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Memoria storica: un nodo ancora difficile nei Paesi ex sovietici

Attraverso la Storia, abbiamo la possibilità di conoscere e organizzare il passato per capire il presente e affrontare il futuro che ne consegue. Ma non sempre questa conoscenza viene accolta in modo positivo. Nell’area post-sovietica, ad esempio, la memoria storica non ha ancora trovato la giusta collocazione politico-sociale, resta oggetto di controversie e ai margini del panorama culturale di cui dovrebbe essere parte

L’IMPORTANZA DELLA MEMORIA STORICA PER L’UOMO MODERNO

La Storia è la disciplina che si occupa dello studio del passato attraverso documenti, testimonianze e fonti, trasmettendo cosi’ il sapere. E’ una disciplina che trova la sua fecondità nell’eterogeneità delle altre discipline, come ad esempio la geografia, per conoscere i retroscena dei fatti che si sono svolti nel corso del tempo. La memoria storica è figlia di questo approfondimento, è il fattore determinante della conoscenza: ci permette di organizzare il passato, in funzione del presente e del futuro che ne consegue. La sua importanza era nota già durante il periodo di Tacito (56-120) e proprio lo storico latino ne esalta l’autorità nell’opera De vita et moribus Iulii Agricolae: denominata virtus, la memoria storica caratterizzava le gesta degli uomini dall’animo nobile durante l’epoca della Repubblica, realizzando cosi’ il fine ultimo della memoria ovvero tramandare ai posteri ciò che fa onore agli uomini, conservando il ricordo degli esempi a cui essi dovrebbero aspirare. Ma l’uomo è capace di atti che hanno poco a che fare con la virtus. Atti che lo storico latino chiama tirannide, descritta come regime dispotico, che si insinua nella vita degli uomini come inerzia (dulcedo otii) che influenza e blocca la vita. Tale condizione mistifica la realtà e cerca di porre tutto sotto controllo, inclusa la cultura, vittima delle manipolazioni e delle violenze di Domiziano (51-96) durante gli ultimi anni del suo principato. Riferendosi proprio a tale tragico periodo, Tacito ricorda che la memoria storica sarà l’ancora di salvezza, nel lento processo di superamento dell’inerzia e nell’atto di rinascita della libertà di espressione e di cultura dell’uomo. Nell’osservare il tormentato panorama storico dell’ultimo secolo, l’uomo contemporaneo trova molto dell’insegnamento che lo storico latino ci ha lasciato, in particolare riguardo l’importanza della memoria per prevenire gli effetti distruttivi della tirannide. Tuttavia, la realizzazione di una piena virtus è ancora lontana e intessuta di tabu’ che rallentano di conseguenza il processo di conoscenza e rinnovamento sociale. Nell’area post-sovietica, in particolare, la memoria storica non ha ancora trovato la sua giusta collocazione politico-sociale, resta oggetto di controversie e di tentativi di manipolazione pubblica. Nella città georgiana di Tbilisi, ad esempio, si nasconde una vecchia casa di legno che un tempo ospitava un importante centro di propaganda bolscevica gestito da Stalin, leader dell’URSS dal 1924 al 1953. Il museo, conosciuto formalmente come J. Stalin Underground Printing House Museum, è una fonte materiale della memoria storica della Rivoluzione russa, ma il Governo georgiano, fortemente proiettato verso il capitalismo e il mondo occidentale, non lo riconosce formalmente come museo storico nazionale. Il curatore del museo Jiuli Sikmashvili, leader del Partito Comunista Unito della Georgia, si definisce profondamente indignato per le scelte politico-culturali adottate dal Governo, in particolare dal riconoscimento formale del Museum of Soviet Occupation (inaugurato nel maggio 2006, dedicato al periodo di dominio sovietico e alle vittime della repressione staliniana), come parte integrante del Georgian National Museum. Secondo Sikmashvili, l’unica memoria storica veritiera appartiene al suo partito e ai suoi compagni, che tentano di diffondere con l’attività del museo la vera essenza del comunismo. L’attività divulgativa deve però scontrarsi con l’assenza dei finanziamenti statali e Sikmashvili quindi punta sul turismo cinese per tenere aperto il museo. Non a caso si è incontrato recentemente con l’ambasciatore cinese in Georgia per discutere su come incrementare il flusso di possibili visitatori da Pechino.

