Sovrastata dalla più ampia lotta contro lo Stato Islamico, la guerra civile in Siria è un po’ uscita dalla visuale dell’opinione pubblica. Eppure essa rimane parte importante di quei conflitti che sconvolgono oggi il Medio Oriente. Qual è la situazione ora?
IL QUADRO GENERALE – Nelle scorse settimane tutta l’attenzione è stata rivolta unicamente ai combattimenti nella città curda di Kobane, tanto che, come hanno espresso alcuni commentatori internazionali, per molti la Siria era diventata «quella macchia incognita a sud di Kobane». Eppure è proprio la Siria a darci un’idea delle complessità in gioco oggi nella regione, in una situazione continuamente in evoluzione, eppure anche continuamente statica nelle sue linee essenziali. Assad e i suoi continuano a controllare la parte ovest del Paese, tra Damasco al centro e il mare a nordovest e il Presidente siriano non appare più sul punto di crollare come qualche anno fa, anche se la sua posizione rimane lontana dall’essere salda. Lo Stato Islamico (SI) mantiene l’Est del Paese, attorno alla roccaforte Raqqa e lungo le rive dell’Eufrate, cercando di espandersi soprattutto verso Aleppo, attorno alla quale rimangono le ultime forze ribelli non legate a esso, compresa Jabat al-Nusra (vicina ad al-Qaida), e dove i pochi ribelli che spesso vengono considerati “moderati” (in realtà una galassia di sigle la cui effettiva natura non è sempre chiara) vengono schiacciati tra il regime di Assad e lo Stato Islamico, sempre a rischio di essere spazzati via. A sud di Damasco le unità ribelli addestrate da Giordania e USA continuano ad avanzare molto lentamente e non appaiono in grado di essere (ancora) decisive. In mezzo a questo affresco molto complesso sarebbe sbagliato concentrare le attenzioni solo su Kobane, perché tre sono, in realtà, le battaglie rilevanti per il futuro del Paese.
Il primo scontro è proprio Aleppo. La città devastata è contesa tra ribelli della Free Syrian Army (FSA), Jabat al-Nusra, lo Stato Islamico e il regime di Assad, con linee e alleanze tattiche in continuo movimento. La battaglia è importante perché, oltre a essere un rilevante centro abitato, Aleppo è anche l’ultima vera roccaforte dell’FSA. Se venissero totalmente sconfitti, questo metterebbe effettivamente fuori gioco i ribelli non legati ai movimenti più estremisti. Per questo l’FSA chiede costantemente supporto aereo alla coalizione internazionale, senza però riceverlo. Il secondo scontro è vicino a Deir-ez-Zor, lungo l’Eufrate a sudest di Raqqa. In questa zona, dove si concentrano gran parte delle scarse risorse petrolifere siriane, esiste ancora un’importante base militare e aerea controllata dagli uomini di Assad. I combattimenti nell’area sono aspri e costringono lo Stato Islamico a impegnare forze considerevoli, che altrimenti potrebbero essere rivolte altrove. È anche fondamentalmente l’unica area dove regime e SI combattono direttamente. La base siriana è isolata e la sua capacità di resistenza a lungo è da verificare, ma finché esiste, essa è una considerevole spina nel fianco dello SI. La sua caduta invece fornirebbe nuove armi ed equipaggiamenti agli estremisti. Il terzo scontro ovviamente è Kobane, dove i Curdi, grazie agli attacchi aerei internazionali, sono anche riusciti a respingere lo SI da alcune posizioni a ovest e sud. I terroristi controllano ancora parte della città a est e, lungi dall’essere sconfitti, continuano ad attaccare anche con attentatori suicidi su veicoli pieni di esplosivi, soprattutto a nordest, nel tentativo di conquistare la zona dove è situato l’unico passaggio verso la Turchia. Più lo SI concentra le forze, però, più si rende vulnerabile agli attacchi aerei: nelle parole di alcuni ufficiali americani «lo Stato Islamico si è impalato su Kobane», continuando a inviare mezzi e truppe che sono stati sistematicamente decimati. La situazione è ancora tesa e i combattimenti feroci, ma il peggio sembra essere passato.
Il problema della risoluzione della crisi siriana passa però anche dalla politica, in particolare quella regionale. I ribelli dell’FSA vorrebbero aiuti aerei come i curdi, e la Turchia vorrebbe un impegno internazionale per abbattere Assad. Ma l’Iran ha chiesto agli USA di non farlo in cambio della collaborazione alla stabilizzazione del vicino Iraq. Al momento Washington ha più bisogno di Teheran che di Ankara e dell’FSA e per questo l’appoggio aereo rimane limitato a Kobane. Questo però crea un problema di immagine. Assad bombarda le posizioni dei ribelli e dello Stato Islamico. La coalizione a guida USA bombarda lo Stato Islamico. L’effetto, per alcuni siriani sunniti, è che gli USA e Assad siano diventati alleati – non una buona pubblicità. Al di là della propaganda, rimane comunque una situazione sul campo globalmente statica, anche se il fato dei tre scontri citati sopra potrebbe cambiare le carte in tavola velocemente ed è dunque da tenere sotto controllo: saranno infatti queste battaglie a determinare come evolverà la situazione siriana nei prossimi mesi, sempre con l’occhio rivolto anche a ciò che avviene nei Paesi vicini.
