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Deterrenza: analisi di un concetto

Miscela Strategica – Seppur divenuto di massima importanza e diffusione solo in seguito alla Seconda Guerra Mondiale e all’introduzione dell’arma nucleare negli arsenali degli Stati, il concetto di deterrenza è sempre stato parte del pensiero strategico rivolto alla difesa nazionale. Un’analisi di un concetto fondamentale, della logica ad esso sottesa, delle possibili variabili e dei suoi tipi

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UNA DEFINIZIONE – Thomas Schelling, in La diplomazia della violenza, spiega come la differenza tra forza bruta e coercizione sia che con la prima ci si appropria di qualcosa che si desidera, mentre con la seconda si fa in modo che sia qualcun altro a darcelo. La coercizione consiste dunque in minacce e ricatti allo scopo di ottenere ciò che vogliamo dall’altro. Se ciò accade senza che si faccia realmente ricorso ai mezzi coercitivi di cui si dispone, allora si sta attuando la deterrenza. In termini strettamente militari, la deterrenza consiste dunque nel porre in essere delle minacce verso un altro attore attraverso i propri mezzi allo scopo di prevenire azioni indesiderabili prima che accadano.

FINE STRATEGICO E PERSEGUIMENTO – Si comprende come la deterrenza sia dunque espressione di un obiettivo strategico: il mantenimento dello status quo. Per ottenere questo fine ultimo si possono seguire differenti strade. Da un lato, si può creare una forza che, letteralmente, si interponga tra il nemico ed i suoi obiettivi, impedendogli di materializzare i guadagni della propria aggressione (ciò che in inglese è definito deterrence by denial). Questa strategia è da sempre rintracciabile nel pensiero strategico nell’idea che la creazione di forti forze difensive possano far desistere l’altro dall’attaccare. Un classico esempio è la Linea Maginot francese. Dall’altro lato, una strategia differente è quella di minacciare una rappresaglia che annulli tutti i possibili vantaggi derivanti dall’attaccare (definita come deterrence by retaliation/punishment). Questa seconda strada è divenuta praticabile solo con lo sviluppo e il perfezionamento delle tecnologie che ne rendono realmente possibile l’attuazione, perché affinché essa funzioni il danno da infliggere deve essere intollerabile. Un suo perfetto esempio è la dottrina Massive Retaliation (rappresaglia su larga scala) adottata dall’amministrazione Eisenhower al fine di contenere la presunta superiorità sovietica sul piano convenzionale (così come i costi del mantenimento di forze convenzionali troppo grandi).

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LA LOGICA: IL DISSUASORE – La deterrenza è dunque l’atto di scoraggiare qualcuno dall’intraprendere un’azione per noi indesiderabile attraverso le conseguenze che da tale azione potrebbero scaturire. Nella relazione che viene così instaurata ci sono dunque due parti (tralasciando il caso in cui la deterrenza sia applicata al fine di scoraggiare l’azione contro una terza parte, nel qual caso si parla di deterrenza estesa o extended deterrence): chi esercita la deterrenza, il dissuasore, e chi la subisce. La deterrenza si concretizza così in un meccanismo fatto di minacce e calcoli (eseguiti da entrambe le parti) e, se ha successo, provoca l’inazione della sua vittima (fatto che rende peraltro difficile valutare se il risultato sia frutto della strategia o dovuto ad altre cause). Il dissuasore, al fine di stabilire l’efficacia della propria strategia e la difficoltà nella sua implementazione, deve considerare le seguenti variabili: la motivazione dell’altra parte nell’intraprendere l’azione per la quale si vuole scoraggiarla. Se i possibili guadagni o fattori ideologici rendono la prospettiva di agire particolarmente attraente, i requisiti per un deterrente efficace saranno più elevati. Inoltre, se le aspirazioni al cambiamento dello status quo sono sufficientemente elevate, si può giungere alla conclusione che l’eventuale assenza di alternative può rendere la predisposizione all’uso della forza ancora più elevata, indebolendo così il deterrente. Dunque il dissuasore dovrà anche essere in grado di dare una corretta interpretazione circa le aspettative altrui. Allo stesso modo deve essere considerata la tolleranza dei danni della parte opposta. Se l’attore è disposto a tollerare una soglia elevata, allora la dissuasione sarà più complicata da ottenere. Se si considerasse il quadro ancora semplice, si pensi che ognuno di questi calcoli operati dal dissuasore può essere soggetto a pregiudizi e distorsioni nelle percezioni circa la parte opposta o ad inclinazioni politico-ideologiche, così come fattori culturali. Un’ulteriore serie di variabili può intervenire a semplificare o complicare l’ottenimento di un deterrente adeguato. Queste possono essere: la tecnologia (è la difesa o l’offesa a trovarsi avvantaggiata dallo stato dello sviluppo tecnologico?), la prossimità geografica (più le parti sono prossime più sono vulnerabili all’effetto sorpresa), lo stato delle relazioni (in un clima di distensione le mosse della parte avversa risultano meno minacciose).

