In 3 sorsi – Nell’aprile del 1994, nel Paese dalle mille colline, circa un milione di persone persero la vita nell’indifferenza del mondo intero. Ma oggi il Rwanda non ha solo cambiato la sua bandiera, ha dato a tutto il mondo una lezione di speranza, forza e cambiamento
1. IL SILENZIO DEL MONDO DI FRONTE A 100 GIORNI DI MASSACRI – Il 6 aprile del 1994 è stato per molti un giorno qualunque. Ma non per il Rwanda. Quel piccolo Paese dalle mille colline verdi, dove le piantagioni di caffè e di tè definiscono uno dei paesaggi più belli di tutta l’Africa, si “preparava” a vivere uno dei periodi più bui della storia odierna, un genocidio che, secondo alcuni articoli apparsi sulla BBC e stando a quanto riportato da organizzazioni quali United to End Genocide, ha provocato circa un milione di vittime e migliaia di profughi.
L’abbattimento dell’aereo su cui viaggiavano l’ex Presidente rwandese, Yuvénal Habyarimana, ed il Presidente del Burundi, Cyprien Ntaryamira, fu il pretesto usato dalle milizie Hutu per avviare le azioni di sterminio ai danni della minoranza Tutsi, considerata un nemico interno da cancellare. Le atrocità commesse in circa cento giorni dalle milizie Interahamwe e simpatizzanti Hutu furono inenarrabili: colpirono sia i Tutsi che i cosiddetti Hutu moderati, ovvero coloro i quali rifiutavano di imbracciare un machete e mettere a ferro e fuoco le case Tutsi. Non importava se il Tutsi in questione fosse un completo sconosciuto o il vicino di casa con il quale si era soliti trascorrere del tempo insieme: l’obiettivo era giungere a un Rwanda abitato e guidato dalla sola etnia Hutu. È per questo che nemmeno i bambini vennero risparmiati dalle violenze e dalle uccisioni, nonché le donne, vittime di stupri di massa, azione questa oggetto di analisi ancora oggi perché considerata uno strumento di genocidio al pari del machete.
Non solo famiglie sterminate e l’indifferenza del mondo. Ciò che rese il Rwanda un inferno furono le conseguenze sul tessuto sociale che, in molti casi, sono ancora oggi presenti: l’accertamento delle responsabilità e la condanna dei criminali ha impiegato un tempo piuttosto lungo. Benché il Tribunale Penale Internazionale per il Rwanda, che opera ad Arusha già dal 1994, abbia emesso un totale di 61 sentenze, molte responsabilità restano oggi non accertate. Non solo il Tribunale ad hoc, ma anche i tribunali tradizionali rwandesi hanno svolto un lavoro di analisi che ha permesso un numero di condanne ancora maggiore e delle volte assicurando anche un più rapido accertamento delle verità, un elemento imprescindibile laddove carnefici e vittime sono spesso costretti a convivere nella medesima comunità.
Fig. 1 – Scene dal genocidio avvenuto vent’anni fa in Rwanda
2. KWIBUKA: LE COMMEMORAZIONI DI APRILE – Ogni anno, nel mese di aprile, si commemora quanto accaduto nel 1994. Kwibuka, che in Kinyrwanda significa “ricordare”, è anche il movimento che annualmente definisce il tema sul quale le comunità rwandesi di tutto il mondo dovranno incentrare i loro incontri per le commemorazioni: quest’anno il messaggio è Fighting Genocide Ideology [Combattere l’ideologia genocidaria] rivolta non solo a sottolineare la sua esistenza e l’impossibilità di accettarne il negazionismo, ma soprattutto a sradicare questo cancro che ancora oggi affligge diverse parti del mondo.
