Nelle ultime settimane una spirale di odio a livello globale si è scatenata contro la leader birmana Aung San Suu Kyi a causa delle persecuzioni contro i Rohingya, la minoranza musulmana concentrata nell’estremità occidentale del Paese
ODIO E DISINFORMAZIONE MEDIATICA – Abbiamo tutti assistito, attraverso la stampa nostrana e internazionale, agli effetti della persecuzione dei Rohingya nel resto del mondo: manifestazioni di protesta, dichiarazioni di altri leader politici e richieste di prese di posizione da parte di premi Nobel per la pace. L’eco di queste voci, unite al rapido circolare di notizie superficiali, informazioni parziali, analisi tratte forse troppo a cuor leggero o smisuratamente propendenti per l’una o l’altra parte, hanno contribuito ad alimentare una spirale d’odio, abbattutasi come un tifone contro un Paese che sta ancora muovendo i primi passi verso l’apertura, dopo un isolamento internazionale di oltre mezzo secolo. Eppure pochi si sono chiesti cosa stia accadendo in Myanmar, il Paese chiamato a risolvere in prima persona la crisi dei Rohingya, ma soprattutto quali siano le conseguenze della campagna d’odio, di cui Aung San Suu Kyi sembra rappresentare il principale capro espiatorio, e chi ne stia traendo i principali benefici.
Fig. 1 – Il vice primo ministro della Turchia Mehmet Simsek vittima della campagna di disinformazione e odio su internet
AUNG SAN SUU KYI L’EROINA NAZIONALE – Poiché ogni Paese ha una diversa visione della politica – e per tale ragione vede il mondo attraverso le proprie lenti – per comprendere cosa stia accadendo in Myanmar è necessario introdurre due elementi storicamente determinanti della visione della politica nel Paese: la figura di Aung San Suu Kyi e gli effetti della propaganda anti-musulmana. Per il popolo birmano, Aung San Suu Kyi non è solo la paladina per i diritti umani che ha conseguito il Nobel per la pace nel 1991. Figlia del generale Aung San, uno degli eroi nazionali che ha negoziato l’indipendenza della Birmania dal Regno Unito, ha lottato in prima persona per il proprio Paese. Poteva scegliere tra tornare all’estero, dove ha passato buona parte della sua vita e dove aveva marito e figli, oppure restare in Myanmar, scontando 15 anni agli arresti domiciliari. Non ha mai accettato l’unica via d’uscita offertagli dai militari, lasciare il Paese e non farvi mai più ritorno, neanche per stare al fianco del marito durante la lotta contro il cancro che lo ha condotto alla morte nel 1999. Decidendo di restare in Myanmar per combattere con il proprio popolo contro la dittatura è diventata essa stessa agli occhi di molti birmani un eroe nazionale, e, in vista delle prime elezioni libere e imparziali, unica speranza di cambiamento.
Fig. 2 – Thailandia, centri di accoglienza governativi per i migranti vittime di tratta, foto di Serena Mancini, ex Casco bianco per Caritas Italiana
LA PROPAGANDA ANTI-ISLAMICA – Per cogliere a fondo gli effetti della propaganda anti-musulmana è invece necessario fare un ulteriore passo indietro, almeno fino alla dinastia Konbaung. Le minoranze di religione islamica sono infatti presenti da secoli sul territorio birmano, ma la loro condizione è drasticamente peggiorata dalle sconfitte subite durante le guerre anglo-birmane, che nel XIX secolo trasformarono il regno in una provincia dell’India britannica. La popolazione indigena accusò gli inglesi di importare manodopera da India e Bangladesh, che venne quindi percepita come un’intrusa imposta dal colonizzatore. Nuovi arrivati dalla pelle scura, che nella maggior parte dei casi si sono rivelati di religione musulmana, verso i quali gli altri abitanti della Birmania hanno iniziato a covare un forte risentimento, negli anni trasformatosi in profonda e radicata xenofobia. Il termine dispregiativo “kalar”, usato per riferirsi non solo ai musulmani dalla pelle scura, ma a qualsiasi persona ritenuta non birmana (l’appellativo è stato sfruttato dalla propaganda di regime anche per colpire Aung San Suu Kyi, che seppur birmana era sposata con un uomo straniero), è diventato di uso comune anche perché quotidianamente impiegato da stampa, produzioni cinematografiche e programmi televisivi. Su questo risentimento di lunga data ha fatto facilmente leva la propaganda di una minoranza buddista che, guidata da monaci particolarmente estremisti, istiga all’odio e alla violenza contro la porzione di popolazione musulmana. La circolazione di fake news diffuse tramite i social media da questo tipo di propaganda ha superato i confini dello Stato Rakhine, area degli scontri con la minoranza Rohingya, diffondendosi rapidamente nel resto del Paese.