L’entrata in scena della coalizione internazionale anche in Siria ha giocato a favore di Assad e delle sue forze militari. Che i cacciabombardieri statunitensi e dei loro alleati siano quantomeno tollerati nei cieli siriani lo si è visto sin dalla prima notte di raid, quando le difese antiaeree e l’aeronautica militare di Assad non hanno mosso un muscolo per contrastare le incursioni della coalizione. Questo anche perché il Governo siriano era stato avvisato tramite il suo ambasciatore presso le Nazioni Unite dell’imminenza dell’attacco.
Scendiamo ora nel dettaglio e vediamo le dinamiche di ciascuno degli attori sul campo
[toggle title=”ASSAD” state=”close” ] [one_half]Il Presidente siriano ha dichiarato in un’intervista rilasciata all’inizio di dicembre che i raid della coalizione sono del tutto inefficaci, perché sporadici e non coordinati con le operazioni a terra del suo esercito, a causa del rifiuto degli USA e dei loro alleati di aprire un canale di dialogo con Damasco. Questo discorso è vero solo in parte. Assad correttamente asserisce che il potere aereo da solo non è in grado di sconfiggere le milizie dello Stato Islamico, tuttavia gli attacchi dei cacciabombardieri della coalizione hanno messo in difficoltà tali milizie, negando la libertà di movimento di cui precedentemente godevano. Le forze di Assad hanno approfittato della situazione iniziando a colpire le aree dove operano altri gruppi ribelli, sicuramente meno organizzati rispetto allo Stato Islamico e al-Nusra. A testimonianza di ciò, diversi centri abitati prima in mano ai ribelli sono ritornati sotto il controllo delle forze governative.
Il fatto che le diverse formazioni che compongono la galassia della ribellione ad Assad continuino a combattersi tra loro (anche lo Stato Islamico e al-Nusra si sono scontrati in diverse occasioni) favorisce l’azione delle Forze Armate siriane, le quali continuano a essere appoggiate dalla Russia a livello politico, finanziario, addestrativo e di armamenti, dall’Iran (tramite invio di armi, addestratori e truppe pasdaran) e da reparti della milizia libanese Hezbollah. In particolare, il sostegno russo continua a essere fondamentale, poiché con il potere di veto di Mosca in seno al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite risulta impossibile l’approvazione di qualsiasi risoluzione che possa mettere a rischio il mantenimento del potere da parte di Assad. I rapporti tra Mosca e Damasco sono stati confermati nelle prime settimane di dicembre da incontri bilaterali di alto livello, ma con alcune importanti novità. La prima è che i colloqui si siano tenuti in Libano e non in Siria, con Mosca meno propensa che in passato ad assecondare le richieste siriane.[/one_half] [one_half_last] In effetti, Damasco propone l’accensione di un fido o un prestito per 3 miliardi di dollari in un momento in cui la Russia si trova con altre priorità negli scacchieri occidentale e orientale. La delegazione russa ha per contro aperto a colloqui con la Turchia, forse cercando di congelare la questione siriana e prendere tempo tramite una soluzione regionale (parlando di «dolorosi, ma necessari compromessi»). Una mossa poco gradita ad Assad, che non ha potuto capitalizzare le recenti vittorie del suo esercito e il risultato positivo della presa di Hayan (contro lo Stato Islamico) e dei suoi giacimenti di gas, che contribuiscono ad accrescere le garanzie che il Presidente siriano può mettere sul tavolo in cambio di supporto – e mitiga la crisi energetica interna. Occasione persa anche perché la posizione dei governativi su quella porzione di territorio è ancora delicata e lo Stato Islamico continua a incombere sull’intera provincia (al-Shaer). Entrambi i contendenti si scontreranno ancora sia per i giacimenti che nel più ampio contesto della battaglia per Homs. Il vantaggio derivante dalla posizione attuale non è quindi garantito fino ai colloqui successivi.
