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La fortezza di carta (I)

La crisi economica globale ha mostrato la crisi politica interna dell’Unione Europea. Le conseguenze, spesso sottovalutate, presentano ripercussioni forti anche da un punto di vista di relazioni internazionali, e di immagine dell’Europa fuori dal Vecchio Continente. In due puntate, cerchiamo di analizzare insieme questi aspetti

LE RELAZIONI COL MONDO – La crisi finanziaria dell’Eurozona non ha ancora distrutto l’Unione Europea, ma senz’altro ne ha ridotto il peso e la capacità d’azione a livello internazionale. Gli eventi degli ultimi mesi hanno infatti dimostrato la sorprendente incapacità degli europei di risolvere crisi interne, come quella finanziaria, e di relazionarsi con crisi internazionali come la cosiddetta “Primavera araba”. Divisioni tra Stati membri, debolezza delle istituzioni comunitarie e mancanza di una visione condivisa del futuro sono i principali colpevoli di una paralisi che si ripercuote giornalmente in tutti gli ambiti della vita politica ed economica del continente.

Dal punto di vista della politica internazionale, è evidente che un attore capace di trasformare l’emergenza finanziaria di uno dei suoi più piccoli Stati membri in una crisi sistemica in grado di frammentarlo e di distruggere la sua moneta, rischia di risultare assai poco credibile al di fuori dei propri confini. Nel caso europeo la percezione esterna riveste poi un’importanza particolare. Uno degli elementi più interessanti che hanno caratterizzato storicamente l’azione esterna dell’Europa in costruzione è stata una considerevole componente di soft power. Una perdita significativa di immagine, ancor peggio se accompagnata ad una paralisi decisionale e operativa come quella che stiamo vivendo, può compromettere anche la capacità dell’Europa di porsi negli anni a venire come modello per altre regioni ed altri attori del sistema internazionale.

Al momento dell’entrata in vigore del trattato di Lisbona, molto si è scritto a proposito delle innovazioni che il nuovo testo avrebbe comportato per la politica estera europea, dando all’UE la capacità di agire nel mondo come un unico e coerente attore politico. L’Europa ne sarebbe uscita rafforzata, capace di parlare con una sola voce, dotata di un proprio servizio diplomatico (il Servizio Europeo per l’Azione Esterna, SEAE), una sorta di Ministro degli Esteri (l’Alto Rappresentante per la gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza) e un presidente permanente del Consiglio Europeo. Inoltre, essa avrebbe dovuto trarre ulteriore forza e visibilità internazionale in ragione di un modello socioeconomico che la crisi finanziaria ed economica nata negli Stati Uniti avrebbe reso ancora più desiderabile ed imitato nel mondo. Tali auspici, risalenti ad appena quattro anni fa, suonano oggi come un ricordo lontano e quanto mai pittoresco.

LADY ASHTON E L’OTTIMISMO INGIUSTIFICATO – Non sembra dello stesso avviso l’Alto Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, la baronessa Catherine Ashton. Nominata nel dicembre 2009, la responsabile del SEAE, nonché vicepresidente della Commissione Europea e presidente del Consiglio Affari Esteri, è stata oggetto di critiche particolarmente severe, incentrate anzitutto sulla debolezza della sua leadership. Avendo un curriculum non perfettamente calzante con la carica che è stata chiamata a ricoprire, molti hanno presentato la sua nomina come una mossa degli Stati più grandi volta a disinnescare le potenzialità della nuova figura istituzionale, le cui funzioni e i cui poteri, nelle mani di personalità del calibro del suo predecessore Javier Solana, avrebbero potuto dare una svolta “federale” all’azione internazionale dell’UE.

Affermando la priorità che la politica estera dell’UE dovrebbe dare alla promozione internazionale dei diritti umani, Ashton ha recentemente ha respinto le tesi di coloro che vedono nella crisi dell’euro indizi di un declino dell’Europa e l’ultima prova della sua incapacità di agire come attore internazionale coerente ed unitario. L’UE resta la prima economia al mondo per PIL, la prima potenza commerciale e uno dei principali donatori a livello internazionale; secondo l’Alto Rappresentante, la sua capacità di agire nel mondo non sarebbe minata dalle lacerazioni tra Stati membri e da quello che negli ultimi mesi sembra un introverso assorbimento delle energie delle istituzioni comunitarie nel tentativo di portare la nave fuori dalla tempesta finanziaria.

La difesa ottimistica di Catherine Ashton potrebbe solo ingenerosamente essere definita come ingenua: i dati che ricorda sono reali, l’Europa resta un colosso economico e una superpotenza commerciale decisiva per le sorti dell’economia globale, la sua moneta – nonostante tutto – continua ad essere forte e il suo mercato interno il più ambito al mondo. Se però si va al di là dei dati quantitativi statici e si prendono in considerazione le prospettive di crescita economica e demografica in rapporto ad altre regioni ben più dinamiche del mondo, l’Europa sembra destinata a perdere rilevanza economica e quindi politica. In un’ottica dinamica e di proiezione futura, aspettare momenti migliori e chiudersi in se stessi sembrerebbe per l’Unione e i suoi Stati membri la scelta peggiore.

