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Il Dragone sbarca in terra latina

Esiste solo “Cinafrica” o si può parlare anche di “Cinamerica”? Negli ultimi anni l’attenzione mediatica si è concentrata principalmente sulla strategia di penetrazione economica operata da Pechino in Africa, lasciando però in ombra una parte molto importante della politica estera cinese. Stiamo parlando di quella diretta verso l’America Latina. Come sono dunque i rapporti economici del subcontinente americano con il Dragone? E quali sono i risvolti di questa relazione per lo sviluppo sociale dei Paesi latini?

PECHINO INVESTE IN AMERICA LATINA – Potrebbe essere una sorpresa sapere che l’Africa è il continente dove la Cina investe “meno” in termini assoluti, mentre l’America Latina è la seconda regione destinataria della pioggia di yuan in arrivo da Pechino (la prima è, logicamente, l’Asia). Secondo i dati del Centro Studi della Fondazione Italia-Cina, nel 2010 gli IDE (Investimenti Diretti Esteri) del Dragone verso l’America Latina hanno raggiunto i  10,5 miliardi di dollari con una crescita esponenziale dal 2003 ad oggi (+1000%). Meno ingenti sono invece le esportazioni cinesi verso la regione latinoamericana rispetto ad altri continenti (121,8 miliardi di dollari il valore totale nel 2011), ma con una crescita sostenuta (+32,9% rispetto al 2010) che sta creando alcuni problemi in termini di competitività a settori dell’industria manifatturiera come il calzaturiero, tradizionalmente forti in Paesi come Brasile e Argentina. Se invece guardiamo all’altro lato della relazione, scopriamo che i Paesi latinoamericani investono molto meno in Cina: infatti, nonostante il dato complessivo sia superiore rispetto agli IDE in arrivo da Pechino (più di 13 miliardi di dollari), la maggior parte dei capitali parte da Isole Cayman e Isole Vergini, che sono notoriamente dei paradisi “fiscali” oltre che tropicali. Le esportazioni dell’America Latina verso la Cina sfiorano invece i 120 miliardi di dollari, denotando dunque un sostanziale “pareggio” della bilancia commerciale tra le due regioni. L’America Latina è dunque un fornitore importantissimo per la Cina: non solo acquista da Pechino prodotti (per la maggior parte manifatturieri) ma vende anche in grandi quantità le materie prime agricole e minerarie, di cui il Dragone ha particolarmente “fame”. Per quanto riguarda gli investimenti, è il Brasile il principale destinatario dei flussi di capitale cinesi, con 487,4 milioni di dollari affluiti nel 2011. Al secondo posto si trova invece il Perú, con 139 milioni di dollari. GLI IDE FANNO BENE? – Gli investimenti cinesi fanno bene allo sviluppo economico e sociale dell’America Latina? La risposta non può essere univoca. È indubbio che i capitali in entrata, aumentati costantemente negli ultimi vent’anni, hanno contribuito a far uscire dalla povertà milioni di persone. Tuttavia, la dinamica che si è innestata tra Pechino e l’America Latina non è equilibrata e vede la Cina in una posizione di maggiore forza. La soia argentina, il rame cileno, il ferro brasiliano sono essenziali per fornire il “carburante” alla locomotiva cinese, così come un cliente così importante è ancor più indispensabile per sostenere l’export latinoamericano. La crisi in atto in Europa e Stati Uniti ha infatti diminuito la domanda di prodotti in arrivo da questi Paesi, pertanto vendere alla Cina è diventata una scelta quasi obbligata, anche se questo comporta dei lati negativi. Come, per esempio, dover fare buon viso a cattivo gioco per quanto riguarda la concorrenza nei settori manifatturieri, oppure puntare su settori che non aiutano a ridurre le diseguaglianze tra ricchi e poveri. Infatti, le esportazioni di materie prime, essendo caratterizzate da un uso più intensivo della “terra” (intesa come risorse naturali) rispetto al lavoro, non aiutano a valorizzare il contributo della manodopera e tendono così a perpetuare dinamiche di sottosviluppo.

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DIRITTI UMANI PIU' RISPETTATI – Se a questo poi si aggiunge la tradizionale cattiva reputazione dei cinesi quali nuovi colonialisti e sfruttatori poco avvezzi al rispetto dei diritti umani, il quadro sembrerebbe decisamente negativo. In realtà, è importante come sempre analizzare più in profondità per scoprire che le imprese cinesi che investono in America Latina tendono ad uniformarsi agli standard internazionali sul rispetto dei diritti umani e dei lavoratori. Una recente ricerca sugli IDE cinesi nel settore estrattivo in Perú rivela come le multinazionali cinesi si stiano adeguando, seppur più lentamente rispetto a quelle dei Paesi OCSE, agli standard previsti da “pacchetti” di norme internazionali come il Global Compact delle Nazioni Unite e che si stanno sensibilizzando sempre più al tema della responsabilità sociale d’impresa. Se ciò avviene, non è però merito solo dell’atteggiamento disponibile della Cina. Le condizioni ambientali, misurate in termini di solidità delle istituzioni pubbliche e di presenza di multinazionali occidentali, sono infatti decisive nel determinare le politiche aziendali seguite dall’investitore. Non è un caso se in alcuni Paesi africani come la Repubblica Democratica del Congo, dove lo Stato è praticamente assente, le imprese cinesi adottano standard molto più bassi di tutela dei diritti dei lavoratori. In Perú come in altri Paesi della regione, invece, la costituzione tutela i diritti delle minoranze, anche indigene, e le istituzioni sono in grado di far rispettare la legge più che in altre regioni del mondo in via di sviluppo. In conclusione, la Cina è un attore molto importante per la crescita economica dell’America Latina. Il progresso sociale, però, non può essere accompagnato a quello economico se non è sostenuto dalle politiche nazionali. I governi di Brasile & C. hanno fatto molto in questo campo negli ultimi anni: si tratta di un fattore decisivo nel generare uno sviluppo diffuso e non più a favore dei soliti, pochi ricchi. Davide Tentori [email protected]

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Davide Tentori
Davide Tentori

Sono nato a Varese nel 1984 e sono Dottore di Ricerca in Istituzioni e Politiche presso l’UniversitĂ  “Cattolica” di Milano con una tesi sullo sviluppo economico dell’Argentina dopo la crisi del 2001. Il Sudamerica rimane il mio primo amore, ma ragioni professionali mi hanno portato ad occuparmi di altre faccende: ho lavorato a Roma presso l’Ambasciata Britannica in qualitĂ  di Esperto di Politiche Commerciali ed ora sono Ricercatore presso l’Osservatorio Geoconomia di ISPI. In precedenza ho lavorato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri dove mi sono occupato di G7 e G20, e a Londra come Research Associate presso il dipartimento di Economia Internazionale a Chatham House – The Royal Institute of International Affairs. Sono il Presidente del Caffè Geopolitico e coordinatore del Desk Europa

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