Per contro, la minaccia dello Stato Islamico ha concentrato l’attenzione statunitense ed europea su quest’ultimo e sulla grave recrudescenza del fenomeno jihadista ispirato e fomentato da al-Baghdadi. Questo ha significato un allentamento della pressione politica su Assad e per alcuni versi anche una parziale congiuntura di interessi tra Damasco e quelli che nel 2011 si profilavano come nemici. Per esempio, proprio nel corso del confronto su Hayan alcuni raid della coalizione (pur indipendenti dall’azione siriana) hanno contribuito al vantaggio delle forze di Assad. Al momento la posizione di Assad sembra rafforzarsi anche ai danni del Free Syrian Army, che, nonostante i limitati successi a sud del Paese, è l’attore al momento più sofferente.[/one_half_last][/toggle]
[toggle title=”HEZBOLLAH E IL LIBANO ” state=”close” ][one_half]L’intervento attivo di Hezbollah a fianco del regime di Assad porta ad analizzare le conseguenze della guerra civile in Siria sul vicino Libano. Questo Paese è composto da molteplici gruppi etnici (sono 18 quelli ufficialmente riconosciuti), proprio come il vicino in crisi, dove queste differenze etnico-religiose sono sfociate in conflitto aperto. È quindi un Paese che, sotto pressione politica, si incrina facilmente in ragione della propria frammentarietà. La crisi siriana non aiuta in questo senso, dal momento che, dal punto di vista economico, la guerra civile in Siria e in Iraq ha bloccato una delle principali fonti di entrate libanesi, ossia l’utilizzo dei suoi porti sul Mediterraneo per il passaggio delle merci verso questi due Paesi – e verso il Medio Oriente in genere. La situazione economico-sociale è aggravata anche dalla presenza di circa 1 milione di profughi siriani presenti in Libano su una popolazione di circa 4 milioni.[/one_half] [one_half_last]Inizialmente accolti con favore, dopo circa 3 anni la loro permanenza sul suolo libanese sta iniziando a creare alcuni problemi al Governo per quanto concerne l’accoglienza in diversi centri abitati, dove comitati di residenti hanno imposto limitazioni sia alla presenza sia alla libertà di movimento dei rifugiati siriani. Per concludere, non è da sottovalutare che la partecipazione attiva di Hezbollah agli scontri in Siria abbia scatenato polemiche all’interno del Governo libanese (di cui Hezbollah fa parte) sulla molteplice natura del gruppo, ossia partito politico musulmano sciita (fortemente alleato di Teheran) e movimento orientato al sociale dotato di milizie armate. Gli scontri di confine tra l’esercito regolare libanese e lo Stato Islamico, che pure non è riuscito a penetrare in libano, hanno accresciuto la tensione, oltre a provocare vittime dirette (alcune decine di soldati libanesi rimasti uccisi. Tensione palpabile sia a livello politico che sociale.[/one_half_last][/toggle]
[toggle title=”FREE SYRIAN ARMY” state=”close” ][one_half]L’Esercito siriano di liberazione (Free Syrian Army) è attivo dal 2011 ed è stato fra i primi sostenitori dell’insurrezione armata che ha attaccato frontalmente il regime di Bashar al-Assad. Nato da una costola eversiva dell’Esercito regolare siriano ribellatosi alla repressione dei rivoltosi del 2011, ha conosciuto alti e bassi ed è attualmente una delle forze che si oppone allo Stato Islamico.
A oggi il Free Syrian Army è composto da circa cinquantamila militanti a tempo pieno. Il comandante in capo del FSA è Abdel al-Ilah al-Bachir. L’FSA è costituito su un comando centrale al quale fanno capo i vari comandi regionali suddivisi in brigate. Si tratta comunque di una milizia irregolare e le brigate hanno in realtà l’entità di circa mille ribelli suddivisi a loro volta in gruppi di combattimento. I gruppi di combattimento (molto simili per entità alle compagnie di un esercito) esprimono delle squadre o gruppi di decine di combattenti che operano sul terreno. Come si nota, pur essendo una milizia e non un vero e proprio esercito, vi è un’ottima organizzazione dovuta alle origini militari dell’FSA. L’FSA dispone di forze esclusivamente terrestri (mentre, per esempio, lo Stato Islamico gode del supporto aereo) armate con armamento leggero e medio (AK-47, mitragliatrici e RPG). Il sostegno statunitense, fornito nell’arco del 2014 all’FSA, lo ha portato a possedere anche armamenti medi (sino a mortai calibro 81mm di produzione occidentale). Vi sono poi minime entità di artiglieria (mortai 120mm) e vi sono evidenze che i guerriglieri si siano ingegnati nella produzione in proprio di razzi. I mezzi di cui dispongono sono pick-up e jeep leggeri. L’efficienza e la motivazione dei quadri rimangono alte, nonostante la situazione critica dello scontro con lo Stato Islamico. Tuttavia il vero cancro dell’FSA è la diserzione in massa delle truppe per passare alle file dello Stato Islamico.
Il miglior periodo della breve storia dell’FSA è stato l’anno 2012, quando molti generali dell’Esercito Siriano, fra cui il Generale Mustafa al-Sheikh, disertarono per unirsi all’FSA. Durante quell’anno si raggiunse la massima estensione del territorio controllato, nel Nord della Siria. Sempre nel 2012 si raggiunse un accordo di coordinamento con l’Higher Military Council (altra milizia ostile al presidente Assad). A partire dalla seconda metà del 2012, nella crisi siriana, si è arrivati a una situazione di stasi dei combattimenti, che, unita alla mancanza di coordinamento e all’indisciplina di certe unità dell’FSA (trasformatesi in bande criminali) ha portato a un indebolimento dello strumento. Col 2013 si sono profilate le principali minacce per l’FSA: l’ancora presente e organizzato esercito lealista del presidente Assad e il neonato SI. Infatti, nonostante nel 2013 il supporto americano sia divenuto più nutrito con una speciale decisione del Senato, è venuto meno il supporto turco e quello dei Paesi del Golfo persico. Molti Stati arabi sono stati intimoriti dalla violenza e dalla consistenza dello Stato Islamico e hanno deciso di affievolire gli aiuti. L’SI, già organizzatosi in strutture politiche e dotatosi di mezzi di finanziamento, ha saputo sfruttare la debolezza dell’FSA e ne ha approfittato in due modi.
