Più perde terreno nel Siraq e in Libia, più il Califfato di al-Baghdadi moltiplica gli sforzi per irraggiare la sua azione jihadista al di fuori dei teatri di guerra mediorientali. In questo articolo vediamo a quali pericoli va incontro il Caucaso, dove il probabile ritorno di migliaia di foreign fighters potebbe far sprofondare nuovamente la regione nel caos.
LA PRIMA VENTATA JIHADISTA E L’ESPERIENZA DI IMARAT KAVKAZ – L’intensa relazione tra il fondamentalismo islamico di stampo wahabita e la Cecenia risale al periodo che intercorre tra le due guerre cecene, ovvero la seconda meta degli anni Novanta. In tale periodo l’anima della rivoluzione cecena si trasforma e passa dall’avere uno stampo maggiormente nazionalista e indipendentista ad averne uno più fondamentalista e religioso. Numerosi combattenti accorrono dall’estero. Alcuni dall’Afghanistan, altri dalla Bosnia e molti altri da tutto il Medio Oriente. Il wahabismo attecchisce sempre di più negli strati della popolazione che risentono maggiormente degli effetti della guerra, soprattutto nei quartieri devastati della capitale Grozny. Fame, morte e povertà sono ovunque e la popolazione colpita dalla guerra fugge negli altri Stati del Caucaso diffondendo ancor di più il wahabismo in tutta la regione. Il desiderio di proclamare l’indipendenza della Repubblica Cecena si mischia con il progetto di dare vita ad un emirato caucasico che sia la patria di tutti i mujāhidīn. L’invasore non è più soltanto russo, ma viene ora identificato anche come infedele. Così, mentre nei primi anni Duemila l’esercito inviato da Putin termina il suo lavoro sul suolo ceceno, Shamil Basayev, l’anima fondamentalista della rivoluzione, dà il via ad una delle più sanguinarie stagioni terroristiche che la Russia abbia mai conosciuto. L’apice di questa escalation terroristica si avrà con il sequestro del teatro Dubrovka a Mosca nell’ottobre 2002 e con la presa in ostaggio della scuola di Beslan nel settembre 2004 .
Fig. 1 – Le due anime dell’insurrezione cecena: quella nazionalista di Mashkadov (a destra) e quella fondamentalista di Basayev (a sinistra)
Con la morte di Basayev nel 2006, il comando delle operazioni passa di mano in mano, da un gruppo all’altro, fino ad arrivare a Doku Umarov. Dopo essere diventato presidente della Repubblica Cecena di Ichkeria, il 31 ottobre 2007 quest’ultimo dichiara la sua carica decaduta e sancisce l’abolizione della Repubblica. Nasce Imarat Kavkaz – l’Emirato Caucasico – e Doku Umarov si proclama Amir di tutti i mujāhidīn. L’Emirato viene diviso in sei wilayat – termine che poi ritroveremo nel gergo del Califfato – che corrispondono alle regioni in cui il Caucaso settentrionale è composto: Nokhchicho, corrispondente alla Cecenia; Galgaycho, ovvero Inguscezia e Ossezia del Nord; Cherkessia, Daghestan, KBK (Kabarda, Balkaria e Karachay) e la steppa di Nogay. Ad ogni wilayat corrisponde una jamaat. Ogni jamaat è guidata da un emir che, di volta in volta, decide obiettivi e strategie del gruppo. I capi dei singoli gruppi, nonostante l’ampia autonomia concessagli, rispondono al majlis al-shura, il consiglio che detta le linee guida del gruppo. Negli anni dell’emirato di Umarov, il gruppo intensifica la sua collaborazione con al Qaeda, che, a dispetto delle sconfitte subite sul campo in Afghanistan e Iraq, resta l’unica referente del jihadismo globale e favorisce la nascita di varie filiali in tutto il mondo che si riferiscano ad essa. Sarà proprio l’appartenenza al brand qaedista, unito alla risposta decisa di Mosca e alla conseguente morte del suo fondatore, che farà sprofondare il gruppo in una crisi da cui non saprà risollevarsi.
