Nei paesi dove l’Islam è al centro della vita politica, fino ai tempi recenti non è mai esistita una vera e propria tradizione bancaria, anche perché il Corano proibisce l’applicazione dei tassi d’interesse sui prestiti. Le banche, di conseguenza, sono un’evoluzione recente del sistema economico islamico che, fino all’inizio degli anni Settanta, aveva fondamento quasi esclusivamente nel sistema cosiddetto hawala.
Il sistema hawala consiste in un modello di sistema bancario “informale” che prevede, sostanzialmente, la partecipazione di quattro attori: l’ordinante, cioè colui il quale vuole trasferire i fondi; il beneficiario, colui il quale riceverà da ultimo i fondi; e due hawaladar (“operatori”), che trattengono una commissione per ogni transazione portata a compimento. Nel caso in cui una persona volesse quindi inviare denaro, per esempio in Pakistan, è sufficiente che depositi la somma da trasferire nelle mani di un hawaladar locale, il quale poi provvederà a contattare un suo affine in Pakistan, che si occuperà di consegnare l’importo pattuito – al netto della commissione – al destinatario.
Per far funzionare il sistema senza il rischio d’intercettazioni, all’atto del deposito il richiedente riceve un simbolo, un oggetto o una parola d’ordine che dovrà poi riferire (o consegnare) per incassare il denaro dall’operatore. I due operatori clandestini compenseranno infine nel paese di origine il loro debito/credito con operazioni inverse o con dazioni di denaro. Tale sistema ha sopperito per secoli proprio alla mancanza di un sistema creditizio sviluppato e ramificato, rendendo possibile pur in condizioni logistiche molto difficili il trasferimento di capitali da un paese all’altro.
Le banche islamiche nascono dunque dall’esigenza di mettersi al pari con l’evoluzione del sistema bancario occidentale, in un contesto di globalizzazione dove l’assenza di un comparto bancario sviluppato non era più pensabile, e cercando comunque di coniugare l’esercizio professionale dell’attività bancaria con il rispetto per le prescrizioni della Sharia (“legge islamica”), sia in termini di divieto di riba (“interesse”), che di ammissibilità di strumenti finanziari tipici dei sistemi economici occidentali.
Le banche islamiche offrono in ogni caso strumenti finanziari in armonia con la Sharia come, per esempio, il takaful, l’assicurazione islamica a carattere mutualistico. O come gli indici di investimento dedicati quali l’Islamic Dow Jones Index, che seleziona le imprese quotate nel Dow Jones Global Equity compatibili con i criteri della legge islamica, laddove il giudizio di compatibilità si basa su due criteri fondamentali: non svolgere attività contrarie alla Sharia e non ricorrere a eccessivi prestiti a interesse.
Le imprese per la produzione e commercializzazione di alcolici, di carne suina, la pornografia, il gioco d’azzardo e comunque qualsiasi altra attività moralmente riprovevole, non sono ammesse. Così come le imprese che ricorrono all’indebitamento sui mercati finanziari convenzionali, devono rientrare entro determinati coefficienti di performance, calcolati sul capitale di rischio, al fine di rispettare un prestito a interesse minimo.
Laddove questi due parametri non vengano rispettati, in alcune giurisdizioni si è stabilito che i profitti generati in altro modo debbano essere “purificati” attraverso la destinazione a opere di carità , le Charity Foundation.
(Continua)
Simone De Pietri – Oltrefrontiera
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