Inizia oggi “Il Caffè Geoeconomico”, una nuova rubrica che racconta come economia e finanza si intreccino spesso alla politica, portando a dinamiche e evoluzioni che condizionano gli scenari geopolitici attuali. Saranno caffè forti, densi, intensi, decisi, magari non immediati da leggere, ma che vale la pena sorseggiare, anche perché condizionano direttamente le nostre vite. E la prima puntata ne è un esempio concreto: si parte infatti dal tema petrolio
IL COMUNICATO IEA – 23 June 2011, Paris – International Energy Agency (IEA) Executive Director Nobuo Tanaka announced today that the 28 IEA member countries have agreed to release 60 million barrels of oil in the coming month in response to the ongoing disruption of oil supplies from Libya.
La decisione è tecnicamente dell’Iea (agenzia energetica dell’organizzazione che raggruppa le economie occidentali, l’OECD), di fatto fortemente voluta dagli Usa e da questi in gran parte sostenuta (il 50% delle riserve coinvolte). Il comunicato dell’organizzazione spiega che si tratta di una soluzione-ponte in attesa che le promesse saudite di attingere ai propri margini di capacità inutilizzata possano concretizzarsi. Effettivamente una interruzione nelle forniture petrolifere da parte di un importante esportatore (Libia) è in atto, dunque la decisione Iea è formalmente ineccepibile: alle riserve non si può attingere semplicemente per calmierare il prezzo del barile.
LE CAUSE DEL RIALZO – Nondimeno questa è una delle chiavi di lettura prevalenti; dopotutto il flusso libico rappresentava appena un 1.5% dei consumi globali, mentre il prezzo del barile (con riferimento alla qualità che determina il prezzo prevalente sul mercato europeo, il brent) è aumentato negli ultimi sette mesi di almeno un 40-50%, in relazione a ben altre questioni che la crisi libica. Proviamo ad elencarle:
- rischio geopolitico implicito nella situazione di turbolenze e instabilità creata in M.O. dalle primavere arabe;
- violenta impennata nel consumo globale di energia (2010): +5.6%, un dato senza precedenti negli ultimi trentacinque anni. Il dato rispecchia la parziale ripresa dei paesi OECD-Iea, la crescita tumultuosa delle economie emergenti, e il trasferimento di attività manifatturiera dai primi (economie ad alta efficienza energetica) ai secondi (molto più energivori);
- rischio geopolitico crescente dal perdurare della crisi persiana;
- debolezza strutturale del dollaro e dell’euro (unica alternativa credibile come valuta di riserva: per alcuni analisti il petrolio sarebbe, come e più dell’oro, in questa fase, una sorta di bene-rifugio, nonostante la notevole volatilità);
- politica espansiva della Federal Reserve (la Banca Centrale Usa, che, immettendo liquidità crescente, alimenta le disponibilità e le propensioni della speculazione finanziaria, sempre più focalizzata sui contratti a termine – futures – di beni alimentari ed energetici.);
- costi marginali crescenti di estrazione (perché si va a pescare nei “giacimenti estremi”);
- crisi di prospettive del nucleare in Occidente a seguito della catastrofe di Fukushima.
PARZIALI RIMEDI – La politica espansiva Usa dovrebbe essere arrivata al capolinea pochi giorni fa, con l’esaurimento del QE2, l’acquisto di titoli da parte della Federal Reserve (ma la debolezza persistente della congiuntura americana suggerisce che la partita non è chiusa); la crisi greca è stata tamponata (ma non certo avviata a soluzione); le turbolenze nel Golfo sembrano essere state assorbite da un mix di espansione della spesa pubblica, repressione, interventi militari e mediazione politica da parte dei sauditi; con un po‘ di ottimismo, le rinnovabili in forte espansione potranno supplire nel medio periodo alla crisi del nucleare. Anche così il “fronte rialzista” dispone di un imponente arsenale, sia sul versante del rischio geopolitico che su quello dei fondamentali (domanda/offerta), che su quello della speculazione finanziaria.
