Basuki Tjahaja Purnama è al centro di un caso giudiziario che potrebbe complicare la sua rielezione a Governatore di Giacarta. Apprezzato dai cittadini della capitale indonesiana per la sua capacità di amministrare una metropoli in forte espansione, l’ex imprenditore di origini cinesi è stato infatti formalmente incriminato per aver vilipeso il Corano durante un comizio e dovrà affrontare nei prossimi mesi le proteste dei movimenti islamisti nel più grande Paese del mondo a maggioranza musulmana. Una vicenda che rivela le tante contraddizioni della giovane democrazia indonesiana, soprattutto relative allo status della sua ricca minoranza cinese
LA VICENDA – Prima di abbandonare la sua attività di imprenditore del settore minerario e dedicarsi alla carriera politica, Basuki Tjahaja Purnama (conosciuto in patria come Ahok) non avrebbe mai immaginato di correre per la carica di Governatore di Giacarta. Tuttavia, la sua riconferma non pare affatto scontata, malgrado i favori iniziali dei sondaggi. Il suo destino politico dipenderà molto dall’esito dei suoi recenti guai giudiziari, che lo vedono implicato in un processo per vilipendio del Corano, atto considerato gravissimo nel Paese musulmano più grande del pianeta. È successo che, nel settembre scorso, il cinquantenne Governatore uscente ha accusato i leader religiosi indonesiani di aizzare la folla con prediche infuocate e denigratorie rivolte alle minoranze religiose, a partire da un’interpretazione alquanto contestata del versetto 51 della Surah Al-Maidah. Il versetto contenuto all’interno del libro sacro dell’Islam esorta i fedeli a non stringere rapporti cordiali di alcun tipo con personalità totalmente estranee alla tradizione islamica (cristiani ed ebrei, nella fattispecie). Secondo Ahok, cristiano protestante appartenente alla minoranza cinese, i principali esponenti del clero islamico hanno inteso fornire un’interpretazione deliberata del versetto 51 per sbarazzarsi di lui e favorire così l’elezione di un candidato Pribumi, la comunità nativa dell’arcipelago indonesiano. Il comizio delle Thousand Islands, ripreso con una telecamera e poi caricato sulla rete, ha infuso un profondo risentimento tra i musulmani, che subito dopo l’incidente si sono riversati a migliaia in piazza per esprimere il proprio disappunto. Manifestazioni anti-Ahok sono state organizzate in tutto il Paese dal Consiglio degli Ulama (come i Guardiani nazionali della Fatwa – GNPF-MUI) e da movimenti politici dell’Islam più conservatore (tra i tanti presenti, il Fronte dei Difensori dell’Islam – FPI), sotto l’insegna di Bela Islam (Difendere l’Islam). Il 2 dicembre scorso più di 100 mila persone sono accorse a Giacarta nella più grande manifestazione popolare da vent’anni. Contestualmente all’inizio delle proteste, è partito il processo contro Ahok, il quale dovrà difendersi dalla accuse di blasfemia formalizzate da un tribunale della capitale, secondo quanto previsto da una legge del 1965. Il quadro normativo in materia disciplina i termini e le sanzioni previste per le pratiche blasfeme e vieta a chiunque di commettere atti sacrileghi verso le cinque religioni ufficialmente riconosciute in Indonesia (oltre all’Islam, Cristianesimo, Induismo, Buddhismo e Confucianesimo). Durante il Nuovo Ordine (Orde Baru) imposto dal Generale Suharto tra il 1965 ed il 1998, la legge è stata raramente invocata e in tempi recenti ha riscosso numerose critiche per la sua ambiguità e per le pene previste in caso di condanna (una di queste è la “rieducazione religiosa”). La Corte Suprema indonesiana ha rigettato nel 2008 e, ancora, nel 2013 due istanze di un gruppo di ONG che ne richiedevano l’abolizione in quanto non più rispondente alle necessità del nuovo ordine democratico. A sostegno della decisione dei giudici sono intervenute le dichiarazioni per nulla concilianti di Lukman Hakim Saifuddin, Ministro per gli Affari religiosi, dirette a difendere l’impianto generale della legge per ragioni di ordine pubblico. Tuttavia, in quelle poche occasioni in cui si è fatto ricorso ad essa, qualcuno ha constatato che la legge del 1965 sia stata utilizzata per screditare individui considerati scomodi dal regime militare, prima, e dal presidente della Repubblica in carica, poi. Nel 2012, un funzionario statale di Sumatra fu condannato a due anni e mezzo di carcere per aver reso pubblico il suo ateismo su Facebook. Il periodo di detenzione inflittogli è comunque la metà di quanto Ahok rischierebbe qualora il tribunale dovesse giudicarlo colpevole. Nella prima udienza tenutasi il 13 dicembre e trasmessa in diretta TV, il fedele alleato del Presidente della Repubblica Joko Widodo (Jokowi) si è detto sconcertato dalle accuse e sostiene di essere stato mal interpretato. In effetti, un sondaggio condotto dalla televisione pubblica ha rilevato che il pubblico fatica a bollare come offensive le parole di Ahok. Ma nel frattempo la protesta sui social network era ormai montata, certamente viziata da pregiudizi di vecchia data che la comunità Pribumi riserva da tempo alla minoranza cinese.
