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"L'imparzialità è un sogno, la probità è un dovere"

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Sanzioni e misfatti

Caffè Geoeconomico – Apparentemente i Sauditi si stanno “svenando” per sostenere l’offerta di petrolio, e abbattere il prezzo. L’esito appare quasi nullo, o controproducente, eppure il prezzo del petrolio deciderà molto probabilmente della guerra o della pace nel Golfo Persico, da qui ai prossimi mesi – tra giugno e novembre. Ecco i possibili scenari, tenendo conto delle elzioni presidenziali negli Stati Uniti che incombono

LA FINESTRA DI OPPORTUNITÀ – Esiste una finestra di opportunità ben definita per una guerra americana sull’Iran, delimitata all’incrocio tra le coordinate della campagna presidenziale e quelle dell’entrata in vigore delle sanzioni economiche. Le presidenziali naturalmente sono a inizio novembre, con la campagna elettorale che entra nel vivo a partire dalla fine di agosto. Dopo le elezioni il presidente recupera piena sovranità e autonomia dalle pressioni di lobbies e potenze alleate (soprattutto se al secondo mandato, e corroborato da una maggioranza conforme in Congresso). I due mesi iniziali di una campagna militare sono d’altra parte i più favorevoli al presidente, un periodo (presumibilmente) troppo breve perché errori strategici o geopolitici (o, più prosaicamente, scompensi del bilancio federale) possano rivelarsi agli occhi dell’opinione pubblica, ma anche l’arco di tempo ideale perché la mobilitazione ideologica della “nazione in guerra” possa dispiegarsi nel massimo consenso al “comandante in capo”. Non crediamo molto invece in una (sempre più) mitica finestra tecnica, o soglia di immunità del programma nucleare persiano: quella linea rossa è stata più volte tracciata, slittata in avanti, anticipata, sfumata in nuvola probabilistica, ridefinita con la nettezza di un rasoio dai servizi segreti usa e occidentali, al punto che questo esercizio di intelligence cozza ormai con l’intelligenza. Si può anzi ritenere che in un certo modo la soglia nucleare (il concetto deve a sua volta essere definito) sia stata in realtà già superata. Le coordinate sono due: a) Che Teheran sia già pervenuta o no all’arricchimento di una sufficiente quantità di uranio per ottenere una bomba, il know how, il sapere scientifico  e ingegneristico per arrivare a questo obbiettivo è stato pienamente incorporato nel patrimonio intellettuale del paese, che nessun omicidio mirato potrà obliterare. b) Bomba o non bomba, prima che il paese possa dotarsi di un arsenale nucleare comparabile a quelli delle potenze regionali (Israele, Pakistan, Turchia tramite NATO), o comunque utile alla deterrenza, e a una eventuale proiezione egemonica, serviranno molti anni, forse decenni. I TEMPI DELLA CRISI, LA REALE POSTA IN GIOCO – In altre parole, la “soluzione giapponese” è già tra noi, e le recentissime esternazioni del capo dello stato maggiore israeliano Gantz ne sono autorevolissima conferma. Sostiene Gantz che “la leadership iraniana è composta da persone molto razionali” e che “è vero che Teheran procede passo dopo passo verso una condizione in cui sarà in grado di decidere se dotarsi della bomba (…) ma questa decisione non è stata ancora presa. Credo che sarebbe un colossale errore, e non penso che gli Iraniani vorranno farlo”. In un altro passaggio cruciale Gantz ha anche chiarito che il 2012 non è necessariamente l’anno decisivo, anche per una eventuale operazione militare preventiva. I tempi dettati dalla questione del nucleare iraniano sono dunque molto diversi da quelli, drammaticamente stringenti, della narrazione prevalente sui media. “Soglia di immunità”, “finestra di opportunità” sono in effetti espressioni, proxy, del vettore di pressione politico/propagandistica esercitato da Israele e da una parte di establishment Usa sull’amministrazione Obama. Israele del resto è pur consapevole che lo spettro del nucleare persiano è destinato a turbare i sonni delle petromonarchie del golfo, più che i propri, che si tratta di una complessa partita geopolitica per l’egemonia regionale e in ambito OPEC. ISRAELE E ARABIA SAUDITA: PRESSIONI SU WASHINGTON – La linea di Israele in realtà è tutt’altro che definita, nell’establishment militare (e dunque nell’intelligence) prevale una forte diffidenza, se non resistenza, al blitz aereo. Il peso dei militari è naturalmente cruciale a Gerusalemme, ma non potrebbe costituire un veto, qualora un redde rationem nel governo dovesse esprimere una chiara volontà di procedere. Esiste una direttrice di pressione politica e diplomatica (pro-intervento militare) ben più nitida e – allo stato – forse più dirimente dello stesso Israele, nei confronti dell’amministrazione Obama: quella Saudita (o del GCC-Consiglio di Cooperazione del Golfo). Il vettore politico di Israele si dispiega attraverso il canale delle relazioni culturali, mediatiche e politiche tra Stati Uniti e Israele. La direttrice saudita si avvale, molto probabilmente, di un’altra leva, il prezzo del petrolio. Uno strumento di pressione estremamente potente, ancorchè indiretto e dunque dagli esiti (geo)politici non immediatamente controllabili, e che può essere manipolato nell’ombra. Le coordinate da tenere presenti sono in questo caso quelle energetiche (o energetico-finanziarie, trattandosi di futures del petrolio), quelle macroeconomiche, e naturalmente il connesso trend nei sondaggi elettorali per le presidenziali. Tendono tutte a convergere su uno scenario molto preoccupante. La chiave è nel giro  di vite delle sanzioni, deciso tra dicembre (negli Usa) e fine gennaio (UE), in grado di stabilire un pericolosissimo link tra andamento dell’economia (soprattutto Usa) e crisi iraniana – una connessione che ha qualche fondamento reale, ma ampiamente manipolabile (e a nostro parere manipolata) nel suo snodo finanziario – dove si può creare o moltiplicare un nesso sanzioni/prezzo del greggio – e, più a valle, nella sua lettura mediatica.

