Caffè Americano – Talvolta le elezioni americane si sono contraddistinte nel corso della Storia per la presenza di scheletri nell’armadio che – veri o presunti che fossero – hanno finito poi con l’influire più o meno pesantemente sull’esito delle votazioni. Scandali, omissioni, comportamenti eccentrici: tutto è finito nel calderone dello scontro politico, determinando conseguenze spesso imprevedibili
PRECEDENTI ILLUSTRI – Una storia esaustiva degli scheletri nell’armadio saltati fuori nel corso delle competizioni elettorali statunitensi risulterebbe particolarmente lunga. Fermiamoci dunque ad alcuni dei casi più eclatanti. Nel 1972, l’allora candidato democratico alla Casa Bianca, George McGovern, dovette cambiare in corsa il proprio vice, Thomas Eagleton, dopo che si diffuse la notizia secondo cui fosse stato per lungo tempo in cura psichiatrica. Nel 2000, durante le primarie repubblicane, George Walker Bush riuscì ad eliminare lo sfidante, John McCain, diffondendo notizie artificiose sui suoi comportamenti morali tra l’elettorato conservatore ed evangelico del South Carolina. Nel 2012, toccò invece a Mitt Romney: fu reso difatti pubblico un video in cui l’allora candidato repubblicano sosteneva che il 47% degli americani non lo avrebbe votato perché costituito da parassiti in cerca di assistenzialismo statale. E sempre lo stesso Romney quell’anno si trovò in difficoltà per aver pagato – lui particolarmente ricco – un’aliquota fiscale molto bassa: un fatto che, per quanto penalmente non rilevante, lo mise in cattiva luce davanti a una parte dell’elettorato statunitense. Poi abbiamo il caso del governatore di New York, Mario Cuomo: popolarissimo, fu dato come papabile candidato democratico sia nel 1988 sia nel 1992. Ma in entrambi i casi non è sceso in campo, rifiutandosi inoltre di rilasciare alcuna spiegazione (e per questo qualcuno ipotizza potesse avere le mani legate da qualcosa). Tuttavia, raramente forse come in questo 2016 scheletri nell’armadio e colpi di scena sono stati all’ordine del giorno.
Fig. 1 – Donald Trump durante una conferenza stampa alla Trump University nel 2005
I GUAI DI TRUMP – Non appena iniziò la sua improvvisa ascesa elettorale nell’estate del 2015, Trump si ritrovò sotto il fuoco di fila dei suoi avversari repubblicani, a partire da Jeb Bush. L’ex governatore della Florida attaccò a più riprese il miliardario newyorchese, accusandolo di essere un repubblicano fasullo che in passato non soltanto aveva sposato ideali sinistrorsi ma che aveva anche finanziato la campagna senatoriale di Hillary Clinton. Non a caso, da più parti, si insinuò che la candidatura di Trump fosse un cavallo di Troia usato dall’ex first lady per frantumare il fronte repubblicano. Il magnate, dal canto suo, non si scompose più di tanto: replicò di essere un imprenditore e di aver finanziato in passato candidati di entrambi i partiti. Nuove accuse gli piovvero addosso poi nel corso delle primarie. Marco Rubio lo tacciò di impiegare lavoratori stranieri nelle sue aziende e di aver beneficiato di quella delocalizzazione dei posti di lavoro che invece a parole tanto avversava. Altri guai gli sono poi venuti dalla Trump University accusata di impiegare insegnanti scarsamente qualificati, ricorrere a tecniche troppo aggressive di vendita e spillare quattrini agli sprovveduti. Anche qui tuttavia – nonostante una polemica tra il magnate e un giudice di origini ispaniche – almeno mediaticamente la faccenda è finita nel dimenticatoio. Poi arrivò la questione delle tasse: un argomento molto delicato che – come accennato – mise in difficoltà Mitt Romney quattro anni fa. Il New York Times è uscito con uno scoop, secondo cui il miliardario non avrebbe pagato tasse federali per diciotto anni. Non si tratterebbe tuttavia di evasione fiscale: avendo il magnate dichiarato una perdita di oltre 900 milioni di dollari nel 1995, avrebbe infatti beneficiato di una serie di sgravi assolutamente legali. Per questo, Hillary ha cercato di puntare più sul fatto fosse moralmente riprovevole che un ricco non pagasse imposte federali, anziché attaccare il nemico sul fronte dell’illegalità, dove non avrebbe avuto margini di manovra. Trump, nuovamente, si è difeso: ha rispedito al mittente le accuse, sostenendo di aver agito secondo le norme vigenti e dichiarando che anche i munifici finanziatori dell’avversaria (a partire da George Soros) avrebbero sfruttato le medesime detrazioni. Il resto è storia recentissima. Il Washington Post un paio di settimane fa ha diffuso un video del 2005, in cui il magnate si lasciava andare a commenti pesantemente sessisti. Mentre alcune donne negli ultimi giorni lo hanno accusato di comportamenti sessuali inappropriati. Trump, dal canto suo, ha negato tutto, dicendosi pronto a denunciare le sue accusatrici.