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UN PO’ DI STORIA, PER CAPIRE – Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, con la firma dell’Atto Unico Europeo (1987) e la successiva entrata in vigore del trattato di Maastricht (1993), nasceva l’UE grossomodo come la conosciamo oggi. In quegli anni presero forza, soprattutto negli Stati Uniti, voci e timori circa il rischio che l’Europa si trasformasse in una “Europe fortress”. Il pericolo che il mercato unico europeo diventasse impenetrabile per le merci straniere e che emergesse un’identità politica europea non più legata alla sola fedeltà atlantica era tale da spingere l’amministrazione americana del presidente Clinton a lanciare progetti di liberalizzazione commerciale su base regionale (NAFTA, 1992).

II trattato di Maastricht non solo tracciava il percorso a tappe verso l’Unione economica e monetaria e l’introduzione della moneta unica, ma lanciava la Politica Estera e di Sicurezza Comune (PESC), che doveva dare alla confusa e incerta identità politica europea una capacità di azione e coordinamento superiore, in grado di rendere l’UE un attore credibile sulla scena politica del mondo post-Guerra fredda.

Un’Europa destinata a crescere in estensione territoriale, popolazione e presumibilmente in potere economico, minacciava di insidiare la posizione di predominio di Washington, contribuendo a spingere il sistema internazionale in una direzione multipolare caratterizzata da blocchi regionali in gara tra loro. Tali paure sono state smentite dai fatti: l’UE non solo non è diventata una superpotenza e non ha minato la leadership americana – rimasta tale per tutti gli anni Novanta – ma non è riuscita neppure a completare il proprio mercato interno e a garantire la stabilità dei suoi più immediati confini. Il dramma dei Balcani di fronte alla paralisi decisionale dell’Europa è un dramma ancora scolpito nella memoria di tutti.

LE CONSEGUENZE DELLA CRISI – Di fronte alla crisi economica globale e alle sue attuali ricadute sull’Europa, non sono in pochi coloro che ritengono che l’UE e i suoi Stati membri dovrebbero optare per una strategia internazionale meno “liberale”. Soprattutto dal punto di vista commerciale e dell’affermazione dei propri interessi geopolitici, l’Unione dovrebbe mettere in campo una politica maggiormente finalizzata alla difesa del proprio modello sociale e del proprio sistema produttivo, attraverso una politica estera maggiormente coesa finalizzata a garantire la sicurezza delle forniture energetiche e favorendo le esportazioni del made in Europe, attraverso politiche neoprotezionistiche e interventi di svalutazione della moneta unica.

L’ex Presidente francese Nicholas Sarkozy si era fatto alfiere di una proposta di radicale revisione degli accordi di Schengen, nella direzione di maggiori controlli e limitazioni ai confini dell’UE e della possibilità per i suoi Stati membri di sospendere gli accordi limitando la libertà di circolazione delle persone sul territorio dell’Unione. La priorità concessa dall’opinione pubblica europea alle questioni legate alla crisi economica, ha rimosso il tema del contrasto all’immigrazione clandestina dalle prime pagine dei giornali, ma significativi passi nella direzione di una fortificazione delle frontiere esterne dell’UE, una politica più severa circa la concessione di visti e permessi di soggiorno e i tentativi di definire una politica comune di contrasto agli ingressi illegali sono ancora in fase di elaborazione da parte delle istituzioni europee.

A fronte delle ribellioni in numerosi paesi del Medio Oriente e del Nord Africa, la priorità che l’Europa ha dato esternamente l’impressione di porsi non è stata quella di una revisione della propria politica nell’area o di concreto sostegno ai movimenti di ispirazione liberale, ma una chiusura in se stessa. La proiezione internazionale è sempre più lasciata all’intraprendenza di singoli Stati membri, in particolare la Francia – impegnata dal punto di vista politico nel ritagliarsi una propria posizione di media potenza – e la Germania – ormai colosso economico e commerciale che tende ad agire come autonoma potenza geoeconomica, interessata a garantirsi approvvigionamenti energetici ed accesso ai mercati esteri. In questa fase, all’Unione e alle sue istituzioni comuni, sembra restare soltanto lo spazio della ratifica di decisioni assunte a livello di capitali nazionali e queste, a differenza di quanto affermato da lady Ashton, non hanno come priorità la promozione globale dei diritti umani, quanto l’affermazione di propri interessi geopolitici ed economici. Il tutto a discapito di una coerenza e di un impegno liberale verso i principi che – stando alla lettera del trattato di Lisbona – “ne hanno informato la creazione, lo sviluppo e l’allargamento e che essa si prefigge di promuovere nel resto del mondo”.

(1.Continua)

Davide D’Urso [email protected]

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