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Africa, i diamanti e la loro maledizione

Analisi Nelle scorse settimane la scoperta di nuovi siti diamantiferi in Sudafrica e Botswana ha fatto riemergere problematiche che, in tutto il Continente, da sempre accompagnano la gestione delle risorse naturali e i profitti derivanti. Il caso attuale dello Zimbabwe mostra il perché bisogna continuare a combattere per il diritto dei popoli a godere del reddito di tali risorse.

UNA FORZA TOTALIZZANTE

Le recenti notizie riguardanti il ritrovamento di diamanti in Sudafrica e in Botswana riportano alla luce la travagliata storia che lega il continente africano al prezioso minerale. L’Africa, infatti, a partire dal 1870 vanta la maggiore produzione di diamanti industriali al mondo, i cui maggiori estrattori sono in Repubblica Democratica del Congo, il Sudafrica, l’Angola, la Sierra Leone e la Liberia. Quando si possiede un simile tesoro può diventare molto difficile valorizzare le altre risorse: i diamanti sono totalizzanti e possono diventare una fonte di ricchezza infinita, grazie soprattutto al ventaglio di caratteristiche che, in molti casi, li rende preferibili anche all’oro nero, il petrolio. È la loro maneggiabilità che permette di comprenderne appieno il valore e che, allo stesso tempo, ne agevola il commercio illegale e il contrabbando. Si possono usare come valuta pregiata, come fossero banconote, per fare acquisti, per fare affari, per comprare armi o droga. Sono ideali per il riciclo di denaro sporco, sono facilmente trasportabili e non sono rilevabili dai metal detector. Non meno importante, sono un investimento sicuro. I principali gruppi industriali di estrazione, esportazione e commercio di diamanti ne detengono una quantità tale da riuscire a determinarne il prezzo di mercato. Quando, come in questo caso, si parla di ricchezza, è bene però sempre chiedersi: “La ricchezza di chi?”.

SE BASTASSE SCAVARE

Davanti all’apparente ritrovamento di diamanti nel villaggio di KwaHlathi in Sudafrica (il Governo sudafricano chiarirà dopo qualche giorno che si tratta di quarzo e non di diamanti) un’estesa folla di abitanti del luogo, munita di pale e vanghe, si è riversata nell’area interessata e ha cominciato a scavare in preda a quella che è sembrata una vera e propria caccia al tesoro. Intervistati dalla BBC, alcuni di loro hanno manifestato il proprio entusiasmo, dichiarando che quei diamanti avrebbero finalmente cambiato le loro vite: andare nei club a divertirsi, comprare una macchina, portare la famiglia in vacanza, avere una stabilità finanziaria. Finalmente, per loro, tutto questo sembrava possibile. Ma è veramente così che funziona? Se bastasse scavare per mettere fine ai problemi di quelle popolazioni che siedono su un letto di diamanti, allora perché quei Paesi in cima alla lista dei produttori mondiali sono fra gli ultimi nell’elenco degli Stati più poveri e meno sviluppati al mondo? Innanzitutto è bene chiarire che per condurre attività di estrazione servono, oltre a tecnici ed esperti, macchinari capaci di scavare, grattare, frantumare, portare in superficie e selezionare. In altre parole, servono investimenti, i quali difficilmente proverranno da Governi (come alcuni di quelli in questione) che nel tempo non hanno saputo sfruttare adeguatamente la risorsa, afflitti da corruzione, incapacità gestionale e incompetenza. E si sa, dove la legalità lascia dei vuoti, l’illegalità è pronta a colmarli, il più delle volte a danno della popolazione locale. Per questo motivo si chiama “maledizione delle risorse”: i tesori dell’Africa, così (non) amministrati, non sono né un presupposto allo sviluppo locale né uno strumento che crei opportunità e distribuisca ricchezza, ma diventano piuttosto causa di conflitti e di povertà reiterata. Il fenomeno dei blood diamonds risalente agli anni Novanta ne è la prova: il commercio illegale del minerale, attraverso la compravendita delle armi, finanziava le guerre civili e le atrocità commesse in molti Paesi dell’Africa subsahariana, fra cui Sierra Leone, Repubblica Democratica del Congo, Costa d’Avorio e Liberia.