Fig. 2 – Hillary Clinton testimonia davanti alla House Select Committee riguardo agli eventi di Bengasi.
I GUAI DI HILLARY – Se Trump ha i suoi grattacapi, Hillary non è da meno. D’altronde, è dalle primarie democratiche del 2008 che l’ex first lady cerca di scrollarsi di dosso l’immagine di politica opaca e bugiarda che buona parte dell’opinione pubblica (non soltanto repubblicana) le ha attribuito. Certamente questa campagna elettorale per lei non è stata (e non è) una passeggiata, visto l’elevato numero di problemi che le hanno lastricato la strada. Già nel 2014 i repubblicani la attaccavano duramente sul cosiddetto caso Bengasi: quando cioè nel settembre 2012, mentre era Segretario di Stato, rimasero uccisi in un attentato terroristico nella città libica quattro cittadini statunitensi, tra cui l’ambasciatore Christopher Stevens. Una polemica che si inseriva nel più complesso quadro dell’operazione bellica condotta dall’amministrazione Obama in Libia nel 2011, di cui Hillary era stata tra le principali promotrici. Hillary fu ritenuta responsabile nelle falle del sistema di protezione e venne creata un’apposita commissione d’inchiesta alla Camera. Su questo filone si innestò ben presto lo scandalo Emailgate: Hillary fu accusata di aver usato, da Segretario di Stato, l’account personale per scambiare delle mail rilevanti per la sicurezza nazionale. L’ex first lady decise di chiudersi all’inizio dietro un muro di silenzio, alimentando l’idea che avesse qualcosa da nascondere. Intervenne quindi l’FBI che aprì un’indagine sulla questione: indagine che si concluse con un sostanziale nulla di fatto ma a cui seguì comunque un rimprovero per il comportamento da lei tenuto. Nonostante ciò, lo scandalo ha continuato a tenere banco nel dibattito elettorale: Trump ha difatti accusato ripetutamente l’avversaria di scarsa trasparenza, arrivando a sostenere che dovrebbe finire in prigione. Venerdì scorso poi, l’ennesimo colpo di scena: il direttore del Federal Bureau, James Comey, ha annunciato che l’inchiesta sulle email verrà riaperta, essendone state trovate di nuove “potenzialmente rilevanti”. E se è vero che al momento non si parli di rilievo penale, è altrettanto indubbio che – a dieci giorni dalle elezioni – una simile tegola non ci voleva proprio per una campagna elettorale mai del tutto decollata come quella clintoniana. Infine abbiamo la questione della Fondazione Clinton, accusata di aver ricevuto finanziamenti da potenze straniere, proprio nel periodo in cui Hillary era Segretario di Stato. Un affare spinoso, non soltanto perché si delinea l’ipotesi concreta di un conflitto d’interessi. Ma anche perché tra i paesi finanziatori figuravano Stati non propriamente all’avanguardia sui temi dei diritti delle donne, come l’Arabia Saudita: una fonte di imbarazzo non di poco conto per una candidata che ha sempre detto di voler mettere la questione femminile al centro della propria agenda politica. Senza infine contare come la Fondazione Clinton sia finita sotto i riflettori per accordi opachi con il Cremlino, nonostante l’immagine di falco anti-russo che oggi l’ex first lady sta cercando di dare di sé. L’anno scorso, il New York Times riportò che tra il 2009 e il 2013 (quando cioè Hillary era Segretario di Stato) l’agenzia dell’energia atomica russa, Rosatom, avrebbe gradualmente inglobato una società canadese che detiene intorno al 20% della capacità produttiva di uranio degli Stati Uniti. Esattamente in quello stesso lasso temporale, una cospicua quantità di denaro è stata versata dai manager canadesi, che guidavano la società, nelle casse della Fondazione Clinton. Un puro caso?
Stefano Graziosi
[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]Un chicco in più
Secondo Politico, negli Swing States vi sarebbero ancora alte percentuali di elettori indecisi. Non è chiaro se i vari scheletri nell’armadio potranno effettivamente influenzare il loro voto. [/box]
Foto di billy3001 Rilasciata su Flickr con licenza Attribution License