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Il Mar Cinese Meridionale, un focolaio di rivalità – II

È il sea power, il dominio sul mare, il centro focale delle ataviche e contrastate relazioni bilaterali sino-giapponesi, che turbano gli equilibri nel Mar Cinese Meridionale e nel Mar Cinese Orientale, oscillando tra competizione serrata e cooperazione strategica. Eccovi la seconda parte della nostra analisi sul Mar Cinese Meridionale

 

Leggi qui la prima parte

 

I FATTORI DEL RAPPORTO – Come afferma il Prof. James C. Hsiung, docente di Scienza Politica alla New York University, a caratterizzare i rapporti tra le due più grandi potenze dell’Asia orientale è la combinazione di tre condizioni interagenti:

  1. l’incremento del potenziale strategico del sea power, conseguito al collasso dell’Unione Sovietica e la fine della Guerra Fredda
  2. l’incapacità degli strumenti normativi disposti nella Convenzione sul mare di Montego Bay (le Zone Economiche Esclusive e la Piattaforma Continentale) di risolvere le dispute internazionali sulla sovranità e sullo sfruttamento delle risorse marittime
  3. il riferimento sempre più frequente alla geografia marittima e non solo alla forza militare quale criterio di determinazione della sovranità statale sul mare

Se in passato a governare sui mari erano proprio quegli stati costieri che avevano sviluppato enormemente la flotta marina militare, la crescente importanza acquisita dalla geopolitica delle delimitazioni marittime negli ultimi anni ha indebolito l’eguaglianza tra sea power e potenza navale, incoraggiando la Cina, con le sue 10.800 miglia di costa, a consolidare il proprio dominio sul mare.

Le proiezioni marittime del Paese di Mezzo, storicamente interessato per conformazione morfologica (abbondanza delle terre) a consolidare il proprio potere terrestre, sono dovute essenzialmente alla necessaria dipendenza dalle risorse energetiche extra-continentali e transregionali.

Per coprire il fabbisogno energetico della prima potenza economica asiatica Pechino ha avviato un nuovo orientamento strategico che riflette proprio nel bacino marittimo asiatico il sostegno indispensabile per sostenere gli alti tassi di crescita del 10% annuo. Il 70% del petrolio cinese viene importato dal Medio Oriente e dal Nord Africa via mare, attraverso il transito delle navi petroliere sul Mar Cinese Meridionale e sullo stretto della Malacca, fino in Golfo Persico e oltre. Anche il Giappone, il cui PIL è stimato intorno ai 4000 miliardi di dollari, importa il 90% del suo petrolio e un terzo del totale di gas naturale dal Medio Oriente. Tale dato è significativo del crescente valore geo-strategico dello spazio marittimo, il cui controllo assicura l’accesso all’Oceano Indiano, quindi ai fornitori mediorientali e ai mercati occidentali, l’approvvigionamento delle risorse e la stabilità delle rotte commerciali, quindi delle relazioni economiche internazionali.

 

LA DISPUTA SINO-GIAPPONESE PER LE SENKAKU-DIAOYU – La partita sino-giapponese per l’egemonia regionale si gioca nel Mar Cinese Orientale e nel Mar Cinese Meridionale, con la conquista delle risorse energetiche che ricolmano i fondali, le dichiarazioni di esistenza delle piattaforme continentali e di sovranità sull’uno o sull’altro isolotto che costella il braccio di mare asiatico, la creazione di ZEE (Zone economiche esclusive) e il “sea denial”, la negazione dell’accesso al mare.

Al centro della disputa sono le rivendicazioni di Pechino sugli otto isolotti vulcanici inabitati facenti capo alla prefettura di Okinawa, stretti tra Taiwan e le Ryukyu, che i giapponesi chiamano Senkaku e i cinesi Diaoyu, ricchi di risorse minerarie ed idrocarburi.

Sia la Cina sia Taiwan reclamano l’originarietà della sovranità sulle Senkaku, conquistate dal Giappone nel 1895 poi strappate via dagli statunitensi dopo la seconda Guerra Mondiale e riconsegnate ai giapponesi nei primi anni settanta. Da un lato la normativa internazionale ha disposto i diritti dello stato rivierasco allo sfruttamento economico delle isole fino a 200 miglia dalle linee base, confermando la piena potestà del Giappone all’utilizzo delle risorse naturali; dall’altro gli antagonisti Cina e Taiwan disconoscono lo status di “isole” delle Senkaku poiché scogli inabitati, sostenendo l’infondatezza del presupposto giuridico a cui il Giappone si appella per ribadire i propri diritti esclusivi di sfruttamento. Nel settembre 2010 si è raggiunto l’apice della tensione tra i due giganti asiatici con la decisione di Pechino di sospendere i rapporti bilaterali a livello ministeriale con Tokyo e il proposito avanzato dal premier Naoto Kan di avviare l’attività esplorativa del fondo marino sul limite perimetrale dell’area marittima cinese.