Fig. 3 – Post di propaganda xenofoba anti Rohingya divenuto virale su Facebook (clicca per ingrandire)
ODIO CHE GENERA ODIO – L’odio e la violenza contro la popolazione islamica dello Stato Rakhine hanno a loro volta attirato disapprovazione e ostilità da parte della comunità internazionale e, forse altrettanto pericolosa, l’attenzione dei principali network del fondamentalismo islamico, che schierandosi apertamente a favore dei Rohingya stanno cercando uno spiraglio per sfruttare la situazione a proprio vantaggio. Le critiche ricevute da tutto il mondo contro Aung San Suu Kyi, che in Myanmar gode degli onori alla stregua di una divinità, unite alla poca simpatia nutrita da generazioni verso le minoranze musulmane e in particolare i Rohingya, ha portato la maggior parte della popolazione a difendere l’operato della propria leader, ritenuto il massimo con i limitati poteri a propria disposizione. Nel peggiore dei casi, alla difesa della propria leader si è aggiunto l’avvallamento della retorica che identifica i Rohingya come il male assoluto, incentivando il proliferare della disinformazione sui social media (quindi soprattutto tra i giovani) che istiga odio e violenza. Tra i principali a trarre beneficio dalle campagne d’odio generate dalle persecuzioni verso i Rohingya risultano i militari, per i quali esse rappresentano l’occasione di presentarsi ancora una volta come l’unico organismo in grado di difendere il proprio popolo. È inoltre la prima opportunità, dalle elezioni del novembre 2015, di delegittimare l’autorità morale di Aung San Suu Kyi, una figura scomoda con cui hanno iniziato a condividere il potere dopo mezzo secolo di dittatura militare.
Qualsiasi paio di lenti si decida di indossare, ciò che rimane invariato è che la spirale di odio – ormai non più a senso a unico – generatasi attorno alla crisi Rohingya non è di alcuna utilità per risollevare le sorti di una delle minoranze considerate tra le più perseguitate al mondo. In particolare, la recente diffusione dell’odio anche tra le nuove generazioni, sia verso i Rohingya sia contro la comunità internazionale, rischia di precludere ogni futura possibilità di inclusione di questa o altre minoranze e, ancor peggio, di spingere nuovamente il Paese nel baratro dell’isolamento.
Fig. 4 – Donna Rohingya in attesa della ricollocazione negli Stati Uniti, foto di Serena Mancini
Martina Dominici
[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]Un chicco in più
Le foto che ritraggono alcuni migranti Rohingya vittime di tratta provenienti dal Myanmar e in numero minore dal Bangladesh, sono state scattate nel sud della Thailandia nell’estate del 2016. Sia agli uomini, che sono assistiti nei centri di detenzione per migranti dove vengono condotti una volta intercettati dalla polizia, sia a donne e bambini, che invece ricevono aiuto in appositi centri di accoglienza governativi, non è consentito lasciare le strutture poiché sprovvisti di documenti in quanto apolidi. Essi sono in attesa, anche da oltre un anno, di essere ricollocati negli Stati Uniti, unico Paese che al tempo aveva dato la disponibilità ad accoglierli. La storia di alcuni di essi può essere letta all’interno del Dossier Dati e Testimonianze di Caritas Italiana, dal titolo “Diversa da chi? Piccoli popoli. Ripartire dal rispetto delle differenze”[/box]