IL KIMBERLY PROCESS

Quando nel 1999 le Nazioni Unite sanzionarono l’Angola proibendo alle altre nazioni l’acquisto dei diamanti fu la prima volta in cui questi vennero citati fra i finanziamenti di guerra in una Risoluzione, cosiccé la questione dei diamanti insanguinati divenne di interesse internazionale. L’anno seguente venne promosso il Kimberly Process Certification Scheme (KPCS), un accordo per la certificazione dei diamanti che coinvolge tutte le compagnie diamantifere (fra cui De Beers) e che permette di conoscerne la provenienza. L’accordo, poi, è stato suggellato dalla creazione del Consiglio Mondiale dei Diamanti con sede ad Anversa, il cui ruolo è quello di promuovere gli obiettivi del protocollo. Nonostante non siano più stati raggiunti i numeri degli anni Novanta grazie a tali strumenti di controllo, il KPCS mira a ostacolare il commercio di diamanti la cui vendita beneficerebbe i gruppi armati, ma non tutela dal mercato nero che alimenta i regimi autoritari e le proprie truppe militari ed è applicabile solo ai diamanti grezzi, permettendo dunque il commercio delle pietre anche solo in parte tagliate e trattate.

IL CASO ZIMBABWANO

Da questo punto di vista lo Zimbabwe fornisce un caso studio esemplare. La miniera di Marange, nella parte est del Paese, è stata scoperta nel 2001 e da quel momento diverse compagnie diamantifere di proprietà dello Stato hanno cominciato le attività di estrazione che, agli occhi dei residenti successivamente riunitisi in proteste, sono parse vere e proprie razzie di diamanti a vantaggio unicamente del regime. Human Rights Watch ha periodicamente documentato gli abusi ai quali sono sottoposti i lavoratori e la popolazione locale, oggetto di sfruttamento minorile, lavoro forzato, torture e stupri. La decisione del Governo di rendere la zona “area protetta” impedisce a visitatori esterni di entrare e all’Organizzazione di fornire stime precise. Per le ragioni sopra citate, il KPCS ha autorizzato l’esportazione dei diamanti zimbabwani nonostante le condizioni altamente abusive nelle quali vengono raccolti. Le recenti concessioni minerarie da parte dello Zimbabwe alla Cina non fanno presagire alcun miglioramento: Pechino di certo non brilla per avere un Governo illuminato in campo di diritti umani e porterà i profitti derivanti dalla vendita dei diamanti lontano milioni di chilometri dalle persone alle quali, quei profitti, spettavano per diritto. A differenza di ciò che si potrebbe pensare, però, la maledizione delle risorse non è un destino. Il raggiungimento di una maggiore maturità democratica delle Istituzioni africane, una minor accondiscendenza delle nazioni straniere nell’acquisto di risorse in mano a regimi autoritari o elitari e, nel caso dei diamanti, un’estensione delle definizioni e delle clausole contenute nel KPCS che ne regolano il commercio rappresentano tre valide vie per affermare e sostenere il diritto dei popoli a godere del reddito delle risorse che si trovano sul proprio territorio.

Francesca Carlotta Brusa

Diamond Age” by jurvetson is licensed under CC BY

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  • I diamanti sono una risorsa dal potenziale totalizzante e un’enorme fonte di ricchezza, ma per chi?
  • Paesi ricchi di risorse vertono in condizioni di povertà estrema: il paradosso africano.
  • Nonostante gli strumenti di controllo, il commercio illegale di diamanti e le connesse violazioni di diritti umani continuano a esistere.
  • Il caso dello Zimbabwe è l’esatta rappresentazione di ciò che accade se alcuni vuoti legislativi persistono.

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Francesca Carlotta Brusa
Francesca Carlotta Brusa

Francesca Carlotta Brusa, 27 anni, da Imola, Emilia-Romagna. Laureata in Relazioni Internazionali alla LUISS Guido Carli a Roma, curiosa lettrice di geopolitica e appassionata di tematiche riguardanti la transizione sostenibile, la just resilience e il cambiamento climatico. Amante dell’Africa, del cibo, dei cani e delle passeggiate, ma anche di un sacco di altre cose, fra cui gli Avengers e i libri che si basano su fatti realmente accaduti.

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