In un arcipelago dove il 95% della popolazione è cristiana, c’è una minoranza musulmana che da quarant’anni lotta per l’indipendenza. Alcuni di essi sono disposti a scendere a compromessi con il Governo di Manila, mentre altri aspirano invece a formare una succursale dello Stato Islamico nel Sud-est asiatico. In un quadro già di per sé complesso, le elezioni presidenziali in programma a maggio costituiscono una tappa fondamentale per la stabilità delle Filippine, nel bene o nel male
GRUPPI ARMATI E CANI SCIOLTI – Quasi quattro secoli di lavoro missionario hanno fatto delle Filippine moderne uno dei pochi Paesi del Sud-est asiatico a maggioranza cristiana. Solo il 5% della popolazione professa la religione musulmana, minoranza residente soprattutto nelle isole del sud (arcipelago di Sulu, isole di Palawan e del Mindanao) e che da decenni si batte strenuamente perché al proprio territorio d’origine venga concessa un’autonomia sentita come doverosa per mantenere il distinguo tra le due confessioni religiose. Come in numerose situazioni analoghe, anche qui una parte dei movimenti indipendentisti locali ha finito per adottare posizioni religiose fondamentaliste, dando vita ad una galassia ben articolata di gruppi armati che minacciano la stabilità del Paese.
L’inizio della lotta separatista risale agli anni Settanta con la fondazione del Moro National Liberation Front (MNLF), gruppo armato che comincia la lotta per l’indipendenza del Bangsamoro (o Mindanao). Nel corso degli anni, una serie di secessioni e lotte intestine ha permesso l’istituzione di tutta una serie di falangi armate. Nonostante l’aspirazione comune resti quella di amputare il cordone ombelicale che li lega a Manila, i diversi attori si vedono in disaccordo sul come e il perché.
Fig. 1 – Soldati filippini pattugliano una strada della Provincia del Maguindanao dopo l’esplosione di un ordigno, febbraio 2016
Nel corso degli anni Settanta dal MNLF si distacca il Moro Islamic Liberation Front (MILF), convinto che la strada migliore per il Mindanao sia la creazione di uno Stato retto dalla sharia. È il gruppo fondamentalista più numeroso, che ha però dimostrato una certa apertura ad avviare negoziati di pace con il Governo. Una scelta che ha sedato le violenze e stabilizzato parzialmente la situazione nell’isola.
Ma l’apertura al dialogo ha avuto l’effetto indesiderato di accendere gli animi di quanti non sono disposti a scendere a compromessi. Gruppi di dimensioni più ridotte, ma più attivi e violenti, continuano ad orchestrare attacchi ed attentati finanziando le operazioni attraverso il rapimento di ostaggi, molti dei quali stranieri. Attacchi, esplosioni e rapimenti si concentrano sia nel Mindanao che nelle isole del Basilan e dello Jolo, dove le minoranze musulmane sono di casa. Dal 2000 ad oggi sono 40 i maggiori attentati con esplosivi registrati nell’arcipelago, perlopiù perpetrati da Abu Sayyaf, i Bangsamoro Islamic Freedom Fighters e gruppi minori come il Maute Group e Ansar al-Khilafa.
TRATTARE PER LA PACE O AFFILIARSI ALL’IS – Nel 1990 Governo e MNLF si accordarono per la creazione della Regione Autonoma del Mindanao Musulmano (ARMM). Però, come sostenuto dall’attuale Presidente filippino Benigno Aquino III, si è trattato di un «progetto fallito»: da un lato il fiorire del fondamentalismo ha riacceso la violenze, dall’altro l’autonomia non è stata in grado di rimediare a problemi strutturali come corruzione e povertà.