LETTURE GEOPOLITICHE – Le interpretazioni geopolitiche della decisione Iea si sprecano, dalla lettura persiana (assorbire in parte un rialzo dei prezzi che sta dando ossigeno vitale alla sopravvivenza del regime sotto pressione internazionale), allo scenario centrato sull’Opec (dare un segnale politico chiaro ai falchi dell’organizzazione), a suggestive ricostruzioni di uno scambio di favori con Pechino, impegnata da mesi a sostenere sui mercati titoli di credito emessi dai governi europei.
Sono ipotesi valide e interessanti, ma noi riteniamo che, trattandosi di energia, in realtà ogni ricostruzione, pur centrata sugli aspetti economici – specificamente industriali, o finanziari – sia anche una analisi geopolitica.
DISTORSIONI ECONOMICHE, CRISI POLITICA – In questo senso il segnale incorporato nella decisione Iea è sbagliato rispetto alla politica energetica, ed è pericoloso, un segno di profonda, strutturale debolezza, in chiave politica. Non si tratta di attingere a margini produttivi (estrattivi) inutilizzati (cioè flussi), ma di rilasciare riserve di uno stock finito e precisamente determinato (e neanche tanto cospicuo, data la gittata di medio-lungo periodo delle problematiche rilevanti): quel che si utilizza oggi verrà a mancare domani, l’impatto immediato sull’offerta è in gran parte compensato da aspettative future. Se ciò non dovesse per qualche ragione avvenire, la manovra produrrebbe comunque scompensi pericolosi: l’industria petrolifera prepara espansioni di capacità produttiva future basandosi sugli alti prezzi attuali (e attesi) per finanziare grandi progetti per i giacimenti estremi e su nuove tecnologie estrattive. Qualcosa di simile vale per i programmi di sviluppo delle energie rinnovabili, e per l’implementazione di nuove tecnologie di efficienza energetica. In sostanza l’industria (non solo energetica) assorbe attraverso questi aggiustamenti di medio periodo gli shock petroliferi, il loro impatto sulla domanda di energia delle economie occidentali, e riduce così il potere di condizionamento politico del cartello petrolifero o di singoli grandi produttori. Storicamente è stato così dopo il 1973 e il 1979, e questo dà un certo peso alle posizioni dei rappresentanti sauditi (notoriamente colombe) nei consessi Opec. Con il rilascio di riserve strategiche si è dunque mandato un triplice segnale di sfiducia (o debolezza) da parte del gruppo Oecd, e degli Usa in particolare:
- nella capacità politica di attingere a capacità estrattiva di riserva controllata da paesi amici non-Opec, o del Golfo Persico (Arabia Saudita in testa, naturalmente), se non nell’esistenza stessa di questa capacità marginale. In effetti, i Sauditi non sembrano essere riusciti, nonostante le promesse, a compensare il greggio venuto meno con la crisi libica, in questi mesi;
- nella capacità industriale di liberare risorse energetiche esistenti entro i propri confini, ma accessibili solo grazie a un “salto” tecnologico;
- nella capacità (politica e tecnologica) di rendere l’economia progressivamente meno dipendente dal petrolio (attraverso guadagni di efficienza e/o sostituzione delle fonti)
IL SECONDO TEMPO DELLA CRISI – Se davvero la mossa del 23 giugno è il segnale di una svolta nella gestione riserve strategiche, dovremo concludere che si tratta del secondo tempo della crisi emersa con il disastro petrolifero nel Golfo del Messico: un anno fa la catastrofe ecologica segnalò drammaticamente a quali esiti potesse portare la crescente pressione industriale sulle risorse interne (in gran parte concentrate nel Golfo del Messico), ovvero la prospettiva dell’autosufficienza energetica e l’abdicazione implicita alla capacità di accedere a risorse esterne, grazie alla propria posizione egemonica (o “imperiale”) negli equilibri globali. Oggi assistiamo, forse, a un ripiegamento ulteriore.
Andrea Caternolo [email protected]