Recensioni | Geomovies – Il Palazzo del Viceré di Gurinder Chandha ricostruisce i drammatici eventi che portarono settant’anni fa alla nascita di India e Pakistan. Ma il tono da soap opera impedisce al film di cogliere gli aspetti più profondi e controversi di quel tragico periodo storico
“Lo sai perché gli inglesi se ne vanno? La guerra li ha messi in ginocchio, non possono più occuparsi di noi.”
È quanto si mormora nei corridoi del maestoso palazzo del governatore britannico a New Delhi, dove uno stuolo di servitù si appresta ad accogliere il nuovo viceré di suo Maestà britannica. L’ultimo.
Il Palazzo del Viceré di Gurinder Chandha presentato Fuori Concorso all’ultima Berlinale racconta gli ultimi sei mesi dell’Impero britannico in India. Il film, pur non appartenendo al genere storico, ha l’ambizione di rappresentare in una fiction stile soap opera bollywoodiana gli eventi più tragici della accidentata storia del subcontinente indiano. L’ambizione però naufraga perché il film pecca di superficialità e di una certa parzialità nell’imbastire la trama. Che purtuttavia, va detto, incalza lo spettatore.
Alla banalissima storia d’amore tra due domestici del palazzo, Jeet e Aalia, musulmana lei induista lui, fanno da sfondo le immagini plastiche di macilenti profughi vittime della improvvisa divisione dell’India in tre tronconi. Solo qualche immagine di repertorio sul finale ci restituisce il senso della Storia e della sua inaspettata crudeltà.
1947 New Delhi. A Lord Louis Mountbatten, per volere di Re Giorgio VI e del primo ministro laborista Clement Atlee, l’onore di restituire a trecento milioni di indiani la libertà, l’indipendenza dal Raj britannico. Il sogno di Gandhi e di tanti altri nazionalisti indiani sta per diventare realtà. L’onere di tirare gli inglesi fuori dall’India il più presto possible, e in modo onorevole, si presenta invece più difficile del previsto.
“Lo sai che il 94% della popolazione è analfabeta? È questa l’eredità che lasciamo agli indiani dopo tre secoli?”, si domanda Lady Edwina Mountbatten, il vero “animale politico” della famiglia, come il marito non manca di riconoscerle.
Nell’agosto del 1947, quando la statua della regina Vittoria verrà rimossa dai palazzi del potere indiano, la legacy britannica sarà più pesante dell’analfabetismo e della povertà: un milione di morti, il collasso di intere comunità, la dissoluzione di identità complesse, feroci ondate di pulizia etnica, epidemie, stupri di massa (circa 70 mila le donne vittime di violenza), la più grande migrazione umana della storia : 14 milioni di sfollati.
14 milioni di cittadini indiani incrociano i loro destini lungo una direzione binaria che porta intere comunità di musulmani nel nuovo Pakistan e di sikh e induisti verso il resto del Paese. Entrambi, indiani e musulmani, fuggono dai pogrom incrociati.
Come la nonna di Gurinder Chandha a cui la regista dedica il film. Una donna costretta a percorrere una lunga distanza da casa sua alla nuova repubblica musulmana del Pakistan per ricongiungersi al marito trovato in un campo per rifugiati. Ce ne furono più di 600 in tutto il Paese. Moltissimi vi morirono di dissenteria, colera e altre malattie.
Nel 1947, ormai chiaro di aver perso ogni controllo sul Paese, gli inglesi accelerano la loro exit strategy. La missione di Lord Mountbatten è di quelle impossibili: attuare in meno di sei mesi e con un anno di anticipo (da giugno 1948 ad agosto 1947) una soluzione che salvi la faccia agli inglesi e l’integrità territoriale indiana, come era stato promesso con l’India Indipendence Act votato dal Parlamento britannico il 20 febbraio del 1947.
“Trecento milioni di indiani vogliono un’India unita, cento vogliono la loro nazione. Entrambi vogliono liberarsi di noi.” (Lord Mountbatten)
Ottima sintesi. Tra i favoriti di Winston Churchill, Grande Ammiraglio della flotta di Sua Maestà, pronipote della regina Vittoria, comandante supremo delle forze alleate nel sud-est asiatico durante la guerra, Louis Mountbatten, “Dickie” per gli amici, è l’uomo che ha respinto l’offensiva giapponese verso l’India e riconquistato la Birmania fino alla resa del Giappone a Singapore.
Per la diplomazia inglese è l’uomo giusto ad assicurare il rispetto degli interessi inglesi in India, capace di ricucire l’impossibile, di dissuadere chiunque e convincere tutti. Ma non questa volta.
“[…] Voi inglesi avete un debito con noi. Due milioni di indiani hanno combattuto come volontari contro i nazisti. È ora di restituire il favore, quell’India libera e unita che ci avete promesso.” (Jawaharlal Nehru, leader dell’Indian National Congress)
“Gli inglesi hanno diviso l’Irlanda per la pace, stanno dividendo la Palestina, facciano lo stesso qui.” (Muhammad Ali Jinnah, leader della Lega Musulmana)
La causa indiana e quella musulmana avevano trovato la loro voce politica nel 1885 con la nascita dell’Indian National Congress, il partito di lotta per l’indipendenza dagli inglesi, e la Lega Musulmana, nata nel 1906, inizialmente con il solo obiettivo di proteggere i diritti dei musulmani in India. Durante la Seconda guerra mondiale gli inglesi continuarono a fomentare il contrasto tra indù e musulmani istituzionalizzando in una malsana logica di divide et impera a sfondo religioso le differenze identitarie. La politicizzazione della religione nella colonia indiana fu invero una creazione britannica.
L’India induista e la comunità musulmana per ragioni opposte, ma accomunate dal filo conduttore della appartenenza etnica, respingono la proposta di una India federata.
“Ci trasformerebbe nei negri d’America” (Muhammad Ali Jinnah). L’Indian National Congress, d’altronde, è quasi compatto nel respingere qualsivoglia ipotesi di condivisione di potere.
Richiamato a Downing Street, Lord Mountbatten torna al Palazzo con un piano di pace da attuare a tutti i costi perché “l’India è una nave in fiamme” e nessun soldato inglese deve morire nell’incendio.
Invano i coniugi Mountbatten proveranno a usare l’estintore. Non ci sono uomini per riportare l’ordine del Paese, dove con sorprendente e inaspettata (ma non imprevedibile) rapidità si estendono a macchia d’olio atroci violenze settarie.
Fare a pezzi il subcontinente indiano sembra l’unica soluzione possibile per fermare i massacri e aprire un nuovo corso. Cosi non fu. Forse solo Gandhi, irriducibile nel suo rifiuto, comprende che la divisione avrebbe scatenato violenze ancor maggiori di quelle che proponeva di interrompere. Fu evidente dopo qualche settimana.
“Non si può tagliare un cuore e sperare che continui a battere.” (Mahatma Gandhi)
Mariangela Matonte
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