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La fortezza di carta (II)

Seconda parte dell'analisi in cui facciamo il punto sulla politica estera dell'Europa, questo strano soggetto internazionale che non ha ancora deciso “cosa vuol fare da grande”. Al di là dei mezzi della politica estera, occorre affrontare una volta per tutte le questioni interne, e decidere finalmente se puntare a una vera Unione, capace di affacciarsi sul mondo come un attore di primo piano, o ad un area tutto sommato chiusa, isolazionista, con l'illusione dell'autosufficienza, e disgregata all'interno, con una sola, possibile conclusione: un'irreversibile declino

 (II. Segue. Leggi qui la prima parte dell'articolo)

DIVERSO DA CHI? – Soprattutto in ambienti accademici europei, è ancora particolarmente diffusa la visione di un’Europa quale attore politico internazionale sostanzialmente diverso dagli altri. A dispetto di quanto si potrebbe pensare da una lettura superficiale e rigidamente realista, che vede nella presenza di forze militari e nella capacità di azione diplomatica i fondamenti di ogni politica estera propriamente detta, l’Europa del secondo dopoguerra ha dispiegato una propria caratteristica azione internazionale. Per ragioni storiche e istituzionali, tuttavia, la Comunità Europea prima e l’UE poi hanno potuto operare in quanto soggetti unitari esclusivamente in quegli ambiti – principalmente commerciali, della cooperazione allo sviluppo, del dialogo politico sui diritti umani e, non da ultimo, dell’allargamento dei propri confini ad altri paesi europei – in cui la Guerra fredda lasciava spazio di manovra e in cui gli Stati membri avevano ceduto quote della propria sovranità.

Tale attenzione alla diversità dell’attore “Europa”, entità sempre a metà tra un’organizzazione regionale e una federazione di Stati, si è declinata in vari appellativi che si sono susseguiti nel corso degli anni. Non avendo a disposizione, fino alla seconda metà degli anni Novanta, strumenti di politica estera tradizionale, soprattutto militari, François Duchêne parlò a metà degli anni Settanta della CEE come di una “potenza civile”. Mario Telò ha recentemente ripreso tale definizione, aggiornandola alla situazione internazionale degli anni Duemila; ampliando il concetto non solo al rifiuto dello strumento militare, ma alla diversità dei suoi obiettivi, l’UE sarebbe “civile” in quanto finalizzerebbe la propria azione internazionale ad obiettivi olistici, così come presentati dalla prima strategia di sicurezza europea, preparata dall’ex Alto Rappresentante Javier Solana e sottoscritta da tutti gli Stati membri dell’UE.

Gli scritti di quegli anni risentono della contrapposizione venuta a crearsi tra l’Europa – o parte di essa, la cosiddetta “vecchia Europa” – e gli Stati Uniti di George W. Bush. La volta unilateralista dell’amministrazione americana seguita all’11 settembre 2001 contribuì a rinverdire l’idea dell’Europa come di una potenza civile e “venusiana”, come ebbe modo di scrivere molto criticamente Robert Kagan, in contrasto rispetto al Marte americano.

Si trattava di un’Europa che, in realtà, già aveva abbandonato lo spirito liberale degli anni Novanta a vantaggio di un approccio più realistico e difensivo in seguito al completamento dell’allargamento ad Est. Tale cambiamento è ben testimoniato dalla politica mediterranea europea, che vide il passaggio dal modello multilaterale e paritario del Partenariato Euromediterraneo (PEM), all’inserimento delle relazioni con il paesi del Nord Africa e del Medio Oriente nel quadro della Politica Europea di Vicinato (PEV). Dall’assetto multidimensionale e olistico del PEM, si è passati dal 2003 ad un rapporto basato soprattutto sulle tematiche legate alla sicurezza tradizionale – lotta al terrorismo, contrasto alle migrazioni illegali, sicurezza energetica e liberalizzazione commerciale – e assai meno al dialogo politico, alla promozione della democrazia e dei diritti umani. Tale svolta realistica, registrata da studiosi come Richard Youngs, è riscontrabile in numerosi altri ambiti dell’azione internazionale europea.