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 Fig. 1 – Un anziano georgiano partecipa a una commemorazione per il sessantacinquesimo anniversario della morte di Joseph Stalin, 5 marzo 2018

SE LA NOSTALGIA DETERMINA LA MEMORIA STORICA

La polemica tra Sikmashvili e le autorità georgiane dimostra quanto i Paesi post-sovietici fatichino a sviluppare una memoria condivisa e spassionata del proprio passato recente. Abbondano al contrario distorsioni e mistificazioni. Secondo un sondaggio effettuato periodicamente dall’agenzia di stampa russa Sputnik, il Levada Center e l’Istituto Indipendente per gli Studi di globalizzazione di Mosca, la popolazione dell’area post-sovietica, in particolare quella più anziana, afferma di provare nostalgia per il periodo dell’URSS, dove si respirava stabilità, sicurezza sociale e prosperità che oggi, invece, faticano a trovare spazio nell’era della globalizzazione e del capitalismo. I risultati mostrano che il 64% della popolazione russa rimpiange il periodo sovietico, pur godendo oggi di diverse libertà di movimento e di espressione. Ma tale sentimento nostalgico non riguarda solo la Russia. In Moldavia, ad esempio, il 69% della popolazione ritiene che sia meglio venire governati da Mosca che essere uno Stato indipendente. Stessa percentuale in Azerbaijan, pur essendo una delle repubbliche post-sovietiche economicamente più fortunate grazie alle ingenti risorse di idrocarburi. In Armenia i favorevoli a tale tesi sono il 71%, in Ucraina il 60% e in Bielorussia il 53%. Solamente il Tagikistan e l’Uzbekistan segnano una percentuale bassa del 34%. Il sondaggio però, non è stato esteso all’Estonia, alla Lettonia e alla Lituania in quanto membri dell’Unione Europea e della NATO. Le motivazioni per tale nostalgia sono di tipo economico, socio-culturale e politico. La motivazione economica riguarda la difficoltà dei molti intervistati ad avere delle pensioni adeguate che permettano loro di vivere secondo uno stile di vita medio o medio-alto. Inoltre, diverse persone coinvolte nel sondaggio sottolineano l’esigenza di poter comprare generi alimentari a un prezzo adeguato e stabile, evitando le continue oscillazioni dell’inflazione tipiche di un economia di mercato. La motivazione socio-culturale è caratterizzata dai sentimenti di divisione ed alienazione che finiscono spesso per generare discriminazione. Un fenomeno che si riscontra in tutti gli Stati dell’area, divisi da identità nazionale e culturale ma accomunati dallo stesso passato. Per quanto riguarda invece l’aspetto politico, in Russia si registra un ricordo positivo di Stalin e della sua opera, mentre le politiche di Yeltsin e quelle iniziali di Putin vengono associate a un qualcosa di negativo, in quanto inclini al capitalismo e ad un processo di “democratizzazione” di stampo occidentale. Tale nostalgia ha visto nascere negli anni scorsi diverse associazioni culturali, quartieri e stazioni televisive che si occupano di trasmettere e rivivere la stagione sovietica, in particolare in Russia. Ma l’era sovietica è davvero un periodo da rimpiangere per via della sua stabilità e sicurezza?Le testimonianze di chi ha vissuto quel tempo raccontano infatti di una società che arrancava e che non conosceva un reale sviluppo economico: nel 1976, ad esempio, solo due terzi delle famiglie sovietiche avevano un frigorifero, ottenuto tramite estrazione a sorte e da confermare entro brevissimo tempo per non perderlo a favore di altre famiglie. Nello stesso periodo, i russi che possedevano un automobile erano appena 5 milioni e generalmente si doveva aspettare tra i sei e i dieci anni per poterne comprare una. tassi di povertà erano altissimi. Circa un quarto della popolazione non poteva infatti permettersi neanche di comprare un cappello o un cappotto per il rigido inverno, che costava in media l’equivalente di un mese di lavoro. Anche la salute della popolazione sovietica destava preoccupazione, con dati allarmanti come la diffusione del tifo e del morbillo anche 30 volte superiori a quelli degli Stati Uniti, tanto che negli anni ‘60 e ‘70 fu registrato un forte calo nelle aspettative di vita. Di contro, rispetto ai Paesi occidentali, l’Unione Sovietica presentava il più alto rapporto di medico-paziente, triplicando addirittura quello del Regno Unito, ma molti medici non sapevano leggere neanche esami basilari come l’elettrocardiogramma.