In primo luogo, ha corroso dall’interno l’FSA, con la propaganda del terrore e le promesse di migliori condizioni economiche, causandone la defezione e il passaggio fra le proprie fila di migliaia di guerriglieri. In effetti, molte sono le storie di combattenti che, in barba agli obiettivi nobili declamati nelle proteste, hanno sempre combattuto per scelta di opportunità e vedendo nella ribellione un modo di ingrossare le proprie finanze.
In secondo luogo ha iniziato una forte offensiva al Nord che ha causato forte perdite territoriali all’FSA. In questo quadro disastroso, l’esercito lealista siriano ha ripreso la propria pressione a ovest e a sud dalle città controllate dal regime.
Arriviamo al 2014, quando, nonostante l’avanzata dello SI, l’FSA ha trovato la forza di riorganizzarsi e conquistare posizioni a sud e nei pressi del confine israeliano. Mentre lo SI è stato arginato a nord dalle milizie curde, in questa guerra di tutti contro tutti le principali speranze per l’FSA risiedono nella volontà occidentale di sopprimere lo spettro di al-Baghdadi. L’FSA ha cominciato a muovere i primi passi realmente politici: si è pienamente integrato nel Supreme Military Council dei ribelli siriani.[/one_half] [one_half_last]Proprio all’interno di questa organizzazione ha promosso il 25 settembre un incontro in Turchia (facilitato da diplomatici e servizi americani). Nel meeting si è firmato un accordo con organizzazioni cristiane, supportate dagli Stati Uniti (e l’azione morale vaticana) per combattere unitamente il Governo di Assad e lo Stato Islamico. Sembra quindi che l’estremismo dell’SI si stia trasformando nell’arma vincente per l’FSA, capace così di accattivarsi le simpatie occidentali e magari strappare quanti più aiuti possibili dall’Occidente e dalle mani delle milizie curde. Ma la guerra civile, si sa, lascia davvero poco spazio a concetti differenti dal realismo estremo.
Per quanto riguarda la dimensione economica, nel vuoto di potere immediatamente seguente alla rivolta del 2011, come è noto, il maggiore supporto all’FSA venne dalla Turchia. All’inizio del 2012 i tre principali comandi dell’FSA si trovavano infatti in territorio turco. La tolleranza, spesso trasformatasi in supporto, del Governo sunnita turco (da sempre avversario degli sciiti alawiti siriani) fu ottenuta attraverso la mediazione dello sceicco Anas al-Ayrout. Lo stesso capo del Consiglio nazionale siriano (organo politico dei rivoltosi, al quale si riferiva l’FSA) aveva una rappresentanza in Turchia guidata da Khaled Khoja. Con il protrarsi e l’inasprirsi della guerra civile e la recrudescenza del problema Stato Islamico, la Turchia – e dietro la dinastia saudita – hanno iniziato a raffreddare i propri rapporti anche con l’FSA. A oggi il maggior supporto per l’FSA viene dagli Stati Uniti, mentre gli aiuti europei sono concentrati sulle milizie curde. L’FSA non ha saputo darsi struttura politica ed economica, a differenza dello Stato Islamico e dipende quasi esclusivamente dall’aiuto esterno. Al contrario però ha saputo dimostrare, con il Supreme Military Council, una discreta scaltrezza diplomatica, arrivando a siglare, in settembre, un accordo di fronte comune anti-Assad e anti-SI con le organizzazioni cristiane. L’inedita fratellanza (non più solamente musulmana) servirà sicuramente a captare le risorse che l’Occidente devolverà ad arginare al-Baghdadi. Dubbi permangono tuttavia sull’efficacia e l’effettiva destinazione dei fondi. In effetti, a dispetto della sua natura laica, una parte dell’FSA è oggi appoggiata dai Fratelli Musulmani di Siria, che hanno saputo attrarre finanziamenti dal Qatar, ma che per contro hanno fatto perdere quelli sauditi in virtù della rivalità crescente tra Doha e Riyadh (quest’ultima ha anche bandito i Fratelli Musulmani). Strane alleanze, quindi, in nome della lotta al regime, che danno luogo a duri confronti, non solo politici. Per questo motivo gli Stati Uniti e la Giordania hanno preferito opzioni alternative, come la creazione di forze autonome al di fuori della Siria, da inserire solo dopo adeguata preparazione. Previsti infatti 5mila uomini da preparare in Giordania, i primi dei quali hanno già terminato il ciclo di addestramento e hanno riportato buoni risultati sul campo. Il progetto di una seconda forza di 2mila uomini da nord – da addestrare in Turchia – sembra invece congelato a causa delle scarse risorse economiche disponibili e, appunto, della diffidenza statunitense nei confronti della connivenza di alcune frange dell’FSA con forze politiche islamiste.
