Intervista ad Arturo Varvelli, Head of Terrorism Research Program di Ispi, che con voce forte ci dice che l’unica strada fattibile, e soprattutto per noi conveniente, non è rispondere con le armi, ma con la politica. Ecco perchè
Arturo, partiamo dai fatti di venerdì sera. Si discute molto di cosa avrebbero potuto fare i servizi segreti francesi. Qual è la tua opinione in merito?
I nostri apparati di sicurezza sono bravi, e certamente non si può controllare tutto: il caso Chalie Hebdo è lì a dimostrarlo. Certo però ora qualcosa sui servizi segreti francesi va detto: pochi mesi dopo un attentato dello stile di Charlie Hebdo, quello di venerdì prevede diversi passaggi di comunicazione e di armi che non si è riusciti ad intercettare in alcun modo, con una serie attacchi multipli neanche contrastati nell’immediato. L’unica cosa positiva da sottolineare in Francia è che sono uscite poche immagini video, diversamente da quanto accaduto a gennaio. Si è riusciti a controllare meglio quest’aspetto ed è importante, perché bisogna pensare che l’obiettivo dei terroristi è fare propaganda. Non sono d’accordo con il mostrare le immagini, crea una cassa di risonanza che corrisponde esattamente all’obiettivo dei terroristi: creare terrore.
Da sabato in redazione ci stiamo confrontando su sette temi per capirne di più sugli attentati di Parigi. Tra questi, cosa è particolarmente interessante approfondire a tuo avviso?
Certamente l’aspetto della nostra reazione, di una possibile risposta giusta, anche al di là degli attentati di Parigi. È utile approfondire i rischi che corriamo, e le correlazioni tra questi e il coinvolgimento dell’Occidente nelle ultime guerre compiute in diversi teatri, dall’Afghanistan all’Iraq, fino alla Libia. C’è una sovrapposizione ed una corrispondenza incredibili tra la mappa degli stati falliti e la mappa degli Stati con una presenza di radicalismo islamico. Afghanistan e Libia sono stati falliti, il Pakistan non ha un controllo territoriale, l’Egitto non lo ha nel Sinai, l’Iraq è una sorta di stato fallito che sta in piedi a malapena, per non parlare dello Yemen. Non è un caso che l’ultimo baluardo dell’integralismo islamico si sia fatto Stato, proprio in sostituzione delle carenze di questi stati. È dunque evidente che se noi proseguiremo solamente con una strategia militare, continueremo a rincorrere i terroristi. Se continueremo ad utilizzare solo interventi e mezzi militari, pensando magicamente che con questi si risolva il problema, continueremo a reiterare lo stesso errore. Bisogna passare dal counter terrorism puro, che comunque va fatto in ogni caso e andrà avanti diversi decenni, a qualcosa che assomigli di più allo state building. Se noi non riportiamo l’attenzione internazionale dal counter terrorism allo state building, non solo continueremo a rincorrere terroristi, ma ancor più lo faremo per terroristi non definiti tali da noi, ma da nostri partner dell’area, in particolare Emirati Arabi, Sauditi, Russi, Egiziani, Tunisini, come il caso del ragazzo marocchino arrestato qui da noi a maggio per la strage in Tunisia, dichiarato terrorista, che poi si è rivelato non esserlo affatto. Quindi in realtà il counter terrorism non preserva totalmente; certo va compiuto, ma il vero punto è tentare di stabilizzare il Medio Oriente. E questo non si fa con gli aerei, i carri armati, i bombardamenti, ma con un lavoro molto più duro, lungo, difficile. Rimango certamente pessimista sui tempi, ci vorranno 10 o 20 anni, ma se non facciamo così e ricorriamo alle armi, di anni ce ne vorranno 50-100 anni.
È possibile tracciare oggi una strada concreta? Come si può arrivare a questa stabilizzazione nell’area, nel percorso che ci proponi?