L'IMPORTANZA DEI MEZZI: LE MISSIONI – Un esame critico della politica estera dell’UE richiede coscienza dei mezzi a disposizione di questo “strano” attore internazionale. Se nel corso della sua storia di integrazione l’Europa ha saputo agire nella politica internazionale anche senza gli strumenti militari e senza gli apparati diplomatici propri degli Stati sovrani, l’emergere di nuove grandi potenze come Cina, India e Brasile, accanto al relativo declino del potere degli Stati Uniti, hanno reso necessari passi avanti dell’UE dal punto di vista della capacità di agire nel mondo, indipendentemente dai suoi obiettivi di lungo periodo – che restano, almeno retoricamente, olistici e liberali.

Una delle più importanti novità introdotte alla fine degli anni Novanta in risposta alla palese incapacità degli europei di agire in aree di instabilità anche ai propri immediati confini è la Politica Europea di Sicurezza e Difesa (PESD). Lanciata nel 1998 superando la tradizionale contrapposizione franco-britannica sul tema, essa ha messo a disposizione dell’Unione i mezzi necessari a dispiegare missioni internazionali con strumenti civili e anche militari. Tale politica è stata parzialmente riformata dal trattato di Lisbona, diventando la PCSD (Politica Comune di Sicurezza e di Difesa).

Attualmente l’UE ha attive nel mondo 12 missioni internazionali composte da oltre 6.200 unità tra personale civile e militare. Le più significative sono attive nei Balcani, in particolare in Bosnia-Erzegovina, dove dal 2004 operano 1160 uomini impiegati nella missione militare EUFOR Althea, e in Kosovo, dov’è attiva la missione civile EULEX Kosovo, che dispiega un personale di oltre 2100 unità. Circa 1300 militari sono impegnati nella missione navale EUNAVFOR Atalanta, impegnata nella lotta contro i pirati davanti alle coste della Somalia, mentre una missione civile (EUMM Georgia), è attiva con oltre 400 persone per monitorare il rispetto dei termini previsti dalla tregua russo-georgiana dopo la guerra dell’estate del 2008.

L’attività di gestione attiva delle crisi rappresenta una delle più interessanti dal punto di vista della politica estera europea. La sua dislocazione territoriale mette in luce quali sono le aree di maggiore interesse per l’intervento comune europeo – Balcani e Africa soprattutto – e il mix di personale civile e militare, nonché delle modalità operative, rappresenta una caratteristica interessante e originale della capacità europea di gestione delle crisi. Cosa continua a mancare all’Europa, ben più della capacità di dispiegare missioni e di realizzarle, è la volontà politica comune di agire quando necessario. Il caso dell’intervento internazionale Libia è sicuramente indicativo di questo punto.

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L'IMPORTANZA DEI MEZZI: IL BILANCIO – Nel 2012, l’UE ha destinato al finanziamento della propria politica estera 9,4 miliardi di euro, circa il 6,4% del suo bilancio complessivo (che è pari ad appena l’1% del PIL europeo). Le principali voci di spesa riguardano gli interventi legati alla cooperazione allo sviluppo (2,6 miliardi) e l’assistenza finanziaria per i paesi partner della PEV (2,3 miliardi). Il bilancio per la politica estera del 2012 è cresciuto del 7,4% rispetto all’anno precedente.

La proposta di bilancio della Commissione Europea per il 2013 non prevede aumenti significativi della spesa in ambito di politica estera, privilegiando interventi mirati a incentivare la crescita economica nel continente. Se la bozza attualmente elaborata sarà approvata da Parlamento Europeo e Consiglio dell’UE, gli strumenti finanziari a disposizione dell’Unione nella sua politica estera cresceranno dello 0,7%, ossia di appena 61,2 milioni di euro. Viste le sfide che l’UE si troverà ad affrontare soprattutto nel sostegno alla transizione democratica dei paesi del Mediterraneo, la scelta sembra essere, ancora una volta, quella dell’introversione delle istituzioni comunitarie, con gli Stati membri lasciati relativamente liberi di gestire individualmente e, spesso, in concorrenza gli uni con gli altri, i propri aiuti finanziari.