La strategia dell’FSA si basa sulla guerriglia, ma i comandanti, ex-ufficiali dell’esercito, non hanno mai inteso la guerriglia in maniera terroristica. Si mettono in atto fondamentalmente raid e colpi di mano indirizzati a recuperare risorse logistiche (armi e mezzi) e a occupare punti strategici. Solo in alcuni casi, a partire dal 2014, l’FSA ha attaccato per ottenere il possesso di territori consistenti (come nel già citato caso nel Sud della Siria). L’addestramento dei comandanti è buono, provenendo essi da un esercito regolare. I problemi più grandi per l’FSA sono (oltre alla carenza di mezzi blindati e corazzati) l’addestramento e la disciplina delle truppe. Infatti i miliziani si sono rivelati troppo spesso e troppo facilmente pronti a disertare di fronte a minacce o a offerte economiche più generose. Sono state altresì registrate scorribande ed estorsioni ai danni dei civili da parte di reparti dell’FSA. La capacità di pianificazione dei quadri è potenzialmente buona per le condizioni di un esercito di guerriglia, ma è stata messa alla prova solo nel 2014, quando, di fronte alla minaccia dell’SI, l’FSA ha iniziato un maggior coordinamento con la dimensione politica.[/one_half_last][/toggle]
[toggle title=”AL NUSRA” state=”close” ][one_half]Jabhat al-Nusra è una delle prime anime della rivoluzione, attiva fin dal 2011 nel cercare di esautorare Assad in favore di un Governo guidato da sunniti. Il Fronte al-Nusra non è un movimento unico con una catena di comando unificata, ma, come tutti gli attori coinvolti, si compone di una pletora di movimenti e sottogruppi. Partito da posizioni moderate e in parziale accordo con l’Esercito siriano libero, al-Nusra è divenuto sempre più radicale nel corso del tempo, fino a divenire la longa manus di al-Qaida in Siria. In effetti, dal 2011 in poi, sia al-Qaida che l’allora Stato Islamico di Iraq foraggiarono abbondantemente al-Nusra, attirandolo in quota jihadista e favorendo l’afflusso di combattenti stranieri in Siria. In realtà i leader delle rispettive formazioni, Mohammad al-Golani e Abu Bakr al-Baghdadi non hanno mai nascosto i loro dissapori e le loro divergenze sulla strategia generale da adottare. Il primo mirava al rovesciamento del potere in Siria per prenderne la guida, il secondo aveva un progetto politico – come abbiamo visto – più ampio e ambizioso. In seguito alla presa di Mosul da parte dell’allora ISIS e alla proclamazione dello Stato Islamico (giugno 2014), le divergenze si sono trasformate in frattura netta e hanno sancito la riduzione di importanza di al-Nusra. In effetti, parallelamente, al-Baghdadi è entrato in rotta anche con al-Zawairi (leader di Al-Qaeda Central) e si è quindi proposto come alternativa ad al-Qaida, diventandone un competitor. Lo Stato Islamico in ascesa ha assestato un colpo molto duro ad al-Nusra: molti suoi combattenti, di fronte a una scelta di campo, hanno preferito il modello vincente dello SI. Lo sfaldamento ha anche causato la perdita di importanti capisaldi territoriali, il più importante dei quali, Deir ez-Zor, che è passato allo SI, sebbene oggi sia nuovamente conteso. La crisi ha determinato anche un ritiro dal Sud del Paese e quindi la libertà di azione per l’esercito di Assad, che ha riconquistato alcuni territori. Al-Nusra ha però dimostrato una grande resilienza ed è rimasta un attore centrale. Negli scorsi mesi, i combattenti internazionali hanno ricominciato ad affluire, segnale positivo a detta di al-Golani, il quale spera di poter riprendere posizioni e prestigio dallo Stato Islamico, pur continuando la battaglia principale contro Assad. In effetti, sebbene arroccato nel Nordovest del Paese, al-Nusra ha ottenuto recentemente alcuni successi e ha quasi raggiunto il passo di Bab al-Hawa, al confine con la Turchia, prima controllato dallo SI, allargandosi anche a scapito dell’FSA nell’intera provincia di Idlib.[/one_half] [one_half_last]Una parte delle recenti riconquiste si deve sicuramente al supporto di al-Qaida, che ha intensificato il suo coinvolgimento nel conflitto per contrastare lo SI. Assetto pregiato delle forze di al-Nusra dall’estate a oggi è stato in effetti il gruppo Khorasan, composto da jihadisti di alto rango di al-Qaida, buona parte dei quali provenienti dalla penisola arabica, e forgiati da anni di militanza e campagne militari dall’Africa all’Asia centrale. La loro presenza tra le fila di al-Nusra, nonostante il loro numero esiguo (poche decine di uomini) ha sancito l’ulteriore spostamento verso l’estremismo, ma ha anche permesso al fronte di raggrupparsi i seguito allo sfaldamento post-scissione. Il gruppo Khorasan si è inoltre distinto sul campo di battaglia per preparazione e abnegazione, agendo da trascinatore nella recente campagna per Idlib. E proprio da Idlib al-Golani vuole cominciare la “ribalta”: tramite Manara al-Bayda, il gruppo di media controllato da al-Nusra, il leader ha proclamato un emirato islamico nel Nordovest siriano, facendo ben attenzione a distinguerlo nelle sue fattezze dal Califfato di SI. In effetti, Golani vuole ricalcarne la formula vincente