In 3 sorsi – Il commercio è per il Canada sia un punto di forza che una necessità. Il TPP si è rivelato però un aspetto problematico per la sua politica commerciale per via di preoccupazioni legate al settore automobilistico e culturale. Tuttavia, tra un summit quasi naufragato (anche per l’imprevista assenza del premier Trudeau) e un cambio di nome per il trattato, sembra che le trattative siano ora andate in porto. E ora, attenzione al NAFTA
1. DOBBIAMO CERCARE LA NOSTRA PROSPERITÀ VERSO L’ESTERNO
Il Canada tiene molto alla sua immagine di potenza liberale e multilateralista. Sul piano concreto, nel contesto odierno, questo si traduce in una politica estera che fa della promozione del libero scambio un punto essenziale. Quello che potremmo definire “attivismo commerciale” caratterizza la politica estera di Ottawa quantomeno dal Governo conservatore di Stephen Harper, in carica dal 2006 al 2011, per poi essere continuato con pari vigore dall’attuale esecutivo, guidato dal liberal Justin Trudeau. Varie ragioni economiche e geografiche rendono il commercio fondamentale per il Canada, non solo come punto di forza, ma anche come necessità, fatto che viene esplicitato nella retorica governativa: “La partecipazione del Canada in trattati commerciali è guidata da una realtà fondamentale: dobbiamo cercare la nostra prosperità verso l’esterno, dato che abbiamo abbondanza nella produzione di risorse naturali, beni manufatti e servizi ma un mercato domestico relativamente piccolo. Ciò significa che è essenziale per il Canada ottenere accesso a mercati stranieri e investimenti, e garantire e accrescere questo accesso attraverso regole applicabili”.
Questo approccio ha portato, durante il mandato di Harper, alla firma di ben sette trattati commerciali, tra i quali spiccano il Comprehensive Economic and Trade Agreement – il CETA, firmato con l’Unione Europea – e il Trans-Pacific Partnership – TPP. Proprio il TPP rappresenta ora una sorta di scoglio su cui si sta infrangendo la politica commerciale canadese, in un modo che, per vari tratti, sembra contraddire quanto abbiamo detto detto finora.
Fig. 1 – I capi di Stato e di Governo presenti al summit di Da Nang, Vietnam
2. IL SUMMIT DI DA NANG: COLPI DI SCENA E CAMBIO DI NOME PER IL TRATTATO
Facciamo dunque un passo indietro. Il TPP, firmato nel febbraio 2016, è un accordo coinvolge molti Paesi del Pacifico e aveva l’obiettivo di rinforzare i legami economici tra gli stessi, arrivando a ricoprire un’area vastissima. Com’è noto, gli Stati Uniti si sono ritirati dall’accordo nel gennaio scorso, ma i dialoghi tra gli altri undici contraenti sono continuati, proprio al fine di plasmare un nuovo trattato che superasse l’assenza di Washington. A novembre si è arrivati a un rilevante summit dell’Asia-Pacific Economic Cooperation tenutosi a Da Nang, in Vietnam. Qui, proprio quando le delegazioni dei vari Stati sembravano a buon punto con le trattative, è accaduto l’inaspettato: il premier Trudeau non si è presentato a una riunione importantissima programmata per il 10 novembre, con il pretesto che il suo incontro con il Primo Ministro giapponese Abe fosse durato più del previsto. A quel punto, l’indignazione tra le delegazioni non è certo mancata, tant’è che un funzionario australiano ha sintetizzato in questo modo: “Trudeau ha fregato – usando una traduzione elegante – tutti.” La situazione sembrava dunque particolarmente complicata, ma il giorno successivo, sabato 11 novembre, le parti, Canada compreso, sono riuscite a fare passi avanti nel negoziato, dichiarando di avere raggiunto un accordo sui temi chiave. Una novità che certo spicca al summit di Da Nang è stata la scelta di cambiare nome al trattato, diventato Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership – nome piuttosto cervellotico, che forse è qui più comodo chiamare “nuovo TPP”. L’aspetto peculiare è che è stato proprio il Canada a proporre il cambio di nome. Infatti, il termine “progressive” è proprio volto sottolineare il fatto che nel nuovo TPP dovrebbero esserci maggiori standard in materia di tutela dell’ambiente e dei diritti dei lavoratori. Il nuovo nome non è allora un caso, visto che il Governo Trudeau definisce la sua “dottrina” di politica commerciale come “progressive agenda”, in quanto basata sull’intento di promuovere, insieme al libero commercio, accordi che contengano proprio standard di quel tipo, inerenti sia ad aspetti economici che sociali.