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Fig. 2 – Un gruppo di ragazzini georgiani osserva un busto di Stalin nella sua città natale di Gori

POCHE FONTI MATERIALI E OBLIO LEGISLATIVO

Parlare di memoria storica nell’area post-sovietica è quindi compito arduo, poiché si sollevano problematiche irrisolte, inerenti anche le fonti materiali relative ai gulag (campi di concentramento e di lavoro coatto per prigionieri politici o di guerra) e le conseguenze sociali della repressione politica portata avanti dallo Stato sovietico tra il 1917 e il 1991. Ciò significa che la memoria storica in tali Paesi deve affrontare tre questioni fondamentali: la prima concerne la società e l’esigenza culturale di trovare un linguaggio ad hoc per esprimere un’esperienza traumatica collettiva, adattatasi ad un linguaggio metaforico per descrivere solo in parte la storia. Questa impasse è favorita anche da una topografia clandestina, che complica un’analisi adeguata delle fonti materiali di quel periodo: la posizione geografica dei gulag era infatti nascosta e di difficile rilevamento, cosi’ come era segreta la loro funzione tanto da non avere neanche un nome specifico se non quello che descrive genericamente l’amministrazione centrale di sorveglianza (Glavnoe upravlenie ispravitleno-trudovych lagerej). La seconda questione riguarda invece l’aspetto politico implicito nei documenti e nelle fonti, che manifestano il sostanziale coinvolgimento dei leader politici e dei quadri amministrativi nella violenza perpetrata. La questione riguarda quindi l’oblio volontario delle istituzioni verso tale coinvolgimento, sviluppatosi già durante l’era del regime comunista. Nel 1991 i legislatori russi hanno riconosciuto l’implicazione dello Stato sovietico nelle violenze di massa (posizione implicita già nella definizione di Stato totalitario) ma non c’è stato alcun iter giuridico che ha stabilito e punito i responsabili di tali violenze, come accaduto invece nel Processo di Norimberga. In sostanza, non è stata data reale giustizia alle vittime delle repressioni sovietiche. La terza e ultima questione riguarda infine la piena accettazione pubblica e privata di quanto accaduto, pur mancando una lista ufficiale dei caduti e dei sopravvissuti. Essa riguarda la negazione sia della loro esistenza che del loro status di vittime, specialmente a livello istituzionale. Se nel 1991, con il parziale riconoscimento legislativo (attuato in parte già nel periodo di Khrushchev) le vittime ingiustamente accusate e condannate potevano essere riabilitate, riguadagnando i loro diritti civili e chiedendo un risarcimento simbolico in denaro (25.000 rubli-pari a circa 600 euro) per le violenze subite, nel 2007 l’emendamento è stato improvvisamente abolito con una misura legislativa mascherata da aggiornamento degli importi dei risarcimenti. Lo status delle vittime viene negato anche dall’assenza di politiche pubbliche e attività commemorative, che impediscono un ricordo adeguato della loro tragica esperienza. Mancano persino i luoghi dove effettuare le commemorazioni, anche se nell’ottobre del 2017 a Mosca si è celebrato il primo Memorial Day con l’inaugurazione del monumento Wall of Grief dedicato alle vittime della repressione politica del periodo rivoluzionario e della dittatura staliniana. Il monumento è stato installato nel centro città alla presenza del Presidente Putin e del Patriarca di Mosca Kirill: si tratta di un muro di pannelli in bronzo con figure umane in rilievo e la scritta Remember in 22 lingue, per ricordare le molte nazionalità dei caduti. In futuro l’opera dovrebbe essere arricchita da una serie di pietre in posizione verticale, provenienti dai vari luoghi di detenzione sparsi per il Paese. Ufficialmente, gli unici lager riconosciuti e preservati sono pero’ il campo PERM-37 e il Monastero convertito in campo di concentramento conosciuto come SLON (Solovkij Lager’ Osobogo Naznachenia) sulle isole Solovetskij, che sono sotto l’ausilio rispettivamente di una ONG e della direzione congiunta di un museo permanente affiliata con la Chiesa ortodossa locale. I siti restanti, dai più importanti a quelli comuni come Dalstroj e Volgolag, si stanno rapidamente degradando per fattori ambientali o temporali. La memoria storica non può allora prescindere da un riconoscimento ufficiale da parte delle istituzioni sociali e politiche, perché vi è implicito il destino ultimo delle vittime. Nel caso specifico dell’area post-sovietica, non sono solo i diversi fattori che abbiamo analizzato ad influenzare e rallentare tale processo, ma anche la posta in gioco che deriva dal mappare i siti di sepoltura perché coinvolgerebbe pubblicamente gli ex membri della nomenclatura sovietica. Non a caso nel 2009 è stata istituita la Commissione presidenziale della Federazione Russa per contrastare i tentativi di falsificare la storia a danno degli interessi della Russia (Presidential Commission of the Russian Federation to counter attempts to falsify history to the detriment of Russia’s interests), imponendo un quadro normativo per l’accesso agli archivi storici che mira a filtrare la consultazione dei documenti classificati necessari all’identificazione dei caduti e dei siti delle fosse comuni. In sostanza, la Commissione punta a controllare la memoria storica delle persecuzioni sovietiche a difesa dello Stato e dei suoi interessi. La creazione di una simile istituzione fa capire quanta strada ci sia ancora da fare in Russia e negli altri Paesi ex sovietici per sviluppare una memoria del passato, libera da ingerenze e dai condizionamenti del potere politico.