L’obiettivo è quindi quello di non consentire mai più altri “Rwanda 1994”, nonostante sia doveroso sottolineare che il Paese conobbe simili atrocità non solo 22 anni fa, ma anche poco prima dell’indipendenza avvenuta nel 1962, quando gli Hutu si contrapposero ai Tutsi. Volendone citare le cause, non è possibile sorvolare sulle responsabilità occidentali che, all’epoca del colonialismo, individuarono negli Hutu e nei Tutsi caratteristiche “inconfondibili” e per le quali l’una o l’altra etnia dovessero essere preposte ad una mansione piuttosto che un’altra all’interno della società e in politica. È da questa disparità imposta, secondo la quale un’etnia era fidata mentre l’altra non lo era, che entrambe, pur avendo vissuto pacificamente fino ad allora, cominciarono a guardarsi l’un l’altra come nemici. Ciò che ha portato al 1994, oltre alle violenze del periodo dell’indipendenza, è un processo per cui prima il colonialismo, e poi una convinzione divenuta parte dell’immaginario Hutu, vedeva i Tutsi superiori per intelligenza e connotazioni fisiche, quali l’altezza piuttosto che il portamento. «Ecco, tutto questo non vogliamo accada più» è il messaggio che trapela dalle commemorazioni: ma sappiamo che in Africa oggi, di “mai più” è ancora difficile poter parlare.
A Kigali come a Roma e in tutta Italia le commemorazioni si sono susseguite alla presenza di ospiti illustri, ma soprattutto di chi il genocidio lo ha vissuto sulla propria pelle o su quella dei propri cari. La verità è nelle parole di chi ha conosciuto una simile tragedia, e negarla è un atto che molto si avvicina a commettere una violenza come quelle compiute da chi materialmente è stato artefice di questi crimini contro l’umanità. È per questi motivi che associazioni e le stesse comunità rwandesi in tutto il mondo si battono affinché la memoria sul genocidio del Rwanda non venga meno: “I Giusti del Rwanda” sono coloro che con la loro testimonianza possono oggi raccontare che il Rwanda 1994 è esistito davvero.
Fig. 2 – Donne rwandesi: simbolo della rinascita del Paese
3. NONOSTANTE IL PASSATO, LA SPERANZA È NEL FUTURO – «Non è possibile tornare indietro» è quanto diversi leader mondiali hanno detto all’indomani dei massacri in Rwanda. Ciò è vero, ma ci si chiede ancora oggi perché la comunità internazionale non si sia mossa affinché le violenze cessassero immediatamente. Ci si chiede perché il “fax del genocidio” datato 11 gennaio 1994, inviato dal comandante delle forze di peacekeeping delle Nazioni Unite, Romeo Dallaire, che denunciava il verificarsi di tensioni e violenze, non abbia ottenuto esito. La stessa presenza ONU era dovuta alla necessità di vigilare sul Paese alla luce di quanto accaduto oltre trent’anni prima.
Ma la lezione più importante la impariamo dallo stesso Rwanda, dove un Parlamento e un Governo con un’alta composizione femminile sta guidando il Paese verso la rinascita, dove i progetti per lo sfruttamento sostenibile dei territori agricoli si susseguono, dove diverse ONG stanno oggi lavorando a stretto contatto con le comunità locali affinché nuove infrastrutture e condutture idriche siano costruite. Il Presidente Paul Kagame è una figura certamente carismatica e che molto ha contribuito al rilancio dell’economia rwandese, ma non è esente da critiche soprattutto all’interno del Rwanda stesso, quali ad esempio quelle che lo vedrebbero legato alle milizie estremiste congolesi.
Il PIL del Paese cresce al ritmo dell’8% annuo e gli investimenti nel settore tecnologico sono molteplici. tanto che, pur essendo un piccolo Stato senza sbocchi sul mare e povero di risorse minerarie, sta riuscendo nella grande impresa di garantire l’accesso ad internet anche nelle zone più remote, dinamica questa di grande impatto se pensiamo ai risvolti positivi che può avere sull’insegnamento e l’informazione.
C’è da fare ancora tanto lavoro, molte zone rurali sono ancora affette da una povertà cronica, ma il Rwanda è oggi fiero di quanto fatto e delle sfide che sta intraprendendo. Sta rimarginando le sue ferite e su questo, il mondo, non può tacere.
Sara Belligoni
[box type=”shadow” align=”” class=”” width=””]Un chicco in più
A questo link trovate informazioni aggiuntive sulla Corte Internazionale per i crimini commessi in Rwanda.
[/box]
Foto: United Nations Photo