Fig. 1 – Membri del gruppo islamico Parmusi espongono alcuni striscioni anti-Ahok fuori dal Tribunale di Giacarta, 10 gennaio 2017
IL “PROBLEMA CINESE” E L’ELITE PRIBUMI “Morte al cane cinese” è lo slogan che riecheggiava in una delle tante manifestazioni contro Ahok. Non è la prima volta che questo accade e, anzi, non sorprende più di tanto la fervente reazione delle associazioni islamiche di fronte a situazioni da esse considerate lesive della propria fede. Al di là dal fattore religioso e dei rapporti tra l’Islam e le altre confessioni religiose minoritarie, però, il caso giudiziario di Ahok è particolarmente significativo perchè riporta alla luce il “problema cinese” (Masalah Cina), un retaggio del passato che si è conservato intatto fino ad oggi e con il quale la giovane democrazia indonesiana continua a fare i conti. Pur costituendo appena il 2% della popolazione totale (su 258 milioni di abitanti), i cittadini indonesiani di origine cinese sono oggetto di duri attacchi – verbali e non – e varie altre forme di discriminazione da parte della comunità Pribumi. Se questa tendenza era stata la norma durante il regime di Suharto, nel nuovo millennio si è cercato di appianare le divergenze tra la comunità etnica maggioritaria e le minoranze linguistiche presenti nel paese (suku bangsa), riconoscendo alla “nazione indonesiana” (Bangsa Indonesia) quel carattere di multiculturalismo che da molti secoli rispecchia la variegata composizione sociale e culturale del Paese asiatico. La prima grande ondata migratoria di cinesi verso l’arcipelago dell’Asia sud-orientale risale al XVI secolo, dunque precedente alla dominazione coloniale olandese. I Peranakan (o Tionghoa) sono i discendenti di quei mercanti ed intermediari provenienti dalla Cina sud-orientale (in gran parte, dall’attuale provincia del Fujian) ed entrati in contatto con le popolazioni locali del Sud-est asiatico con l’intento di fare affari. Man mano che le relazioni economiche proliferavano, i Peranakan assimilarono lingua, usi e costumi locali tanto da occupare un ruolo determinante all’interno del tessuto produttivo indonesiano. Nel pieno del processo di decolonizzazione, i sino-indonesiani presero in mano le redini dell’economia con la compiacenza del regime militare. Ma tutto questo non si tradusse in un formale riconoscimento della minoranza cinese quale parte integrante della grande nazione indonesiana: ciò a dire che era proibito ai Peranakan di ottenere la cittadinanza. Cina era la parola del Bahasa utilizzata per identificare sia i cinesi che i comunisti, assumendo una connotazione offensiva. Nonostante il Nuovo Ordine avesse imposto la soppressione totale di ogni forma di auto-determinazione identitaria e culturale che andasse a cozzare con i supremi interessi della nazione (stabilità politica e difesa della sovranità), la comunità sino-indonesiana continuava a dirigere dietro le quinte il sistema economico nazionale grazie alla fitta rete di relazioni commerciali intessuta in patria e all’estero (guanxi) e alla loro buona istruzione. Il più grande conglomerato industriale dell’epoca, Sinar Mas Group, era in mano ad Eka Tjipta Widjaja, nato a in Cina e figlio di un mercante del Sulawesi. Egli era annoverato tra i c.d. cukong, imprenditori indonesiani di origini cinesi che avevano stretto affari con il regime militare. Questa rete di imprenditori si pensava controllasse più del 70% dell’economia indonesiana e che si spartisse col restante 30% i settori produttivi più redditizi: dall’industria estrattiva a quella immobiliare, dal settore bancario a quello dei media. Di fatto, fino al 1980, i sino-indonesiani operavano in patria come veri e propri investitori stranieri, ma con il beneplacito del medesimo regime che li relegava ai margini della società. La situazione è cambiata in conseguenza della normalizzazione dei rapporti diplomatici tra la Repubblica d’Indonesia e la Cina comunista, quando il Generale Suharto approvò due decreti presidenziali che concedevano una naturalizzazione di massa alla minoranza cinese d’Indonesia (seppur con alcune debite eccezioni). I difficili rapporti tra indigeni e minoranza cinese rimasero sottotraccia fino allo scoppio della crisi finanziaria asiatica nel 1997, a seguito della quale Suharto fu costretto a dimettersi. L’apice della violenza fu raggiunto nel maggio del 1998, con oltre 1000 morti tra la comunità sino-indonesiana, decine di templi buddhisti dati alle fiamme