sul territorio, ma ribadendo la sua volontà di mirare a Damasco e governarla nel senso politico del termine, più che in senso strettamente religioso. Significativa in tal senso la “non belligeranza” proclamata nei confronti degli altri gruppi anti-regime ad Aleppo in funzione anti-Assad. Rimane tuttavia il carattere islamista del suo modello di riferimento, che prevede l’amministrazione della giustizia, dell’economia e della vita sociale secondo la shari’a. Per Al-Nusra potrebbero aprirsi ora nuovi scenari, soprattutto in funzione della posizione turca in caso di scontro tra le proprie forze e quelle degli alleati di Ankara, ma anche nei confronti dello Stato Islamico, con il quale potrebbero esserci dei negoziati (un’alleanza tattica, magari, lo strumento più usato nel contesto siriano tra le fazioni in lotta) in funzione anti-Assad, adesso che i due competitor sono accomunati dalla minaccia dei raid che colpiscono ormai anche le posizioni di al-Nusra.
Al fianco di al-Nusra, anche se non direttamente inquadrato, opera inoltre il Fronte Islamico, un gruppo salafita che combatte al fianco di al-Golani in quanto affiliato ad al-Qaida, ma che ha mire ideologiche fondamentaliste più che obiettivi politici legati alla spartizione della Siria in sé. Appoggiato dagli sceicchi sauditi, che, impegnati nella campagna al fianco degli USA, non possono ufficialmente finanziare (e per certi versi non vogliono più) al-Qaida, il Fronte Islamico si pone inoltre come contraltare all’intervento qatariota nel conflitto siriano, anche questo teatro della competizione regionale tra Riyadh e Doha.[/one_half_last][/toggle]
[toggle title=”ISIS” state=”close” ][one_half]Lo Stato Islamico continua a essere il grande nuovo protagonista della crisi siriana. Dalla presa di Mosul in poi i suoi territori si sono estesi continuamente a scapito di tutti gli altri attori coinvolti, compresi Governi siriano ed iracheno. Il tempismo del Califfo è stato davvero la chiave di volta del successo dello SI. La proclamazione della nuova entità territoriale è arrivata in un periodo in cui esistevano ampie porzioni di territorio dell’Est siriano nelle quali Assad stava operando una ritirata tattica e non erano ancora stati ripresi dagli attori di opposizione. Queste fasce di territorio e la capacità negoziale di far presa sulle tribù e sui potentati locali hanno immediatamente creato uno zoccolo duro attorno al quale al-Baghdadi ha potuto costruire una presenza territoriale forte, pur mantenendo le caratteristiche di fluidità delle forze che tanto sono difficili da contrastare. Parallelamente, l’analoga perdita di presa politica sulle province sunnite dell’Iraq di Maliki ha ulteriormente accresciuto le possibilità di Baghdadi di ampliare il proprio bacino di risorse e la propria importanza. Il sinolo tra jihad internazionale e radici territoriali condite da solide condizioni economiche ha fatto dello SI un attore vincente in un contesto frammentato e privo di potere centrale. Più che la consistenza delle sue forze, non paragonabile a quella nominale delle Forze Armate di Iraq e Siria, il tratto temibile del Califfo è la capacità di penetrare a fondo e scardinare i tessuti sociali nei quali si è trovato a operare, salvo poi pervertirli a proprio vantaggio. Per contro gli altri gruppi nella guerra civile, nel caso siriano, hanno rivelato enormi lacune nella governance dei territori sui quali via via sono passati, rimanendo in uno stato di perenne debolezza. Gli Stati (Iraq e Siria), invece, hanno accusato la frammentarietà del proprio tessuto sociale al punto da non poter impiegare la totalità delle forze a loro disposizione sul territorio (per problemi legati a diserzione e lealtà), avvalendosi solo di una frazione di esse – di sicura lealtà – e di conseguenza diluendo l’incisività dell’operato statale nel contrastare una minaccia tanto dirompente. A oggi lo Stato Islamico è probabilmente l’attore più forte in Siria. Tuttavia, rispetto ai mesi passati, l’espansione territoriale è cessata e qualche zona è stata addirittura persa. Il Califfato è rimasto inoltre impantanato a Kobane e, in generale, lungo il fronte curdo, dove paga ogni piccolo avanzamento a carissimo prezzo. Rimane invece incontrastato il suo dominio su al-Raqqa e lungo la cosiddetta “jihadist highway”, una regione che include Siria e Iraq e si estende dal confine nord tra Siria e Turchia ad al-Raqqa, e da lì a Ramadi, nel cuore dell’Iraq.