOI E LORO – Dal punto di vista militare il 2010 ha visto un maggiore impegno in profondità nelle regioni più contese, per guadagnare terreno, ma ha comportato e richiesto più azioni di combattimento, maggiore esposizione dei soldati della coalizione internazionale e di conseguenza più guerra, più vittime militari e civili. Il risultato però non è stato decisivo e le aspettative sono rimaste spesso disattese. Inoltre l'intensità degli attacchi suicidi contro la popolazione e degli attentati con i temutissimi ordigni improvvisati (IED) piazzati sul ciglio delle strade è aumentata, anche in zone del paese generalmente meno toccate delle violenze (ad esempio nel nord). È stato l'anno con più vittime tra gli eserciti occidentali dall'inizio del conflitto.

Per quanto riguarda gli attori locali in campo, andando oltre il dibattito su quali siano i Talebani buoni e quali quelli cattivi, il 2010 ha registrato un fatto positivo, cioè il riavvicinamento e l'instaurazione di una trattativa tra Governo e Talebani, che potrebbe in effetti portare ad un equilibrio di potere interno più rispondente alle reali posizioni sul terreno (nella foto: la tenda in cui si è svolta la Peace Jirga nel 2010). La necessità è però quella di affiancare a questo processo un sostegno per il rafforzamento delle strutture dello Stato, sia a livello centrale che, soprattutto, regionale, altrimenti il rischio sarà quello di tornare ad un frazionamento tale da impedire un qualunque processo di costruzione istituzionale. Il problema cruciale in questa trattativa è che attualmente non esiste un mediatore riconosciuto. ONU, Stati Uniti e Pakistan devono scontare i tanti insuccessi e le ambiguità degli anni passati, mentre Arabia Saudita, Russia e Turchia, pur papabili, non sembrano ancora in grado di guidare una tale trattativa.

COSA ASPETTARSI? – Il rischio Al Qaeda non è oramai alto: per concretizzarsi, i talebani e gli insorti dovrebbero riprendere il controllo totale di parti importanti del territorio, quel che resta di Al Qaeda dovrebbe ri-trasferirsi lì, e dovrebbe essere ripristinata la capacità di formare terroristi. Tutti compiti di lungo periodo: poco o per nulla verosimile che possa accadere. I rischi principali da arginare rimangono traffico di droga, di uomini, e comunque l'estremismo islamico che può destabilizzare le aree adiacenti, come ad esempio i vicini dell'Asia Centrale.

E poi c'è la popolazione, la società civile, l'attore geopoliticamente meno considerato ma il cui peso, se di transizione si vuol davvero parlare, non può che aumentare. Giustizia transizionale e riconoscimento dello status delle vittime, transizione da una economia assistita e che ruota intorno alla guerra a una che possa vedere un minimo di autonomia, transizione verso delle istituzioni più credibili. Questi sono alcuni dei temi che bisognerebbe cominciare a trattare, in parallelo alle questioni militari e diplomatiche.

Il 2011 dunque si pone come l'inizio di un ultimo tentativo che possa consentire di uscire dalla guerra senza lasciarsi dietro solo macerie. Adesso ci sono delle scadenze, non vincolanti certo, ma sapere che il 2014, che il momento del ritiro definitivo delle truppe si avvicina, comporta che delle scelte vengano fatte. I Talebani e gli insorti dovranno decidere se resistere fino al 2014 o se trattare mentre possono ancora ottenere qualcosa non solo da Karzai ma anche dall'Occidente. Gli Stati Uniti e la coalizione internazionale dovranno decidere se defilarsi in sordina passando sulle macerie o se lasciarsi dietro qualcosa che possa evitare di consegnare alla memoria dei popoli solo ostilità.

 

Pietro Costanzo

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Pietro Costanzo

Co-fondatore e membro del direttivo. Mi occupo di cooperazione internazionale nel settore della sicurezza. Vivo a Roma: se volete, vediamoci per un caffè… Ogni opinione espressa è strettamente personale.

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