e diversi esercizi commerciali sfasciati, in danni stimabili in centinaia di milioni di dollari. Le organizzazioni politiche islamiche di nuova formazione e una parte del mondo militare portarono avanti indisturbati per sei anni violenze settarie, incidenti e rapimenti di donne cinesi, approfittando della lenta e confusa transizione democratica inaugurata dalla Reformasi. Dietro al malcontento espresso da tali settori della società indonesiana, vi era il timore che i cinesi potessero trarre vantaggio dalla transizione per estendere il proprio potere alla politica e influenzare così il modello di società che si andava prospettando. Il revival della cultura cinese si diceva fosse il segno evidente della rivincita della comunità cinese verso l’elite Pribumi: la teoria complottista allora in voga asseriva che la re-introduzione del Capodanno lunare tra le festività nazionali, l’insegnamento del mandarino nelle scuole e l’adozione della toponomastica rischiassero di sopprimere le tradizioni religiosi e culturali del Paese.
Fig. 2 – Uno scorcio delle celebrazioni per il nuovo anno lunare cinese a Surakarta (isola di Giava), 22 gennaio 2017.
PROTESTA E SOSTEGNO NELLE “PIAZZE DIGITALI” – Generalmente, i social network rappresentano gli strumenti migliori per sondare gli umori e le aspettative delle società del nuovo millennio. E chi meglio di Giacarta si presta bene a questo esperimento? Eletta capitale mondiale di Twitter con i suoi oltre 30 milioni di utenti attivi, la metropoli asiatica ha dimostrato di essere al passo con la rivoluzione digitale in atto da più di un decennio. Il report pubblicato quest’anno dalla web agency We Are Social contiene alcuni dati interessanti sul rapporto della società indonesiana con le nuove tecnologie informatiche: l’88% della popolazione ha accesso ad Internet, dato di per sé rilevante considerato che il livello di urbanizzazione dell’arcipelago è ancora lontano dal raggiungere le vette sfiorate dai paesi industrializzati. Chi dispone della connessione trascorre una media di 4,7 ore al giorno davanti al computer e 3,5 ore circa sui dispositivi mobili. Nel 2016, 79 milioni di indonesiani erano attivi sulle piattaforme sociali di largo uso, quali Facebook, Twitter, Whatsapp e Blackberry Messenger, soprattutto tra i nativi digitali di età compresa tra i 20 e i 29 anni. Questi numeri testimoniano come il crescente e – per certi versi – inaspettato utilizzo di massa dei social abbia avuto effetti sul modo di intendere ed organizzare la comunicazione politica. Da questa prospettiva, l’anno di svolta della politica indonesiana è stato il 2012: in occasione delle elezioni locali che incoronarono Jokowi a Governatore di Giacarta, i social network sono stati in grado di sparigliare la concorrenza dei media tradizionali, determinando la vittoria del candidato più abile a sfruttare le grandi potenzialità derivanti da un uso sapiente delle nuove tecnologie. Grazie al prezioso contributo di volontari e professionisti della comunicazione 2.0, il ticket Jokowi-Ahok (quest’ultimo, allora candidato alla poltrona di vice-Governatore) è stato in grado di tramutare la partecipazione dei giovani indonesiani nelle “piazze digitali” in voti alle urne, ottenendo un risultato senza precedenti. L’elemento innovativo introdotto nella campagna elettorale del 2012 prende il nome di blusukan (letteralmente, “visita inaspettata”): si tratta di video girati in diretta dai famigerati Jokowi-Ahok Social Media Volunteers (JASMEV), che armati di smartphone e tablet erano soliti filmare i comizi e gli spostamenti della coppia di candidati percorrendo a piedi le strade trafficate della capitale. Memore di quella fortunata esperienza, Ahok ha riproposto quella stessa strategia nella campagna elettorale in corso. La sua seguitissima pagina Facebook è tappezzata di foto, commenti rilasciati in tempo reale e video che lo ritraggono con indosso la sua inconfondibile camicia a quadri scozzesi blu, bianchi e rossi, diventata ormai un suo marchio di fabbrica. Non diversamente da altre contesti, anche nel caso di Ahok i social media si sono rivelati un’arma a doppio taglio. In effetti, subito dopo la diffusione del video che lo ha incriminato, la protesta si è immediatamente riversata sulla galassia social: un flusso incontrollato di commenti anti-cinesi ha inondato le pagine ufficiali del Governatore uscente e molte delle manifestazioni di protesta hanno avuto origine proprio dal web.
