Continua ad essere caratterizzata da forti tensioni la situazione lungo il confine sino-indiano nel Sikkim, dove le forze militari in loco sono state precauzionalmente rafforzate. Dall’inizio della crisi ci sono stati diversi incontri di alto livello tra Cina ed India ma sembra che ciò non sia bastato alla risoluzione degli attriti. Quale è il reale stato dei rapporti tra “l’Elefante indiano” e “il Dragone cinese”?
UN PASSO INDIETRO – Gli anni ’50 del secolo scorso sono stati caratterizzati in Asia anche dalla nascita di aspri dissapori tra la Cina e l’India, che all’epoca si apprestavano a emergere a piccoli passi nell’ambito internazionale. Alla base delle tensioni potremmo di certo rintracciare diverse cause: l’annessione del Tibet alla Cina con il conseguente asilo politico concesso al Dalai Lama da Nuova Delhi; la sempre più consolidata partnership tra Pechino e Islamabad, capitale di un Pakistan da sempre antagonista regionale dell’India; la questione spinosa dei confini sino-indiani sull’Himalaya. Quest’ultimi, demarcati durante l’era coloniale dalla Gran Bretagna lungo la Linea McMahon, non venivano formalmente riconosciuti dalla Cina che ne esigeva una rinegoziazione. È proprio nell’ambito della disputa sui confini che si culminò, nell’ottobre del 1962, in un vero e proprio conflitto armato costato la vita a oltre 2000 uomini e terminato con la sconfitta dello Stato Indiano, che dovette cedere il controllo dell’Aksai Chin alla Cina.
Fig. 1 – Manifestazione a Nuova Delhi contro le “interferenze” della Cina nelle aree di confine con l’India, 7 luglio 2017
Questa regione vantava, e vanta tutt’oggi, una posizione geografica strategicamente cruciale per la sicurezza del Tibet e dello Xijiang a cui il Dragone cinese non poteva rinunciare, anche per via delle notevoli risorse naturali (petrolio, gas, minerali) presenti nell’area. In seguito alla vittoria cinese, l’Aksai Chin venne in parte amministrato dalla Provincia autonoma dello Xijiang e in parte concesso al Pakistan. Ma pensare che il “braccio di ferro sino-indiano” sui confini sia giunto al termine con la conclusione del conflitto armato del 1962 non è realistico. Non sono infatti bastati i lavori del Joint Working Group del 1988 voluto dal Premier indiano Raijv Gandhi o i colloqui del 2003 tra Wen Jiabao e Atal Bihari Vajpayee per arrivare a soluzioni condivise relative alle aree contese dell’Himalaya. E neppure l’accordo bilaterale del 2005, che si poneva l’obiettivo di stabilire i principi politici da rispettare in quest’ambito, e i tanti incontri successivi tra i leader dei due Paesi hanno sortito effetti positivi. Sulla scacchiera delle frontiere infatti ancora oggi il clima si rivela teso, in particolare nel Sikkim dove, in anni recenti, diverse “mosse” da entrambe le parti hanno messo in pericolo il fragile status quo della regione himalayana. Questa volta però il conflitto locale tra le due potenze emergenti sembra essere andato fuori controllo e potrebbe compromettere la stabilità dell’Asia intera.
STALLO A DOKLAM – La regione del Sikkim, dopo essere stata governata a lungo da un regime monarchico, è divenuta parte integrante dell’India nel 1976. Un’annessione che inizialmente Pechino ha accettato con diffidenza. Il territorio, a ridosso della catena himalayana, confina con il Nepal, il Bhutan e con la Cina stessa, facendosi crogiolo di lingue e culture diverse in virtù di un passato che l’ha visto punto di passaggio obbligato lungo l’antica Via della Seta. Qui però si trova anche l’area denominata Doko La dall’India, Donglang dalla Cina e Dokalam (o anche Doklam) dal Bhutan dove gli esperti diplomatici dispiegano le loro energie e le forze armate le loro truppe. È infatti in questa piccola porzione di territorio, rivendicata sia dalla Cina che dal Bhutan, che si è riacceso recentemente il conflitto tra i due giganti asiatici.
Fig. 2 – Ajit Doval durante il vertice dei Consiglieri per la sicurezza nazionale dei Paesi BRICS a Pechino, 28 luglio 2017
A giugno la stampa internazionale ha riportato la notizia di un “incidente diplomatico” avvenuto nel Dokolam che avrebbe comportato un rafforzamento di 270 unità nelle squadre militari indiane presenti in loco. Decisione allarmante per l’opinione pubblica cinese. La disputa sarebbe nata nell’ambito della costruzione di una strada da parte dei militari appartenenti alla RPC. Le autorità indiane, così come asserito dal Times of India, hanno ritenuto l’apparente attività di routine una minaccia alla sicurezza della propria frontiera con inevitabili ripercussioni. Pechino dal canto suo, ritenendo il tentativo di arresto dei lavori da parte dell’India infondato, ha voluto sottolineare come essi siano stati svolti entro i propri confini. La posizione cinese è stata maggiormente articolata nel documento “The facts and China’s position concerning the Indian Border Troops’ crossing of the China-India Boundary in the Sikkim Sector into the Chinese Territory”, reso noto alla stampa il 2 agosto. Come è intuibile dal titolo, tale documento ribadisce l’illegalità dell’operazione voluta dal Governo indiano e portata avanti in un territorio che esula dalla sua competenza. Insomma, entrambe le parti sostengono le proprie ragioni e mantengono cospicue forze militari nell’area. Una situazione difficile da risolvere e che è stata anche al centro dell’incontro a Pechino lo scorso 29 luglio tra Xi Jinping e Ajit Doval, Consigliere per la sicurezza nazionale indiano, nel contesto di un vertice dei Consiglieri per la sicurezza nazionale dei Paesi BRICS.