LA “FITNA” JIHADISTA E LA NASCITA DI WILAYAT QAWQAZ – Nonostante la nuova stagione di attentati lanciata da Umarov, il gruppo lentamente, ma inesorabilmente, inizia a cadere sotto i colpi dell’antiterrorismo russo. Le operazioni militari nel Daghestan da una parte, e il regime instaurato da Ramzan Kadyrov in Cecenia dall’altro, intaccano il cuore pulsante dell’organizzazione. Con la deflagrazione del conflitto siriano, la maggior parte dei militanti abbandonano il Caucaso per sostenere il jihad sul nuovo fronte di guerra. Di questi foreign fighters che partono per il Medio Oriente, alcuni convergono nel gruppo Jabhat al Nusra, altri entrano nei ranghi del ISIS, altri ancora fondano dei gruppi autonomi. Umarov non condanna apertamente queste defezioni, ma ricorda che il jihad nel Caucaso ha la priorità sugli altri. A marzo 2014 il sito kavkaz-center dà la notizia della morte di Umarov, probabilmente a causa di un avvelenamento. Pochi mesi prima al-Zawahiri, ora leader della “base”, sanciva la decisiva spaccatura tra al Qaeda e ISIS sconfessando questi ultimi. Nella faida andata delineandosi tra i due “campioni” del jihadismo globale molti foreign fighters provenienti dal Caucaso convergono verso i ranghi di al-Baghdadi. Gli effetti di questo scontro si faranno sentire anche all’interno di Imarat Kavkaz che, oltre ad accusare la mancanza di uomini, ora deve fare i conti anche con la mancanza di una leadership forte che tenga coeso il gruppo.
Fig. 2 – Forze speciali russe in azione durante il tragico assedio della scuola di Beslan nel settembre 2004
La leadership del gruppo, dopo la morte del primo Amir, passa nelle mani di Aliashkab Kebekov. Nel frattempo, nel giugno del 2014, dopo la presa di Mosul, al-Baghdadi proclama la nascita dello Stato Islamico e, in veste di amir al mu’minin, invita tutti i fedeli a prestare la bayat verso la nuova entità statale. Alcuni capi delle jamaat caucasiche non restano indifferenti all’invito del nuovo Califfo e a gennaio 2015 iniziano le prime defezioni. A nulla valgono i moniti di Kebekov e di alcuni importanti ideologi gravitanti nell’orbita qaediana. La situazione precipita definitivamente tra aprile e giugno 2015. Kebekov, il successore di Umarov, muore in un raid aereo condotto dalle forze speciali russe. Il suo posto viene preso da Magomed Suleimanov. Pochi mesi dopo un comunicato ufficiale del porta voce del Califfato, Abu Muhammad al Adnani, annuncia la nascita di Wilayat al Qawqaz, provincia caucasica del Califfato, e invita tutti i comandanti locali a prestare la bayat. A capo del governatorato viene posto Abu Muhammad al Qadari, al secolo Rastam Asilderov, uno dei primi comandanti locali – comandante della Jamaat Dagestana – che aveva annunciato la sua defezione da Imarat Kavkaz e prestato giuramento ad al-Baghdadi. Delle sei regioni di cui era composto l’Emirato Caucasico, quattro proclamano la loro fedeltà al Califfo Ibrahim – alias Baghdadi – e l’annuncio viene anche riportato da pubblicazioni jihadiste come Istok e Dabiq. Lo stesso Istok, magazine del Califfato tradotto in lingua russa, era stato lanciato pochi mesi prima dell’annuncio di al Adnani. Ad agosto Magomed Suleimanov rimane ucciso dall’ennesimo raid aereo russo. Da quel momento l’Emirato Caucasico non ha più un leader e il comando delle operazioni nella zona passa definitivamente agli uomini di al Qadari.