Il disagio e la rabbia diffusi tra le classi più deboli dei musulmani filippini hanno permesso il proliferare di organizzazioni come Abu Sayyaf. I suoi affiliati, insieme a quelli di altri gruppi minori come il violento Ansar al-Khilafa, sono apparsi in un video del 4 gennaio 2016 in cui giurano la propria fedeltà allo Stato Islamico. Non ci sono per ora fonti sicure che confermino una risposta di consenso da parte di Al Baghdadi. Tuttavia, dal momento che la strada del fondamentalismo è allettante per chi ha smesso di credere nel dialogo con le Istituzioni filippine, il Governo di Manila è chiamato a una presa di posizione forte che limiti il dilagare del fenomeno jihadista.
Fig. 2 – Un cartellone pubblicitario ritrae il Presidente Benigno Aquino III e il leader del MILF Ibrahim Murad, ricordando la necessità di approvare il prima possibile la Bangsamoro Basic Law al fine di completare il processo di pace nel Mindanao
In questi giorni è al vaglio del Senato la Bangsamoro Basic Law (BBL), una proposta di legge che sostituirebbe l’attuale ARMM con una più strutturata (e indipendente) Regione Autonoma del Bangsamoro. La proposta, frutto dell’accordo di pace tra Governo e MILF del marzo 2014, è indicata da molti come la spinta decisiva a instaurare un processo democratico che porti stabilità nel sud del Paese.
Data l’alta posta in gioco e le resistenze di una parte del Senato, c’è il rischio che la promulgazione della legge sia deferita alla nuova amministrazione. Il risultato delle elezioni presidenziali del 9 maggio diventerebbe a questo punto un fattore decisivo per la stabilità delle Filippine e la lotta al terrorismo.
L’OMBRA DELLE PRESIDENZIALI – Il 9 maggio i cittadini filippini sono infatti chiamati a votare per scegliere il successore del Presidente uscente Benigno Aquino III. Secondo le ultime stime, a guidare la classifica dei pretendenti è la senatrice Grace Poe (27%), seguita dal Vice-Presidente uscente Jejomar Binay (24%) e dal Segretario degli Interni Manuel Roxas (22%), quasi a pari merito con Rodrigo Duterte (21%), sindaco della città di Davao.
Visto lo scarto minimo di consensi tra i quattro, il risultato è imprevedibile: le politiche economiche molto simili preannunciate dai candidati spostano infatti la lotta sul piano della personalità e del carisma che ciascuno saprà dimostrare. Parallelamente, la minaccia della radicalizzazione dell’IS è minimizzata e nessun candidato vuole sbilanciarsi troppo indicando misure specifiche per affrontare la questione del Mindanao.
Fig. 3 – La senatrice filippina Grace Poe saluta i suoi elettori dopo l’annuncio della sua candidatura a Presidente, settembre 2015
Il tema della lotta al terrorismo rimane centrale in una situazione di instabilità come quella filippina, i cui sviluppi imprevedibili sono legati all’approvazione della BBL e alla convinzione dei candidati di far fronte al problema in modo strutturale, partendo dal benessere dei loro elettori. Nelle Filippine un quarto della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà, e già nel 2005 le Nazioni Unite avevano indicato la deprivazione economica come fattore chiave per la risoluzione del conflitto nel sud del Paese.
Il nuovo Presidente sarà quindi chiamato ad affrontare il fondamentalismo islamico non tanto in quanto ideologia, quanto in risposta ad una situazione di povertà e frustrazione. Tra qualche settimana conosceremo il suo nome.
Fig. 4 – Il pranzo di una famiglia in uno dei quartieri più poveri di Manila. Secondo gli ultimi dati, un quarto della popolazione filippina vive con meno di un dollaro al giorno.
Emanuel Garavello
[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]Un chicco in più
Nelle Filippine la tortura è tuttora un problema radicato e diffuso. Questa continua a essere una pratica comune, nonostante la promulgazione nel 2009 dell’Anti-Torture Act, tanto che nessun colpevole di tale reato è stato condannato penalmente alla fine del 2015. Amnesty International riporta che nel solo 2014 sono 51 i casi di tortura registrati, i quali citano soprattutto gli ufficiali di polizia come autori dei barbari trattamenti. [/box]