Certamente un punto è l’accordo con l’Iran, così come lo sarebbe una nuova politica nei confronti della Russia. E poi sarebbe assolutamente importante non dico far parlare, ma quantomeno far convivere nella stessa arena politica, senza scontri aperti, i Sauditi come capi rappresentanti del sunnismo, e l’Iran come rappresentante dello sciismo. Creare una camera di compensazione di qualche tipo a livello regionale (e qui andrebbe inserita anche la Turchia) che riesca a far convivere diversi interessi dovrebbe ora essere fondamentale, dato che la minaccia Isis sta diventando reale anche per la Turchia, nonostante rimangano i Curdi l’attenzione principale di Ankara. La stessa preoccupazione ce l’hanno sempre più anche i Sauditi. I mostri generati si ritorcono ormai anche contro di loro.
Tutti gli altri attori rilevanti della regione si stanno muovendo. Noi dovremmo “capitalizzare” l’attacco a Parigi su questa strada politica, e non in senso militare. Poi faremo ancora bombardamenti, la Francia ha già iniziato, ma questi ovviamente non risolveranno la questione, così come non si è risolto nulla (anzi!) compiendoli in Libia. Adesso qualcosa si deve fare, c’è un discorso di “giusta ritorsione”, Hollande si è dimostrato debolissimo e quindi una prova di forza di qualche tipo deve darla, però se non c’è altro continueremo con questa deriva, che sinceramente mi appare pessima.
Da più parti si sottolinea la necessità di una intesa tra Washington e Mosca per dirimere questi temi. Anche tu hai citato questo poco fa. Nel breve periodo lo ritieni fattibile o è fanta(geo)politica?
Di certo è un aspetto molto importante. Quanto sia fattibile non lo so, ma non mi pare che ci sia una alternativa. Questo certo passa anche da una visione più globale dei rapporti con la Russia, perché è ovvio che non puoi parlare con Mosca della Siria facendo finta che l’Ucraina non esista, o che non ci sia un particolare asse russo con Iran, Assad e il mondo sciita. Occorre comunque parlarsi in maniera più seria.
Concludendo, mi sembra che ritieni che di fatto dobbiamo provare a ricostruire con la politica cocci che in buona parte abbiamo lasciato noi con gli interventi militari.
Dobbiamo accettare il fatto che noi Occidentali, Europa e Usa, abbiamo commesso errori in Ucraina, Siria, Iraq, Libia. Non dobbiamo dimenticarci che siamo in buona parte responsabili di tanti problemi. Questo naturalmente non vuole essere un collegamento diretto con gli attentati, certo non giustifichiamo gli estremisti islamici, ma la destabilizzazione del Medio Oriente è una delle massime cause di tutta questa situazione… e ne siamo responsabili. Poi chiaramente vi è anche tutto un discorso relativo a ciò che si muove all’interno dell’Islam, che certamente in questo periodo è alla ricerca della propria identità, in particolare sul lato sunnita. In una situazione disastrata come questa, c’è qualcuno come Al Baghdadi che si candida alla leadership del fronte sunnita. Vi sono dunque due tematiche parallele, una all’interno dell’Islam e una relativo al livello regionale e internazionale.
Alberto Rossi
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Un chicco in più
Ringraziamo Arturo Varvelli, membro del nostro Comitato Scientifico, per la sua grande disponibilità.
Arturo è ricercatore dell’ISPI dal 2008. Si occupa di Mediterraneo, di Libia e di politica estera dell’Italia. Nel 2006 ha conseguito il Dottorato di ricerca in Storia Internazionale all’università degli Studi di Milano per la quale è stato anche assistente universitario.
Tiene lezioni e partecipa a convegni nazionali e internazionali. Vanta numerose pubblicazioni tra le quali tre saggi sulla Libia “L’Italia e l’ascesa di Gheddafi” (BCDalai, 2009), “Libia: fine rinascita di una nazione?” (Donzelli, 2012, con Karim Mezran) e “Dopo Gheddafi” (Fazi ed., con Gerardo Pelosi), avendo seguito, come si intuisce dai titoli, tutta l’epopea del leader libico ma, soprattutto, sopravvivendo alla scomparsa del suo oggetto di studio preferito.
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Foto: Jean Luke