Doval, che in precedenza aveva avuto modo di affrontare la questione con la sua controparte cinese, Yong Jiechi, ha utilizzato toni civili rinnovando l’intenzione di collaborare con le autorità cinesi per una pronta risoluzione della crisi a Doklam. Sebbene tale incontro abbia inizialmente scongiurato qualsiasi timore inerente ad eventuali scontri armati, risulta ancora arduo intravedere una reale implementazione delle dichiarazioni concilianti di Doval. Inoltre ricordiamo che l’episodio della strada di Doklam è solo l’ultimo, in ordine cronologico, di una lunga serie di recenti attriti sino-indiani sui confini himalayani. Alla lista occorre infatti aggiungere alcune esercitazioni dell’Esercito cinese in Tibet osservate con sospetto dall’India, la dismissione di alcuni bunker indiani da parte dei militari cinesi e il respingimento di circa 47 pellegrini indiani diretti in Tibet al vicino passo di Nathu La. Tutti incidenti, o meglio “apparenti incidenti”, che non possono essere sottovalutati nemmeno da altri Paesi regionali come il Bhutan, che, oltre ad essere geograficamente interessato dalla crisi, è ben attento a non calpestare i piedi della Cina sulla quale riversa molte speranze per la propria ripresa economica. Cina che, attraverso le parole del portavoce del Ministero degli Esteri Geng Shuang, non tarda a parlare chiaramente di una violazione della propria sovranità, affronto che nessuno Stato tollererebbe e che pone evidenti ostacoli al mantenimento della pace in Asia.
Fig. 3 – Un mercato locale al Passo di Nathu La, sul confine tra India e Cina nel Sikkim
OLTRE I CONFINI TRA L’ELEFANTE INDIANO E IL DRAGONE CINESE – In questa estate in cui i segni della rivalità tra l’Elefante indiano e il Dragone cinese si fanno alquanto evidenti, è interessante riprendere la dichiarazione che il businessman indiano, Gurcharan Das, ha rilasciato all’autore e analista del Gavekal Research Tom Miller in merito al reale stato dei rapporti tra i due Paesi. Gurcharan Das si pone come sostenitore di forme di cooperazione politiche ed economiche meno altalenanti tra Pechino e Nuova Delhi in modo tale da poter avanzare nel mondo sfruttando i benefici che entrambi i Paesi possono offrire e, soprattutto, colmando i gap che entrambi i Paesi affrontano al proprio interno. La Cina, afferma Das, ha sempre avuto uno Stato forte e una società debole e l’India, al contrario, uno Stato debole con una società forte ma per sopravvivere si necessita di entrambi. Ciò che l’ex chief executive di P&G India vuole suggerire al Governo Modi è la necessità di evitare scontri e investire sugli scambi commerciali con la Cina che, attraverso i propri capitali, potrebbe favorire l’implementazione del settore manifatturiero indiano e la creazione dell’ambito “Made in India”.
Fig. 4 – Il Lago Tsongmo, vicino al confine sino-indiano nel Sikkim
Potremmo quindi parlare di un recupero della vecchia espressione indiana “Hindi Chini Bhai Bhai”, nata negli anni ’50, che esaltava una sorta di “fratellanza” tra i due Paesi all’insegna del mutuo vantaggio, del rispetto e della coesistenza pacifica? Forse si. Forse è questo il percorso da seguire affinché la Cina continui a contribuire allo sviluppo delle economie asiatiche attraverso i flussi dei propri capitali e l’India si riveli non più come uno dei cd Paesi Non Allineati o come membro dell’alleanza BCIM Forum, ma piuttosto come potenza in grado di ridisegnare e reinventare il proprio ruolo nel mondo nonostante le molte difficoltà da superare in casa. I due Paesi insieme contengono il 40% della popolazione mondiale e un PIL di circa 13 trilioni di dollari che nei prossimi anni, secondo le stime di McKinsey, dovrebbe continuare a salire vertiginosamente. Un potenziale che merita quindi di non essere sprecato in un confuso conflitto di frontiera nel remoto Doklam.
Federica Russo
[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]Un chicco in più
Ancor prima della presentazione ufficiale di OBOR l’India ha lanciato il “Progetto Mausam”, il quale – attraverso la riscoperta delle antiche rotte marittime lungo le quali avvenivano scambi di merci e incontri culturali – mira a connettere le regioni dell’Oceano Indiano e a restituire nuova linfa al prestigio nazionale indiano. [/box]
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