LA RIPRESA DELLE OPERAZIONI E L’EFFETTO BLOW BACK DEI FOREIGN FIGHTERS – Nel settembre 2015 la proclamazione di Wilayat Qawqaz e il successivo intervento russo in Siria rianimano la propaganda jihadista nel Caucaso e conferiscono nuovo impulso ad un movimento che negli ultimi anni aveva perso vigore e sopratutto idee. Se da una parte l’intervento russo a Damasco mirava anche a colpire il terrorismo di matrice islamica al di fuori del proprio territorio, al fine di evitare un cospicuo rientro dei foreign fighters che anni prima aveva abbandonato le montagne del Caucaso, c’è da dire che in patria esso sembra aver riportato l’effetto contrario, contribuendo al “risveglio” dei mujāhidīn che invece erano rimasti nel Paese. Alcuni attentati terroristici hanno infatti colpito di recente diversi obiettivi situati nel Caucaso (stazioni di polizia, mercati, caserme dell’esercito), mentre altri sono stati condotti all’estero da uomini provenienti dalla regione. Tra questi ultimi, quello più eclatante è l’attacco avvenuto all’aeroporto Ataturk di Istanbul nel giugno 2016. Un membro del commando di attentatori proveniva infatti dal Daghestan, mentre gli altri due dall’Uzbekistan e dal Kirghizistan. Inoltre, l’ideatore dell’azione, Akhmed Chatayev, è di origine cecena ed è noto da tempo alle autorità russe. Come se non bastasse, a luglio giunge un nuovo video del Califfato che invita i mujāhidīn rimasti a riprendere il jihad in Russia. Questo può bastare per capire la preoccupazione di Mosca per il rinvigorirsi del jihadismo, non solo nel Caucaso, ma anche nelle ex-repubbliche sovietiche centro-asiatiche, in questo ultimo anno. Molte misure sono state già prese al Cremlino per ovviare a quella che si preannuncia una stagione difficile. Più il Califfato si avvicina al collasso del suo progetto di ergersi a entità statale, più il Caucaso rischia di rimanere travolto dal sisma che il ritorno dei suoi foreign fighters potrebbe scatenare.
Fig. 3 – Un reparto del SOBR russo impegnato in un’operazione antiterrorismo a San Pietroburgo, agosto 2016
Riconosciuto che fino ad ora i servizi segreti russi, anche grazie alla loro capacità di infiltrazione nei ranghi stessi di Imarat Kavkaz, hanno svolto un eccellente lavoro negli ultimi anni e sono riusciti a colpire duramente l’emirato fino quasi, complice anche l’ascesa dell’ISIS nella regione, ad annientarlo, non è da sottovalutare il pericolo rappresentato dall’effetto blowback dei foreign fighters. Tra le numerose contromisure adottate da Mosca per fronteggiare questo rientro, quando esso avverrà, vanno menzionate l’istituzione della Guardia Nazionale Russa, che avrà anche il compito di controllare le frontiere della Federazione, la conferma di Kadyrov come “padre-padrone” della Cecenia e la politica del pugno di ferro svolta invece nel vicino Daghestan, teatro ormai da anni di operazioni militari di vario genere. Altre iniziative hanno coinvolto i Paesi confinanti con la Federazione, come l’accordo stipulato con la Georgia sul controllo delle frontiere per limitare al massimo il transito dei combattenti di ritorno dal Siraq. Le varie esercitazioni, di cui alcune di vero e proprio antiterrorismo, svoltesi negli ultimi mesi tra Volgograd e il Daghestan, non hanno solo l’obiettivo di testare i nuovi armamenti in possesso dell’esercito. In Russia sanno che il pericolo è alle porte e la storia insegna che non si è mai abbastanza pronti.