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LE SANZIONI, UN GIOCO PERICOLOSO – Le sanzioni sono già da tempo considerate, nel mainstream mediatico, la fonte del forte rialzo nelle quotazioni del petrolio a partire da gennaio, e la correlazione (che non è in sé causazione) è effettivamente piuttosto evidente: i futures sul Brent (la qualità di greggio europeo che costituisce il riferimento di prezzo per il 70% circa del traffico globale) oscillavano tra i 105$ e i 110$ negli ultimi mesi del 2011, hanno decisamente guadagnato quota (110/115) nel mese di gennaio, dopo un importante round di sanzioni Usa, e sono schizzate sopra i 125 tra Febbraio e Marzo, dopo la decisione sulle sanzioni UE. Peraltro, dato il cambio relativamente debole dell’euro, per l’Eurozona questi livelli superano i massimi toccati (in dollari) nel luglio 2008. Le sanzioni europee non entreranno in vigore prima di luglio, ma i mercati scontano almeno parte di esse, e d’altra parte si tratta di una data di riferimento, la diversificazione delle forniture è già in corso. Si deve pure considerare che nel frattempo gli Usa serrano ulteriormente le proprie misure sull’Iran, che importanti acquirenti e alleati di Washington (Corea del Sud, Giappone), pur non vincolandosi a decisioni formali, stanno a loro volta tagliando drasticamente l’import energetico da Teheran e – soprattutto – che, con l'estromissione in marzo degli istituti iraniani dal sistema di regolazione globale SWIFT (sotto controllo UE), le banche iraniane devono trovare nuovi e complicati canali finanziari per gestire il proprio traffico di idrocarburi.La creatività finanziaria notoriamente ha pochi limiti, e sistemi alternativi sono allo studio, in parte già in atto, e rimane aperta la strategica falla svizzera (Berna non aderisce alle sanzioni, e la gran parte delle grandi trading house di petrolio e materie prime ha sede nella Confederazione). Sono sviluppi che recano sgradevoli presagi – un Iran che impara a fare a meno del petrodollaro può gettare un seme pericoloso per gli Usa, nell’inquieto Golfo Persico; la Svizzera ha il dente avvelenato con il presidente che l’ha costretta a venir meno al suo leggendario segreto bancario – ma è soprattutto il drastico rialzo dei prezzi petroliferi negli ultimi mesi che mina alle fondamenta la credibilità e la sopravvivenza politica di Obama. Nel mese di aprile il trend si è solo moderatamente invertito, attualmente siamo appena sotto quota 120. La correzione potrebbe continuare nelle prossime settimane, ma il ribasso pare dovuto solo in parte all’apertura dei rubinetti sauditi – Riyad ora pompa al ritmo record di circa 10 milioni di barili al giorno, ma questo significa che la sua preziosa capacità di riserva è stata pesantemente intaccata – mentre incide sicuramente il rallentamento dell’economia mondiale e in particolare l’incupirsi delle prospettive dell’Eurozona; nel terzo trimestre, inoltre, la domanda americana  attraversa regolarmente una fase di contrazione o rallentamento, per riprendere con forza all'inizio dell'estate (e attenzione alla domanda estiva degli stessi Sauditi e GCC); a fine primavera diverse raffinerie riprendono le attività, dopo la sosta annuale per le revisioni tecniche.  