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Chi ha colpito al Cairo?

L’esplosione di una bomba davanti al Consolato italiano al Cairo è stata letta da molti come un avvertimento diretto al nostro Paese per la sua vicinanza al regime del Presidente al Sisi. Ma è davvero così? Proviamo a vederlo in 10 punti.

Ogni valutazione odierna è ovviamente suscettibile di errore, dato che l’evento è accaduto da poco e le indagini sono ancora in corso. In attesa di ulteriori informazioni, ci atteniamo perciò a quanto è emerso finora e alle nostre valutazioni sulla situazione odierna in Egitto.

1) ITALIA ED EGITTO – Partiamo da una considerazione: Italia ed Egitto hanno effettivamente rapporti stretti. Nella sua visita in Europa il Presidente al Sisi ha incontrato per primo il Premier Renzi, e quest’ultimo è stato tra gli invitati alla Egypt Economic Development Conference del 13-15 marzo scorsi a Sharm el-Sheik, dove l’Italia era ospite d’onore al pari della Cina. E sono conosciuti gli interessi energetici italiani nel paese, dove ENI è storicamente primo partner straniero nel campo dell’oil&gas. Italia ed Egitto collaborano poi per la soluzione del conflitto in Libia. Siamo dunque noi gli obiettivi? Era un modo per avvertire che il nostro Paese è diventato un bersaglio a causa di questo? Forse… o forse no.

2) RIVENDICAZIONE – L’attentato è stato rivendicato dall’ISIS e secondo al-Arabiya sono stati identificati tre possibili colpevoli legati al gruppo Ansar Beit al-Maqdis, che ha dichiarato fedeltà allo Stato Islamico. Eppure esistono alcuni dubbi sull’autenticità di tale rivendicazione, dovuti sia ad alcuni particolari dell’attentato, sia al messaggio stesso. Il lessico del messaggio non ricalca l’usuale standard dello Stato Islamico: per parlare di Egitto non si cita il Wilayat Sinai, cioè il nome che l’ISIS usa per la sua branca egiziana, ma vengono usati termini più generici. Per quanto riguarda l’attentato, è da osservare la modalità: l’ISIS tende spesso a usare uomini armati che fanno irruzione in edifici protetti, massimizzando le vittime e l’aspetto mediatico. È successo in Tunisia e in Francia. Qui è stata usata un’autobomba e a un orario che invece minimizza le vittime: le 6.30 di mattina, quando infatti non era presente quasi nessuno.

 

Ansar beit al-maqdis foto
Fig.1 – Miliziani di Ansar Beit al-Maqdis

 

3) SE NON L’ISIS, CHI? – Quando l’ISIS compie un attacco per “punire” Paesi che lo combattono, usa mezzi più cruenti, che qui si sono invece dimostrati poco efficaci. È pertanto legittimo dubitare che ci sia lo Stato Islamico dietro questo attacco, almeno non quel gruppo Ansar Beit al-Maqdis che ne è la branca egiziana e che è abituata a forme di attacco ben più efficaci. Dunque, o si tratta di un gruppo che si ispira all’ISIS pur non essendone propriamente parte, oppure bisogna guardare altrove. Prima di chiamare in causa chissà quale complotto, è però bene capire che l’Egitto è un Paese che sta vivendo una difficile situazione di stabilità e di sicurezza, da più lati.

4) FRATELLI MUSULMANI – Altrettanto forte, anche se in modo differente, è il contrasto tra il Presidente al Sisi e lo SCAF (Consiglio Supremo delle Forze Armate) – che lo appoggia – da un lato e la Fratellanza Musulmana dall’altro, fin dalla deposizione dell’ex-presidente Muhammad Morsi per opera dei primi. Da quel momento i Fratelli Musulmani sono stati colpiti duramente: arresti di massa, uccisioni, messa al bando del movimento, con una repressione perfino più forte di quanto fatto da Mubarak in precedenza. Tutto questo all’interno di un sistema legislativo che riduce fortemente la libertà di stampa e di manifestare e, più in generale, l’espressione del dissenso.