CHI GUIDERA’ IL JIHAD NEL CAUCASO? – Non appena si raggiungerà un accordo sul futuro della Siria, il progetto statale dell’ISIS potrebbe naufragare definitivamente. Questa sconfitta potrebbe inoltre colpire al cuore l’ideologia del sedicente Stato Islamico, privandolo di quello che era il suo motivo di maggiore attrazione sul network jihadista, cioè la promessa di uno Stato. La potenza di questo messaggio in questi anni è riuscita ad oscurare, fino quasi ad eclissarla completamente, la propaganda di al Qaeda. Le iniziative intraprese in questo ultimo anno dal Califfato denotano un vera e propria ridefinizione degli obiettivi dell’organizzazione, consapevoli ormai anche loro che la fine si avvicina. Ad ogni passo indietro nel Siraq sembra corrispondere un passo in avanti all’estero, con più attentati portati avanti in Occidente e nei Paesi considerati “apostati” dagli affiliati del gruppo jihadista. Illuminante per capire meglio a cosa andiamo incontro è l’ultimo messaggio rilasciato da al Adnani, poco prima di rimanere ucciso nei pressi di Aleppo: “anche quando Mosul e Raqqa cadranno e noi saremo tornati al nostro stato originario, la sconfitta non ci avrà raggiunto. Essa ci raggiungerà solo quando nel nostro cuore mancherà la voglia di combattere.”
Confermata l’intenzione di continuare a combattere per Daesh anche dopo la fine della sua entità territoriale, resta da capire chi potrà prendere in mano il proseguimento del jihad nel Caucaso. Con il protrarsi delle sconfitte in Siria, in Iraq e in Libia, sembra che lentamente al Qaeda stia recuperando terreno sul Califfato nella sfida per i cuori e le menti dei jihadisti. Se questa tendenza dovesse essere confermata potremmo assistere ad un ritorno in auge del gruppo guidato da al Zawahiri che, negli ultimi vent’anni, ha dimostrato una sorprendente capacità di riadattamento e trasformazione. Bisognerà vedere se anche l’ISIS sarà in grado di riadattarsi dopo la sconfitta. Questo ovviamente potrebbe avere ripercussioni anche nel Caucaso. Al momento sembra che la fedeltà locale sia saldamente nelle mani dell’ISIS, anche se ancora qualche nostalgico di Imarat Kavkaz è rimasto. Ma il ritorno dei foreign fighters nel Caucaso potrebbe scombussolare totalmente la situazione. Si potrebbe andare incontro ad una vera e propria lotta per la popolarità tra i due “campioni” del jihad, condotta a colpi di attentati sanguinosi e spettacolari. Chi dimostra maggiori capacità di organizzazione e può offrire un margine di successo più ampio può attrarre più seguaci tra le proprie fila. Questo chiaramente sarebbe il quadro peggiore che si immaginano gli esperti del settore. La cosa certa è che le jamaat caucasiche ci hanno già abituato ad improvvisi voltafaccia. Perché la loro fedeltà, di volta in volta, è alla mercè di chi gli possa garantire maggiori possibilità di edificare il loro emirato e di combattere nel modo più efficace possibile l’infedele russo. Al Qaeda o Daesh che sia.
Valerio Mazzoni
[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]Un chicco in più
Analizzando la nascita delle varie filiali del Califfato nel mondo islamico si può ipotizzare che, dopo la sconfitta in Siria e Iraq, lo Stato Islamico intraprenda un percorso simile a quello che intraprese al Qaeda dopo la sconfitta in Afghanistan. Negli anni che seguono il 2003 abbiamo assistito alla nascita di una dozzina di filiali qaediane o di affiliazioni di gruppi esistenti sotto l’ombrello del gruppo di al Zawahiri. Le varie AQAP (Al Qaeda nella Penisola Arabica), AQI (Al Qaeda in Iraq), AQIM (Al Qaeda nel Maghreb Islamico) e AQIS (Al Qaeda nel Subcontinente Indiano) nacquero in un contesto simile a quello che si appresta ora a vivere il Daesh. [/box]
Foto di copertina di Ninara Rilasciata su Flickr con licenza Attribution License