È interessante infine leggere la proposta di programmazione finanziaria della Commissione Europea per il periodo 2014-2020. Per quanto riguarda i fondi destinati all’azione esterna dell’Unione, la Commissione prevede di destinare, nei sei anni previsti, un ammontare complessivo di oltre 96 miliardi di euro. Tale scenario vedrebbe un discreto aumento delle dotazioni finanziarie, che restano comunque una quota significativamente piccola dell’ammontare complessivo del già ridotto bilancio comunitario.

CONCLUSIONI – Se mai lo è stata, l’Unione Europa ha smesso di essere una “potenza liberale” all’inizio del terzo millennio. Completato l’allargamento orientale e finito il momentum unipolare americano, l’emergere di nuove grandi potenze nel sistema internazionale nonché le crescenti difficoltà dell’architettura istituzionale internazionale di rispondere a nuove sfide e nuove minacce inter e intrastatali, hanno reso l’Europa meno sicura, meno aperta e meno disposta a riconoscere gli interessi e il benessere degli altri come parte dei propri obiettivi politici.

Dal punto di vista della politica commerciale, da sempre competenza comunitaria e punto di forza dell’Europa unita, il fallimento del negoziato multilaterale per un nuovo round di liberalizzazioni, gli scontri legati all’anacronistica politica agricola comune con i paesi in via di sviluppo e gli Stati Uniti d’America, al pari dei frequenti conflitti con la Cina in sede di WTO, hanno ostacolato ulteriori passi verso l’integrazione dei mercati internazionali. Al tempo stesso, la crisi economica globale ha rallentato il commercio e incentivato in ogni paese, Europa compresa, spinte protezionistiche e mercantiliste che si credevano superate.

L’UE si trova oggi di fronte alla scelta tra ulteriori passi nell’integrazione economica e politica – che non potrà che comportare una politica estera maggiormente coesa, coerente e incisiva – e la disgregazione. Se, com’è auspicabile e plausibile, si andrà nella prima direzione, l’Europa dovrà sciogliere i suoi decennali nodi strategici, definendo i propri interessi collettivi in relazione all’assetto internazionale nel quale si ritroverà ad operare. Se l’Europa vorrà concepirsi come blocco regionale mercantilista, protezionista e chiuso in se stesso, con ogni probabilità continuerà a percorrere la strada del declino. Basti pensare all’autentico dramma demografico vissuto dal nostro continente, che arriverà a pesare sempre meno dal punto di vista economico e politico, ma anche alla necessità di reperire fonti energetiche diversificate.

Gli Stati europei possono coltivare l’illusione dell’autosufficienza e dell’isolamento come mezzo per risolvere una crisi economica e politica senza molti precedenti, ma dovranno rendersi conto che, in un mondo in cui blocchi contrapposti chiusi in se stessi gareggiano per il predominio regionale e globale, l’Europa non ha speranze di uscire vincitrice. Una fortezza può sopravvivere solo a patto di avere solide mura e la capacità di produrre da sola i mezzi per il suo sostentamento. Se l’UE sceglie la strada dell’introversione e della chiusura, diventerà una fortezza di carta in mezzo alla tempesta.

Solo in un sistema internazionale multilaterale, aperto e cooperativo, l’UE può continuare a rivestire un ruolo di primo piano in quanto attore economico e politico. L’Europa può essere “sicura”, nel senso di prospera, stabile e dinamica, soltanto in un “mondo migliore”, per il quale l’azione liberale e cooperativa degli europei resta un elemento decisivo, oggi come nel futuro.

Davide D’Urso [email protected]

Leggi qui la prima parte dell'articolo

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