5) FRATELLI DIVISI – Con gran parte dei suoi leader fuori gioco (alcuni uccisi, altri in prigione in attesa di processi anche con il rischio di pena di morte) il movimento dei Fratelli Musulmani si sta ora dividendo in due parti: i tradizionalisti, tendenzialmente più anziani, che invocano un profilo basso e il tentativo di riprendersi uno spazio politico evitando di arrivare al conflitto aperto (leggi: azione armata) ricordando un tentativo simile ai tempi di Mubarak, mentre i giovani vorrebbero usare le maniere forti. Queste due anime hanno già discusso vivacemente e il contrasto è molto aspro, tanto da far ventilare una possibile scissione, o almeno la fuoriuscita di qualcuno. Per i giovani che vogliono combattere, il richiamo dei gruppi estremisti diventa infatti più forte.

6) MEDIA… E ULTRAS – Anche i giornalisti, come detto, non se la passano bene, sempre a rischio di essere arrestati per aver criticato il Governo o per aver espresso dissenso. E perfino gli ultras delle squadre di calcio sono stati messi al bando con l’accusa di terrorismo, a causa della loro tendenza, in passato, a protestare e usare violenza sia tra loro o verso i dirigenti delle squadre di calcio, sia, ovviamente, contro il regime militare. Tutto questo è possibile grazie a una serie di leggi che consentono al regime di proibire manifestazioni ed espressione del dissenso grazie a definizioni molto vaghe (e pertanto facilmente sfruttabili) di cosa costituisca “terrorismo” e “minaccia all’ordine pubblico”.

egypt ultras foto
Fig. 2 – Protesta degli ultras egiziani prima della messa al bando

7) MEGLIO STABILITA’ O DEMOCRAZIA? – Di fronte a questi aspetti sembra strano, però, che l’Egitto non veda ancora proteste oceaniche come quelle che hanno portato alla caduta di Mubarak prima e di Morsi poi. Allora scesero in strada milioni di egiziani…milioni che ora non si vedono, nonostante il dissenso con l’attuale stato di cose. Il punto è che una parte consistente dell’opinione pubblica egiziana è stanca di rivoluzioni e conflitto. E teme che una nuova rivoluzione riporti il paese in mano agli islamisti, o lo faccia cadere nel caos come la vicina Libia. In altre parole, molti preferiscono cedere parte della loro libertà in cambio di stabilità, quella che al Sisi e lo SCAF possono ora dare. Tutto questo però non può durare per sempre: il Paese affronta notevoli problemi sociali ed economici, con disoccupazione rampante e un budget statale incapace di assicurare lo sviluppo. Se al Sisi non sarà capace di sviluppare il Paese economicamente e socialmente, la gente potrebbe riprendere a protestare contro di lui in numero sempre più importante. Eppure, nonostante tale premessa, il regime fatica a sviluppare l’economia, e continua invece a ridurre lo spazio per il dissenso, una strategia perdente a lungo termine.

8) I RISCHI DELLA MANCANZA DI VALVOLE DI SFOGO – L’impossibilità di esprimere le proprie idee e la forte repressione di tanti gruppi organizzati ha l’effetto di togliere qualsiasi valvola di sfogo a chi voglia cercare uno spazio dove esprimere il dissenso. Semplicemente, oggi quello spazio non c’è perché il regime non lo tollera. Questo ovviamente, combinato alle difficoltà economiche del Paese, può contribuire a portare all’estremismo alcune fasce di popolazione, mentre altre cercano in tutti i modi di mostrare il “lato oscuro” del Governo sperando sia la comunità internazionale a costringere al Sisi a cambiare registro.