LA LOGICA: LA VITTIMA – La parte oggetto di deterrenza, la sua vittima per così dire, è a sua volta impegnata nel calcolo di quattro differenti variabili. In primo luogo l’ammontare dei costi in termini materiali, così come di soft power, aumento delle minacce e diminuzione della proprio potenza, status ed indipendenza. All’opposto, la seconda variabile consiste dei guadagni nelle medesime categorie appena elencate. La terza variabile è la probabilità che i costi vengano inflitti, mentre la quarta è la probabilità che i guadagni si realizzino. Se i costi e la loro probabilità sono alti mentre i guadagni e la rispettiva probabilità bassi, la deterrenza ha una buona probabilità di aver successo; non sarebbe così se i valori si invertissero. Possono però esistere casi dal ben più dubbio esito, in cui costi o guadagni sono alti (bassi) e la probabilità che si realizzino bassa (alta).

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I TIPI DI DETERRENZA – La visione comune della deterrenza, comprensibilmente pesantemente influenzata dalle vicissitudini della Guerra Fredda, concepisce quest’ultima come enormi arsenali di armi nucleari puntate su obiettivi già stabiliti e pronte al lancio. Per quanto questa immagine corrisponda parzialmente al vero, riduce il fenomeno agli aspetti strategici. Slegandosi dall’armamento nucleare e approcciando il fenomeno in termini più astratti (sebbene non troppo), è possibile concepirlo in maniera più sfaccettata. Come appena detto, esiste la cosiddetta deterrenza strategica: questa consiste nell’applicazione della minaccia agli interessi vitali dell’altro al fine di scoraggiare un attacco ai propri. Per una più facile comprensione, si pensi per l’appunto alla Guerra Fredda e alla minaccia delle superpotenze alle opposte forze (nella cosiddetta strategia controforze) e città (strategia controvalore). A questa canonica concezione della deterrenza se ne può affiancare una seconda, definibile come deterrenza intrabellica: si tratta di scoraggiare l’escalation in un conflitto già in corso. L’escalation può avvenire in diversi modi: con la conduzione del conflitto a un nuovo livello, come si ipotizzava nelle teorie di guerra nucleare limitata ed in tal caso la deterrenza può avvenire per il tramite del meccanismo di “dominio dell’escalation” (escalation dominance). Un’escalation alternativa è l’espansione del conflitto a una nuova area. Una terza modalità può essere l’ampliamento degli obiettivi delle forze impegnate; un esempio in tal senso è l’estensione delle operazioni di bombardamento ai centri abitati invece che ai soli obiettivi militari propriamente detti. Un’altra possibilità di escalation può essere l’impiego di nuovi armamenti sino ad allora rimasti inutilizzati. Per finire, un terzo tipo di deterrenza è la deterrenza di genere (in-kind deterrence): quest’ultima è specifica, dato che consiste nello scoraggiare l’utilizzo di una determinata categoria di armamenti attraverso la minaccia di una rappresaglia di genere (in-kind retaliation). Un eccellente esempio può trovarsi nell’assenza della guerra chimica durante la Seconda Guerra Mondiale: unitamente ad altre variabili, la paura di ognuno dei belligeranti di non poter gestire una guerra chimica condusse all’astensione dall’utilizzo dei pur larghi rispettivi arsenali.

Matteo Zerini

[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]Un chicco in piĂą

Nel corso dell’articolo si è fatto riferimento al termine extended deterrence. Questo si riferisce all’estensione della deterrenza messa in atto da una delle parti al fine di dissuadere l’altro dall’attaccare una terza parte, solitamente un alleato o uno Stato cliente. Una simile necessitĂ  complica decisamente la creazione di un deterrente efficace, poichĂ©, per quanto importante questo alleato possa essere, la sua importanza non sarĂ  mai eguagliabile alla sicurezza del dissuasore strettamente intesa. Il punto centrale della questione è la credibilitĂ  dell’impegno del dissuasore nel garantire la sicurezza del proprio alleato. L’avvento dell’arma nucleare ha complicato incredibilmente tutto ciò: specie a seguito del raggiungimento del bipolarismo nucleare e dello stato di distruzione mutua assicurata (MAD), la necessitĂ  degli Stati Uniti fu quella di assicurare il proprio impegno all’Europa Occidentale nonostante i rischi derivanti dalla MAD. Considerata l’impossibilitĂ  di dare credibilitĂ  a dottrine che contemplassero il passaggio da uno stato di pace ad uno di guerra termonucleare totale, il motivo principale delle successive rivisitazioni della strategia di deterrenza statunitense fu quello di colmare le lacune causate dall’extended deterrence attraverso sempre piĂą complessi scenari di guerra nucleare limitata, che tentavano di coniugare deterrence by denial con gli stadi piĂą avanzati dell’escalation contraddistinti da deterrence by punishment. [/box]

Foto: x-ray delta one

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Matteo Zerini
Matteo Zerini

Laureato magistrale in Relazioni Internazionali presso la Statale di Milano, frequento ora il master Science & Security presso il King’s College di Londra. Mi interesso soprattutto di quanto avviene in Europa orientale, Russia in particolare, e di disarmo e proliferazione, specie delle armi di distruzione di massa.

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