Fig. 3 – Nel più grande Paese del Sud-est asiatico, l’utilizzo dei dispositivi mobili ha raggiunto picchi considerevoli. Basti pensare che gli indonesiani trascorrono in media 3,5 ore al giorno davanti agli smartphone.
UNITÀ NELLA DIVERSITÀ? – Da molti vista come baluardo di tolleranza e pluralismo nella regione del Sud-est asiatico, l’Indonesia si è riscoperta vulnerabile ad un genere di retorica che tende a non ammettere alcuna forma di diversità. La Costituzione del 1945 menziona nel suo preambolo il concetto di Pancasila, un pensiero filosofico e politico fatto proprio dal padre dell’indipendenza indonesiana, Sukarno, e fondato su cinque principi cardine: monoteismo, umanità, unità della nazione, democrazia e giustizia sociale. Tale dogma richiama esplicitamente allo sviluppo della nazione indonesiana all’interno di un sistema democratico multietnico e multiculturale. Oggi come allora, è diritto di ciascun cittadino professare la propria religione ed esprimere liberamente le proprie opinioni, così come avviene nelle società democratiche avanzate. Il grande successo dell’Indonesia contemporanea si basa per l’appunto sul laicismo e sul rispetto delle minoranze etniche presenti sul suo vasto territorio insulare, in un esercizio di convivenza interreligiosa ed interculturale che ha finora trovato pochi seguaci all’interno dell’area ASEAN. Tuttavia, è facile intuire che l’affare Purnama ha mostrato se non le debolezze del sistema democratico indonesiano, quantomeno il ritorno di un’ondata di intolleranza della comunità Pribumi nei confronti di cinesi e cristiani. Secondo un report dell’International Humanist and Ethical Union, ONG con base ad Amsterdam, l’Indonesia farebbe parte – assieme a Malesia e Brunei – del club dei tre Paesi dell’Asia sud-orientale che violano maggiormente la libertà religiosa. Con riguardo non solo ai cristiani e alle altre confessioni riconosciute dalla Stato, bensì anche alle sette interne al mondo islamico (ad esempio, il movimento della Ahmadiyah è stato bandito da alcune province dell’arcipelago). In molti paventano che dietro gli strali lanciati contro Ahok si nasconda il tentativo dei massimi esponenti dell’Islam conservatore di fare un uso politico della religione per disfarsi di una personalità che raccoglie numerosi consensi tra la popolazione di Giacarta. I risultati ottenuti negli ultimi due anni potrebbero di certo proiettarlo alle presidenziali del 2019 in coppia con Jokowi, il quale però è sembrato simpatizzare più con i manifestanti anti-Ahok che con il vecchio compagno di lotta. Resta comunque il fatto che il futuro politico di Purnama dipenderà sostanzialmente dalla sentenza di un tribunale e non dalla scelta sovrana degli elettori.
Raimondo Neironi
[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]Un chicco in più
Il 15 febbraio scorso si sono tenute le elezioni per la carica di Governatore di Giacarta. Il conteggio delle schede è ancora in corso, ma sembra profilarsi un ballottaggio tra Ahok e Anies Baswedan, ex Ministro dell’Educazione. Nonostante gli appelli all’unità nazionale del Presidente Widodo, alcuni elettori hanno dichiarato pubblicamente di aver votato Baswedan perché musulmano. Il ballottaggio dovrebbe tenersi ad aprile. [/box]
Foto di copertina di Australian Embassy Jakarta rilasciata con licenza Attribution License