9) CHI HA COLPITO? – Dunque chi può avere colpito? In realtà molti hanno motivazioni valide e allo stato attuale non è possibile accertare il vero responsabile. Ma i candidati non mancano: da gruppi che, come detto, si ispirano all’ISIS, ad alcuni esponenti dell’ala più giovane e intransigente dei Fratelli Musulmani decisi a passare all’azione, ad altri gruppi minori come ultras o jihadisti indipendenti. E l’obiettivo non era necessariamente l’Italia. Dopo l’uccisione del Procuratore Capo della Corte Suprema, non è da escludere che il bersaglio stavolta fosse l’avvocato Ahmed al-Fuddaly – vicino ad al Sisi ed espressione della repressione -, che sarebbe dovuto passare dal luogo dell’esplosione poco dopo. In tale ottica, il danno al Consolato Italiano sarebbe stato un collaterale capace comunque di mettere in imbarazzo il regime. Una finta rivendicazione dell’ISIS sarebbe servita a sviare l’attenzione, anche se il tentativo appare riuscito male.

Sisi renzi foto
Fig. 3 – Il Premier Renzi a colloquio con il Presidente al Sisi in occasione della conferenza di Sharm el-Sheik, marzo 2015

 

10) CHE SUCCEDERÀ ORA? – Indipendentemente da chi sia davvero dietro all’attacco, e quale fosse il vero bersaglio, un fatto rimane sicuro. Il Presidente al Sisi userà l’incidente per confermare le recenti ulteriori restrizioni alla libertà di stampa e di espressione, proposte proprio come misura “antiterrorismo”, mentre ha già ricevuto il supporto dell’Italia, che ha tutto l’interesse a mantenere buoni rapporti. Fratellanza Musulmana e ISIS saranno il bersaglio della rappresaglia del regime, mentre le riforme istituzionali continueranno a tardare. Il problema è però la conseguenza di tutto ciò: una maggiore repressione non aiuta quella parte dell’opposizione che vorrebbe ricostruire i rapporti con il Governo, mentre porta gli oltranzisti, in particolare i giovani della Fratellanza, alla conclusione che la lotta armata sia l’unica via d’uscita.

Lorenzo Nannetti

 

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Un chicco in più

Rispondiamo a due domande che spesso è facile porsi riguardo all’Egitto.

  • È prevedibile che il Presidente al Sisi subisca una forte rivolta come i suoi predecessori? È possibile, nel medio-lungo termine, ma non ora. Mubarak è caduto a causa di milioni di egiziani, con l’esercito neutrale. Morsi è caduto a causa di milioni di egiziani, con l’esercito contro di lui. Al Sisi oggi non ha milioni di egiziani nelle strade, e l’esercito è con lui. Come minimo, milioni devono tornare nelle strade contro di lui. E oggi non ci sono.
  • E se Sisi venisse assassinato? Chi prenderebbe il suo posto? È facile che la guida del Paese, almeno temporaneamente, venga presa dall’attuale leader dello SCAF (il Consiglio Supremo delle Forze Armate), cioè il Feldmaresciallo Sedki Sobhi, aiutato dal suo vice, il Feldmaresciallo Mahmud Hegazy. Davanti al rischio di cadere, è facile che lo SCAF agisca ancora una volta unito: divisioni al suo interno, anche se possibili, non se ne vedono, e Sobhi ed Hegazy sono pure imparentati. Non dimentichiamo che al Sisi, a suo tempo leader dello SCAF, agì proprio così.[/box]

Foto: Bashar Shglila

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Foto: Mostafa Sheshtawy

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Lorenzo Nannetti
Lorenzo Nannetti

Nato a Bologna nel 1979, appassionato di storia militare e wargames fin da bambino, scrivo di Medio Oriente, Migrazioni, NATO, Affari Militari e Sicurezza Energetica per il Caffè Geopolitico, dove sono Senior Analyst e Responsabile Scientifico, cercando di spiegare che non si tratta solo di giocare con i soldatini. E dire che mi interesso pure di risoluzione dei conflitti… Per questo ho collaborato per oltre 6 anni con Wikistrat, network di analisti internazionali impegnato a svolgere simulazioni di geopolitica e relazioni internazionali per governi esteri, nella speranza prima o poi imparino a gestire meglio quello che succede nel mondo. Ora lo faccio anche col Caffè dove, oltre ai miei articoli, curo attività di formazione, conferenze e workshop su questi stessi temi.

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