 

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CAUSE DI UN LITIGIO – La causa formale e apparente dello scontro era la prolungata detenzione ad Okinawa del capitano di un peschereccio cinese che, trovatosi nel braccio di mare attorno alle Senkaku, secondo le fonti nipponiche aveva speronato due motovedette giapponesi. Le cause non dichiarate, recondite ma concrete, che hanno condotto a questo confronto sono invece molteplici. Prima fra tutte, la corsa al gas e al petrolio non solo nelle acque intorno alle Senkaku ma in tutto il Mar Cinese Orientale e Meridionale, cui segue l’estensione del controllo giapponese sulla porzione di mare appena oltre lo stretto di Taiwan che limita la ZEE cinese, la navigazione in alto mare e i diritti esclusivi di sfruttamento del sottosuolo. Per assicurarsi il controllo sui mari il Giappone ha confidato nella flotta navale e nei missili balistici sottomarini. Così, il progetto cinese di ampliare l’armamentario con lo sviluppo della tecnologia dei missili balistici sottomarini, l’incremento della spesa bellica, il potenziamento della Marina Militare, l’utilizzo dello spazio marittimo per l’impianto di postazioni di ascolto e spionaggio, hanno spaventato i giapponesi che hanno interpretato la strategia di Pechino come una minaccia vitale agli interessi nazionali. Da ultimo, l’avanzata dello yuan cinese, quale potenziale valuta di riferimento nel Sud-Est asiatico, ha preoccupato Tokyo, tenuto conto del recente acquisto di azioni in renminbi operato dalla Banca Centrale della Malaysia.

 

INTERESSE NAZIONALE USA – Gli interessi geopolitici giapponesi nella regione e le rotte commerciali sono tutelati dagli Stati Uniti, la cui US Navy è a presidio del golfo di Yokohama. L’alleanza tra Stati Uniti e Giappone aveva indotto la Cina ad orientare la propria politica energetica verso la costruzione di gasdotti terrestri, consolidando le relazioni interstatali con i Paesi dell’Asia centrale, allo scopo di assicurarsi le forniture di idrocarburi isolando il Giappone ed evitando lo scontro diretto sui mari. Tuttavia, con la dotazione del Dong Feng-21 D, altrimenti chiamato dai militari statunitensi “killer delle portaerei”, un missile balistico della gittata di 3000 chilometri, il governo di Pechino ha virato verso una nuova “politica oceanica”, che mira ad un riassetto degli equilibri di potere nello spazio marittimo attraverso un potenziamento degli avamposti militari ed un affinamento della tecnologia bellica. Il Dong Feng sarebbe in grado di neutralizzare una portaerei statunitense, quindi di destabilizzare l’ordine nel Pacifico costituendo una seria minaccia agli interessi geopolitici di Giappone e Stati Uniti. Geng Yansheng, portavoce della Difesa del governo di Pechino ha dichiarato che “la Cina ha un’indiscutibile sovranità sul Mar Cinese Meridionale e ha sufficienti ragioni legali e storiche per sostenere le sue pretese sui territori marittimi disputati con altri Stati della regione” in risposta all’affermazione di Hillary Clinton, Segretario di Stato degli Stati Uniti, la quale ha sostenuto che “c’è un interesse nazionale degli USA al rispetto del diritto internazionale nel Mar Cinese Meridionale.

Attraverso esercitazioni militari nel mar del Giappone, “iniziative di confidence building” nei Paesi del sud-est asiatico e un generoso piano di aiuti allo sviluppo, Washington punta a ristabilire la propria supremazia sul Pacifico e nell’intera regione, attuando una politica di containment, finalizzata a limitare le crescenti tendenze espansionistiche cinesi e a deregionalizzare la disputa sul Mar Cinese Meridionale. L’internazionalizzazione della questione fornisce un presupposto legittimante per l’ingerenza statunitense nell’area. E la Cina è pronta a difendere i suoi interessi regionali da questo “attacco” statunitense e come ha affermato il vicedirettore della Guardia Costiera cinese, Sun Shuxian, “nel giro di cinque anni allargheremo la flotta con altre 36 navi da pattuglia, che si aggiungeranno alle 300 che sono già in nostro possesso. Inoltre, installeremo nuovi, moderni equipaggiamenti su ogni imbarcazione, per migliorare le capacità di pattugliamento. L’aumento della capacità è necessario per gestire un crescente numero di dispute territoriali”.

 

Dolores Cabras

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