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Fig. 3 – Il Wall of Grief in ricordo delle vittime della repressione sovietica, inaugurato recentemente a Mosca alla presenza di Putin e del Patriarca Kirill

Sara Barchi

[box type=”shadow” align=”” class=”” width=””]Un chicco in più

Repressione. Il concetto di repressione fa riferimento a l’oppressione o persecuzione di un individuo o gruppo di individui per ragioni politiche o religiose. Coloro che subiscono tale condizione, subiscono anche discriminazioni, soprusi politici, arresti ingiustificati e sparizioni forzate. Si possono distinguere due tipi di repressione: 1) politica, organizzata e regolata dallo Stato per intimidire oppositori e dissidenti; 2) sistematica, ovvero condotta da regimi totalitari su larga scala con l’ausilio di gruppi paramilitari e di polizia segreti. Il ‘900 europeo, è stato segnato da entrambe queste forme di repressione, specialmente nei regimi fascisti del primo dopoguerra.[/box]

Foto di copertina di mrbichel Licenza: Attribution License

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Sara Barchi
Sara Barchi

Classe 1983. Dopo la maturità linguistica ho scelto di approfondire la mia passione per le lingue straniere, laureandomi in Lingue e Culture Straniere. Tra una lettura di un classico e una traduzione, ho scelto di assecondare il mio interesse per le tematiche e relazioni internazionali, specializzandomi in Lingue per la Comunicazione e Cooperazione Internazionale con una tesi in geopolitica.

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