Ad alcune settimane dalla morte del “padre” di Singapore, riflettiamo sul suo lascito politico-filosofico. Un pensiero elaborato che risente di più influenze e che ha consentito alla città-Stato di costruire un modello di sviluppo straordinariamente efficace
FRA CONFUCIO E BUDDHA – Il 23 Marzo 2015 Singapore si è listata a lutto: dopo trentuno anni da Primo Ministro, quattordici da Ministro anziano e sei da Ministro mentore è venuto a mancare Lee Kuan Yew, simbolo della potentissima città-stato e padre della patria.
I suoi successi politici ed economici sono ormai noti; meno lo è la teoria che sta alla base di questi traguardi e le critiche che ha suscitato. Primo Ministro dal 1959 al 1990, Lee Kuan Yew è noto per aver governato la nazione con metodi spesso autoritari e antidemocratici, che hanno però trasformato un villaggio di pescatori in una delle tigri asiatiche. Per questo motivo, è stato ed è tuttora ammirato da numerosi governi asiatici: volendo fare riferimento a un caso specifico, dopo alcune resistenze anche Pechino ha adottato il capitalismo di stato e conseguentemente la volontà di sacrificare i principi democratici all’armonia sociale e, novità assoluta per la Repubblica Popolare, al benessere economico.
In effetti, con il settimo PIL pro capite al mondo, Lee Kwan Yew ha saputo creare una cittadella dorata all’interno di un’area ancora piuttosto problematica. Ci è riuscito adottando un approccio pragmatico che esula da teorie e filosofia, o meglio, che sa modellarle a suo vantaggio. Già al momento dell’unione con la Malesia, per incentivare l’integrazione regionale, il Primo Ministro di Singapore aveva esplicitato il principio dei valori asiatici, secondo cui il modello di sviluppo della nazione, per avere successo, non avrebbe dovuto omologarsi agli stilemi occidentali, bensì mantenere la propria specificità. Il fulcro di questa teoria risiede nel Confucianesimo e nei suoi pilastri fondativi – autocontrollo, responsabilità verso la famiglia e la società, moderazione, lavoro duro; tutti volti a raggiungere l’armonia sociale.
Questa lettura è stata però spesso tacciata di essere semplicistica: l’enfasi su ordine e disciplina infatti non implica necessariamente un rifiuto della libertà. A tal proposito, Amartya Sen evidenzia in primo luogo come i valori di libertà e democrazia, intesi nel senso moderno del termine, siano comparsi in Occidente in tempi relativamente recenti, grossomodo all’epoca dell’Illuminismo, e in secondo luogo come, in un passato più remoto, la civiltà orientale e quella asiatica fossero più simili di quanto si immagini. Inoltre, Sen pone l’accento sul Buddismo, che ha sempre accordato grande importanza alla libertà, e su alcune sfumature del Confucianesimo: per esempio, dagli studi di Leys si evince che Confucio non ha mai teorizzato la cieca obbedienza allo Stato, e a volte si è spinto persino ad affermare che i due pilastri fondativi della società, Stato e famiglia, possano essere in conflitto. Elias Canetti ha poi aggiunto che il cosiddetto “silenzio confuciano” non è da intendersi come mera accettazione dell’autoritarismo, bensì come un pensiero molto più articolato.
Non bisogna neppure dimenticare che la popolazione asiatica corrisponde al 60% della popolazione mondiale: parlare genericamente di “valori asiatici” è quindi riduttivo, e paragonabile alla definizione di “Oriente” coniata dal colonialismo europeo. Voler equiparare l’intero continente alle zone ad est della Thailandia lo è ancora di più: basti pensare che nella sola Singapore fra i suoi tre milioni di abitanti sussistono differenze significative.
