L’olio di palma è una delle più importanti materie prime agricole attualmente scambiate sul mercato globale. Si trova in quasi la metà dei prodotti che compriamo al supermercato, ma pochi hanno un’idea precisa di cosa si tratti e di quale sia la sua storia. Sviluppatasi principalmente in Malesia e Indonesia, negli ultimi 15 anni l’industria dell’olio di palma ha raggiunto tassi di crescita vertiginosi. Col successo sono però arrivati ripetuti attacchi da parte delle industrie concorrenti e delle ONG internazionali.
L’OLIO DI PALMA OGGI – L’olio di palma è l’olio vegetale più scambiato a livello internazionale. Ciò è dovuto alla sua versatilità ed economicità. Da una parte offre una resa per ettaro quasi dieci volte maggiore rispetto ai suoi diretti sostituti (olio di soia, cocco, girasole e colza), dall’altra viene impiegato nella produzione industriale di una vastissima gamma di beni, tra cui cibi confezionati, cosmetici, detergenti per la casa e, di recente, biocarburanti. Inoltre, specialmente in Africa e nei Paesi asiatici è usato in cucina alla stregua del nostro olio d’oliva. Questa serie di proprietà gli è valsa il soprannome di “golden crop” o coltura d’oro.
LA CONTROVERSIA – Ancora più interessante è il fatto che la produzione dell’olio di palma è concentrata in soli due Paesi: Malesia e Indonesia, che insieme forniscono oggi l’85% dell’output e il 90% dell’export globale. In trent’anni, dal 1980 al 2010, la produzione mondiale di quest’olio è cresciuta più di dieci volte, da 5 a 55 milioni di tonnellate, sotto la spinta della domanda di consumi da parte di Cina e India. Questo travolgente successo ha permesso alle imprese coltivatrici di rafforzare la propria posizione sui mercati internazionali, diventando in alcuni casi veri e propri colossi nel settore dell’agribusiness. Tuttavia ha anche causato crescenti attriti prima con le industrie concorrenti (vedi Chicco) e più di recente con le ONG che si battono per la protezione dell’ambiente e dei diritti umani.
LA STORIA – Per capire le ragioni di questi attacchi dobbiamo fare un passo indietro e guardare alla storia di questa coltura. Originaria dell’Africa centrale, la palma da olio è stata introdotta in Malesia e Indonesia nel XIX secolo. I coloni europei erano interessati a diversificare l’offerta di prodotti agricoli delle loro piantagioni, che in quei Paesi era troppo sbilanciata a favore della gomma naturale. Nel secondo dopoguerra il Governo malese ha utilizzato l’olio di palma come un volano di sviluppo, puntando su quattro fattori chiave: l’abbondanza di manodopera e terra vergine, la favorevole congiuntura economica (crescita della domanda globale di cibo e crisi dei maggiori concorrenti africani), la presenza di tecnici ed esperti occidentali rimasti durante la decolonizzazione e infine l’introduzione d’incentivi e agevolazioni fiscali per i produttori di olio di palma. Tutto ciò ha permesso alle compagnie malesi di imporsi come leader globali della produzione di questa commodity.
MALESIA E INDONESIA NEL MIRINO – Per far fronte alla crescente scarsità di terra e manodopera, sin dagli anni Ottanta le compagnie malesi hanno investito nella vicina Indonesia, facendo leva su programmi di sviluppo rurale promossi dal Governo locale con il sostegno di agenzie internazionali come la Banca mondiale. La crescita inarrestabile della domanda internazionale ha fatto sì che intere aree di foresta vergine venissero bruciate per far spazio a ordinate piantagioni di palma da olio, che oggi coprono un’area quasi pari alla superficie dell’Irlanda. L’allarme ambientalista è scattato alla fine degli anni Novanta, quando l’industria dell’olio di palma è stata identificata come la principale responsabile della coltre di fumo che per diverse settimane ricoprì parte della penisola malese, impendendo addirittura il traffico aereo a Singapore.
IL PUNTO – Ma è giusto attaccare un’industria che, oltre a essere un motore di sviluppo per questi due Paesi assicura l’occupazione di milioni di lavoratori e ha contribuito a diminuire significativamente il costo dell’alimentazione su scala globale? Come si può coniugare la battaglia per la protezione dell’ambiente con le aspirazioni di riscatto economico degli Stati che lottano contro una secolare povertà?
Di questo tema si era già discusso a proposito della deforestazione in Brasile. Se da una parte le ONG internazionali utilizzano intensivamente i media per combattere la distruzione di flora e fauna a rischio, dall’altra i Governi rivendicano il diritto di utilizzare le proprie risorse per svilupparsi, come d’altronde fecero in passato i Paesi occidentali. I portavoce dell’industria quindi contrattaccano dipingendosi come vittime di attacchi neoimperialisti.
COM’È ANDATA A FINIRE? – Nell’ultimo decennio molto è cambiato sul fronte della produzione di olio di palma. Chi ha vinto e chi ha perso in questa controversia? La risposta sarà l’oggetto della seconda parte dell’analisi.
Valeria Giacomin
(Continua)
[box type=”shadow” align=”alignleft” ]Un chicco in più
Negli anni Ottanta l’industria dell’olio di palma è stata la protagonista di quella che è passata alla storia come la “battaglia dei grassi”. Al fine di colpire le importazioni di olio di palma negli USA, l’American Soybean Association, la potente associazione dei produttori di olio di soia (primo concorrente dell’olio di palma) promosse una campagna per la sostituzione dei grassi saturi, di cui l’olio di palma è molto ricco, con i grassi transgenici che risultano dalla raffinazione di altri olii. In risposta, i centri di ricerca malesi pubblicarono una serie di studi che confutavano la fondatezza di queste accuse e anzi dimostravano la maggiore dannosità dei grassi transgenici, chiudendo così la partita in netto vantaggio.
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