[/one_half] [one_half_last]L’intervento internazionale ha sicuramente pesato sulle capacità complessive delle unità di al-Baghdadi, che fanno fatica a raggrupparsi senza diventare oggetto di raid aerei, ma anche di situazioni inattese che hanno inchiodato l’SI sulle proprie posizioni, prima fra tutte il confronto con i curdi siriani e iracheni che, a dispetto dell’inferiorità di mezzi e risorse economiche, si stanno rivelando coriacei e determinati. Il rallentamento delle operazioni in Siria è coinciso anche con la riduzione dei flussi di denaro del più ricco movimento terroristico del mondo. Gli Stati Uniti e i Paesi europei hanno incrementato gli sforzi per tracciare i fondi del Califfo e fermare i flussi di denaro dall’estero, mentre sul campo i raid prendono di mira gli impianti petroliferi e le altre attività economiche che assicurano il sostentamento dell’imponente apparato militare dell’SI. Ancora una volta però, l’SI sorprende per la sua capacità di adattamento, quanto per la sua crudeltà. Per compensare le perdite economiche, l’SI ha intensificato le attività criminose transnazionali a scopo di lucro, oltre a stringere la morsa sui territori sotto controllo imponendo gabelle. In particolare, l’SI ha favorito massicci flussi migratori verso Libano, Turchia e Paesi esteri in genere con “lasciapassare” e “protezione” a pagamento, estorcendo grosse cifre ai profughi in fuga. È notizia dei giorni scorsi l’ampliamento del business legato al traffico illecito di organi e a quello di esseri umani condotti in schiavitù. 25mila persone, secondo l’Alto Commissario per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, con le quali il Califfo ricava un flusso di denaro dell’ordine dei milioni di dollari.
Della postura strategica dello Stato Islamico e della sua dimensione economica abbiamo già parlato sulle nostre pagine. Rimandiamo quindi, per brevità a:
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[toggle title=”CURDI SIRIANI” state=”close” ][one_half]Nel grande risiko siriano, nel quale i territori vengono persi e riconquistati più volte da fazioni diverse, i curdi (sia in Siria che in Iraq) sono l’attore più legato al territorio e che più ha impostato la propria strategia sulla difensiva. Inizialmente parte delle forze che contrastavano Assad, i curdi siriani hanno approfittato della crisi del regime per consolidare nelle proprie mani la porzione di territorio che hanno tradizionalmente sempre reclamato. In effetti, al momento, i rapporti tra il PYD (Partito dell’unione democratica) siriano e Assad sono neutri e pare sia stata negoziata ufficiosamente una non belligeranza che ha fatto molto comodo a entrambi. In pratica, i curdi hanno combattuto contro il regime nella misura in cui questo non riconosceva la loro indipendenza. In cambio di autonomia, hanno quindi impostato il loro ruolo nella guerra civile siriana sulla difesa della loro popolazione e del loro territorio. Oggi i curdi controllano un territorio che comprende la provincia di Afrin, nel Nordovest siriano, la provincia di Hassakeh e alcuni territori attigui, e l’enclave di Kobane, ormai nota per la strenua resistenza dei combattenti curdi accerchiati dallo Stato Islamico. La loro difesa territoriale, espressa con le milizie YPG (Unità di protezione della popolazione), è rivolta verso qualunque nemico ambisca a controllare il territorio di propria pertinenza, ma, negli ultimi mesi, i curdi siriani hanno affrontato in maniera prevalente lo Stato Islamico, rimasto incontrastato in quell’area, come abbiamo descritto precedentemente. La prolungata lotta dei curdi siriani contro lo Stato Islamico ha accresciuto negli ultimi mesi il loro prestigio nei confronti della comunità internazionale e sta favorendo il riconoscimento come autorità politica in grado di governare l’area sulla quale insistono. Credibilità corroborata dalla loro posizione statica e dai loro obiettivi politici ben definiti, anche se non altrettanto ben posti in termini di coerenza e coesione della popolazione curda in genere.[/one_half] [one_half_last]Infatti, se da una parte lo Stato Islamico rappresenta una minaccia di prim’ordine per le limitate forze e le risorse dei curdi siriani, dall’altro l’effetto del nemico comune ha cementato i rapporti con le varie entità territoriali, con quella irachena in particolare. Fino all’inizio del 2014 e prima che la minaccia al-Baghdadi divenisse così grave, i vari “partiti” curdi si fronteggiavano senza esclusione di colpi, approfittando della debolezza siriana e irachena per dare libero sfogo alle loro beghe politiche, talvolta sfociate perfino in omicidi mirati di reciproci esponenti. Le colonne di soccorso partite dal Kurdistan iracheno alla volta della Siria hanno avuto un significato politico molto più carico rispetto all’aiuto effettivo nella conduzione della campagna e hanno sancito la creazione di un fronte comune e l’accantonamento (forse temporaneo) delle vecchie ruggini per affrontare la minaccia jihadista. Questo asse mette tuttavia in crisi la Turchia, così come gli attori internazionali intervenuti in Siria, in quanto se le ostilità cessassero, la questione curda sarebbe tra le prime da affrontare e sarebbe sostenuta stavolta da interlocutori forti che amministrano un territorio effettivo, per giunta difeso validamente. Ancora una volta il giro delle alleanze tacite o palesi si rivela strano e intricato. Se da una parte i curdi siriani ricevono pochissimi aiuti in confronto a quelli iracheni, dall’altra usufruiscono dei raid statunitensi, francesi e inglesi, senza che alcuna alleanza possa tuttavia essere formalizzata, in quanto il PYD è formalmente registrato come movimento terroristico (insieme al PKK) e i turchi premono perché resti tale.