Un’immagine dello skyline di Singapore
LA QUESTIONE DEI DIRITTI UMANI – Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta Lee Kuan Yew ha integrato il suo modello di governo con gli aspetti più meritocratici e individualistici del pensiero occidentale, ovviamente non tanto per compiacere le democrazie liberali, quanto per dare un’ulteriore accelerazione alla crescita economica di Singapore. Lee ha anche sostenuto che in Asia la libertà e i diritti umani non hanno mai rivestito la stessa importanza che invece l’Occidente accorda loro, sottolineando la diversità intrinseca che intercorre fra le due metà del mondo – tesi ribadita durante la Conferenza sui Diritti Umani di Vienna nel 1993, in cui sia Singapore che la Repubblica Popolare Cinese avevano fortemente criticato l’idea di universalismo tout court.
Per questo motivo è stato spesso disapprovato sia dal fronte occidentale che da quello asiatico: i primi lo hanno accusato di non rispettare i diritti umani e di calpestare ogni istanza democratica, mentre i secondi hanno rimarcato come alcune aree vicine all’isola, ma di tradizione cattolica o musulmana, venissero deliberatamente escluse.
Fra i critici asiatici spicca ancora una volta Amartya Sen, il quale ha sostenuto che non ci sono dati statistici sufficienti per sostenere l’idea che un governo autoritario sia di aiuto alla crescita economica. La cosiddetta ipotesi di Lee, infatti, si basa su informazioni estremamente selettive e limitate, e pertanto impossibili da ricondurre a un modello generale. Sono piuttosto l’apertura ai mercati internazionali, la competizione aperta, un elevato livello di istruzione e gli incentivi agli investimenti ad aver permesso il miracolo di Singapore: tutte politiche compatibili con un regime democratico, anzi, spesso tipiche proprio di quei regimi.
Sen evidenzia anche che democrazia e diritti civili permettono ai cittadini di portare l’attenzione del governo sui bisogni più impellenti, e di conseguenza di mettere il governo in condizione di agire in modo mirato e pertinente. Facendo l’esempio estremo delle carestie, Sen evidenzia come siano avvenute soprattutto sotto regimi totalitari e senza libertà di stampa. La democrazia acquista pertanto una valenza pratica e diventa uno strumento per raggiungere il tanto agognato benessere economico.
LA DIFFUSIONE DEL “MODELLO LKY” – Lee Kuan Yew non si è lasciato intimidire ed ha perseguito una modernizzazione senza soluzione di continuità, modernizzazione a cui, stando all’ex Primo Ministro, l’Occidente dovrà presto o tardi rifarsi se non vuole soccombere alle sue stesse politiche troppo tutelanti. Lee vede infatti il percorso della sua città-stato come il modo migliore per contrastare l’egemonia occidentale: adottando solo gli aspetti più funzionali del modello europeo e americano e integrandoli ad uno spirito prettamente asiatico, si dovrebbe arrivare ad una forma di governo perfettamente efficace.
Anche il Governo di Pechino, che ha spesso tacciato Singapore di essere guidata da eccessivo individualismo, ha dovuto scendere a patti con la storia, ben lontana da quella fine semplice e lineare profetizzata da Francis Fukuyama, e ha avvicinato il percorso cinese a quello di Lee Kwan Yew.
È probabile che la Cina e il resto dell’Asia vorranno ispirarsi proprio al padre di Singapore per schivare decrescita e rallentamento economico: d’altronde un’impostazione paternalista e autoritaria dello Stato, votata più al benessere economico che alla tutela dei diritti individuali, a Singapore si è rivelata vincente. E nonostante Amartya Sen sottolinei il paradosso di questo antagonismo all’egemonia occidentale che finisce per implicare minori libertà per i cittadini asiatici, il 23 Marzo tutta Singapore era in lacrime.
Francesca Berneri
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Un chicco in più
The End of History and the last man è un saggio pubblicato dal politologo americano Francis Fukuyama nel 1992. Nella sua opera, Fukuyama sostiene che l’umanità abbia sperimentato un’evoluzione costante fino al XX secolo, epoca in cui le democrazie liberali e lo stile di vita occidentale hanno raggiunto una diffusione tale da diventare l’unica forma di governo possibile. Questa tesi è stata messa in discussione un anno dopo da Samuel Huntington con The Clash of Civilizations, che al contrario sostiene che le diversità culturali e religiose siano acutissime, oggi più che mai, e che inevitabilmente saranno la causa di ulteriori conflitti.
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