Fig. 2 – Il premier Trudeau a Davos, dove, in occasione del World Economic Forum, ha dichiarato che il Canada aderirà al nuovo TPP
3. NONOSTANTE LE PREOCCUPAZIONI CANADESI, ACCORDO RAGGIUNTO
A questo proposito, va dunque segnalato che la mancata presenza di Trudeau al suddetto incontro non è stata semplicemente dovuta a un imprevisto nell’agenda di giornata. Nonostante quanto abbiamo detto sulle sue posizioni pro-commercio, Ottawa è sempre stata piuttosto titubante su rilevanti aspetti del TPP. Innanzitutto, il Governo di Trudeau teme per il settore automobilistico canadese che, nel regime del TPP, rischia di subire la concorrenza da parte della potente industria nipponica. Infatti, il trattato prevede che, perché un’auto possa essere liberamente commerciata tra i Paesi contraenti, il 45% di essa sia fabbricato all’interno dell’area TPP – si tratta della cosiddetta “regola d’origine”. Il punto è che questa quota è più bassa rispetto a quella prevista dal NAFTA per i suoi tre contraenti, fissata al 62,5%. Per il Canada era dunque importante ottenere una quota che fosse più vicina a quella fissata dal NAFTA, o quanto meno avere alcuni accomodamenti che tutelassero la sua industria automobilistica. Questo è un tema di notevole interesse in quanto rappresenta una sorta di anello di congiunzione tra i due importantissimi trattati, e il Canada, peraltro, sa di dover difendere il NAFTA a tutti i costi, proprio mentre si sono tenuti a fine gennaio gli incontri sulla sua rinegoziazione. Oltre a ciò, Ottawa non era soddisfatta per le misure previste riguardo ad alcuni temi culturali e alla proprietà intellettuale, e temeva in vista delle elezioni in Quebec, realtà industriale in cui la sicurezza dei lavoratori è una questione di un certo peso. Ad ogni modo, sembra che i dialoghi abbiamo avuto ora un epilogo positivo: Trudeau ha annunciato a Davos il suo assenso e anche gli altri Paesi hanno confermato che è stato trovato un accordo per la firma del nuovo TPP, prevista per marzo. In questi giorni si è infatti tenuto un vertice a Tokyo, nel quale il Canada ha ottenuto alcuni vantaggi riguardanti proprio la questione culturale e quella automobilistica, insieme alla riconferma di alcune tutele per ambiente e lavoratori. Gli imprenditori del settore automobilistico restano profondamente contrariati, ma vi è un’altra consistente parte dell’imprenditoria canadese che appoggia con decisione l’accordo. Infatti, i vantaggi che l’economia può trarre dal TPP non sono pochi, soprattutto nel settore agricolo e alimentare, in cui il Canada non solo vanta surplus commerciali, ma troverebbe anche nel Giappone un sicuro e massiccio acquirente. NAFTA e TPP sono dunque dei veri e propri pilastri per il Canada, ma si trovano entrambi – per situazioni diverse – in fase di ridefinizione. Il governo Trudeau non mancherà comunque di considerare il TPP un valido “piano b”, ovvero come nuovo mercato in cui dirottare le esportazioni canadesi, qualora il NAFTA dovesse entrare seriamente in difficoltà. Ma questa è un’altra storia.
Antonio Pilati
[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]Un chicco in più
Mentre guardava all’esterno, il Ottawa ha dovuto operare anche sul piano interno, se si pensa a un fatto piuttosto curioso: l’anno scorso alcune province del Canada hanno firmato un accordo commerciale “interno” per poter garantire una maggiore facilità negli scambi tra diverse aree di questo Paese così immenso e variegato, armonizzando gli standard per diversi importanti settori.
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Foto di copertina di Christopher Crouzet Licenza: Attribution License