Soprattutto, non è il picco, il dato puntuale della giornata o della media settimanale, che conta, bensì l'andamento medio a trimestre e ad anno, la persistenza del prezzo al di sopra di una certa soglia, e attualmente siamo al record assoluto di prezzi sopra soglia dei 100$. Tutto questo mina, corrode le basi di una ripresa economica (reale, come quella statunitense, o immaginaria – come nella UE). Sull’altro fronte, l’economia Usa ha già dato segni chiari di rallentamento rispetto a una ripresa che appariva comunque anemica. In particolare a marzo si è quasi interrotta la serie di dati moderatamente positivi sul fronte dell’occupazione, pochi giorni fa il dato trimestrale sulla produzione di beni durevoli ha confermato le inquietudini. LA TRAPPOLA SCATTA IN ESTATE – Ecco l’incubo di mezza estate: se il prezzo del petrolio va fuori controllo le sanzioni diventano un fucile con la canna puntata contro chi le ha volute – l'Iran recupera dai prezzi più alti le perdite dovute al taglio delle importazioni (o meglio, alle vendite a sconto a Cina e India), l'Occidente entra in crisi energetica. Una crisi energetica che sarà targata mediaticamente Iran, o meglio: crisi con l'Iran. Sarà inevitabile ricordare che su nove recessioni negli Stati Uniti del dopoguerra, otto si sono verificate successivamente a rialzi record dei prezzi energetici. Naturalmente dalle sanzioni non si torna indietro, non possono essere revocate senza aver conseguito almeno un parziale ma oggettivo successo. Si può solo andare avanti. A quel punto – l'estate, quando la campagna presidenziale comincia veramente – la pressione israeliana (se davvero Israele avrà deciso di volere la guerra) sarà all’acme, e combinata in maniera esiziale con quella del fronte interno, i Repubblicani, con cui il premier israeliano Nethanyau ha strettissimi rapporti. Naturalmente accuseranno il presidente di aver sbagliato tutto, aperto all'Iran la strada verso l'investitura nucleare, e precipitato l'America in una nuova recessione (o una jobless recovery, che è politicamente la stessa cosa) per le scelte attendiste verso l'Iran. Se nel frattempo l'economia Usa avrà cambiato di segno, da una lenta ma solida ripresa a una quasi-stasi fragile ed esposta, come ora sembra, la posizione del presidente si sarà fatta insostenibile. A quel punto Obama avrà di fronte a sè due strade: a. rimanere fedele all'ispirazione della sua piattaforma 2008, con cui vinse le elezioni (nel frattempo il mondo è un po' cambiato, d'altra parte), e al Nobel per la Pace ricevuto un anno dopo, ascoltare le raccomandazioni di gran parte dell'establishment della Difesa (che diffida di una facile soluzione militare) e della gran parte degli analisti geopolitici e strategici, e andare incontro a una sconfitta elettorale di dimensioni epocali, tali da compromettere le possibilità dello stesso Partito Democratico negli anni a venire. Una tempesta perfetta in cui al fallimento economico (proprio o ereditato, poco importa) si somma l'opposizione della lobby ebraica e lo smacco in politica estera. b. cedere alla tentazione dell'attacco aereo limitato, confidando nella capacità della marina di assumere rapidamente il controllo del Golfo e delle sue vitali arterie petrolifere, incassare il sicuro dividendo elettorale della guerra, e forse anche un calo del prezzo del petrolio (con un piccolo aiuto della connection Sauditi-JP Morgan). Lo stesso establishment iraniano pare guardi a questa eventualità con (qualche) favore. Ma in guerra si sa come si entra, non come (e se) si esce. Andrea Caternolo [email protected]

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