Della postura strategica dei curdi in Siria e Iraq della loro dimensione economica abbiamo già parlato sulle nostre pagine. Rimandiamo quindi, per brevità a:
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Per avere una visuale più ampia su questo conflitto è utile inoltre osservarne gli aspetti geografici:
CONCLUSIONI – Questa rapida carrellata sui principali attori che operano sul territorio siriano rappresenta con discreta approssimazione la fotografia della Siria in queste settimane. La complessità e principale difficoltà della guerra civile in Siria risiede nel fatto che la situazione non trova dal 2011 una “cristallizzazione”. La foto analitica che scattiamo oggi della Siria è diversa da quella di sei mesi fa, come da quella che avremo tra sei mesi. Tuttavia, i protagonisti della foto rimarranno gli stessi, in posizioni diverse e abbracciati a diversi sodali, ma sempre a galla nel calderone siriano. Come abbiamo avuto modo di osservare, le alleanze sul territorio cambiano in continuazione e non raggiungono mai il livello strategico. Lo stesso vale per quelle tra gli attori locali e quelli internazionali. Come abbiamo descritto fin dall’inizio, al continuo susseguirsi degli eventi non corrispondono altrettanti stravolgimenti politici, in una situazione di perenne stallo. I territori controllati da ciascuna delle fazioni variano: a pesare nella capacità di operare valutazioni presenti e future è l’assenza di un fronte vero e proprio. La guerra in Siria è difficile da spiegare, perché, con l’importante eccezione del fronte curdo, non esistono luoghi che appartengano in maniera indiscutibile a uno degli attori interessati, ma ciascun posto, dovunque nel Paese, cambia appartenenza con facilità. Nessuno può dirsi mai veramente vincitore, nessuno veramente sconfitto. Al momento attuale i due attori in vantaggio nel bilancio complessivo sono lo Stato Islamico e Assad, ma non è scontato né che il trend continui, né che ci siano nuovi cambi nei rapporti di forza con le contro-offensive di al-Nusra o dell’Esercito siriano libero, considerando anche l’impatto dell’altalenante coinvolgimento delle potenze estere. A tal proposito, la Siria è l’esempio più eloquente del trend attuale, che vede un mondo con sempre meno conflitti inter-statali, eppure ogni giorno più insicuro. I Paesi o le coalizioni che si affrontano in Siria non hanno mai avuto intenzione di combattere per i siriani, ma nemmeno per se stessi direttamente. Nessuno vuole la guerra, ma tutti la foraggiano. I grandi conflitti sembrano lontani e Stati Uniti e Paesi europei appaiono particolarmente affezionati alla pace intesa in senso tradizionale. Formula che piace anche agli Stati più ambiziosi e che magari vorrebbero sostituire proprio gli Stati Uniti alla guida dell’ordine mondiale. Nemmeno per loro il conflitto convenzionale è una ricetta accettabile. Eppure, la scarsa voglia di combattere e sacrificare vite e denaro contro l’avversario non ha portato verso la pace, ma verso situazioni che per numero di morti, danni arrecati e crudezza nulla hanno da invidiare ai conflitti classici. La crisi siriana continua a rappresentare l’esempio più eloquente del trend geostrategico attuale, che vede l’istituzionalizzazione de facto della guerra per procura da parte dei singoli Paesi nelle aree di conflitto dove non si trovino soluzioni politiche alternative o dove non si sappiano distinguere gli attori sul territorio – al punto da perderne a un certo momento il controllo e cambiare “campione”. Salvo poi tentare aggiustamenti in corsa di dubbia efficacia e sempre limitati a un orizzonte temporale troppo breve per incidere davvero sull’andamento di un conflitto di grandi proporzioni. In Siria il concetto stesso di governance internazionale rimane in completo corto circuito.
Team Miscela Strategica
[box type=”shadow” align=”aligncenter” ]L’analisi è stata svolta dal team di Miscela Strategica, in particolare, in ordine alfabetico: Marco Giulio Barone, Emiliano Battisti, Lorenzo Nannetti, Giulia Tilenni, Francesco Valacchi[/box]
Foto: FreedomHouse