Analisi – Egitto e Turchia stanno cercando un riavvicinamento tattico, innescato dalle mutate dinamiche regionali e internazionali. Uno scontro tra i due Paesi non converrebbe né al Cairo né ad Ankara, ma alcuni fattori potrebbero contribuire a rompere la tregua nel lungo periodo.
DINAMISMO TURCO A CIPRO: L’EGITTO (NON) REAGISCE
Martedì 20 luglio, in visita nell’autoproclamata Repubblica turca di Cipro del Nord, il Presidente della Turchia Recep Tayyp Erdogan ha annunciato la possibilità di riaprire la città di Varosha. Situata nella parte orientale di Cipro, Varosha è diventata una città fantasma a seguito dell’invasione turca del 1974, quando 15mila greco-ciprioti decisero di emigrare alla vista dei carri armati turchi. Da quel giorno Varosha è stata recintata e considerata neutrale. La proposta del leader turco-cipriota Ersin Tatar e di Erdogan di smilitarizzare un quartiere della città e permettere il reinsediamento civili segue la provocazione fatta nell’ottobre 2020 – quando i due leader avevano celebrato l’apertura per un giorno della spiaggia di Varosha, accogliendo 2mila cittadini turco-ciprioti.
L’obiettivo è rendere impraticabile qualsiasi soluzione federalista dell’isola, favorendo, invece, la prospettiva della creazione di due Stati, con la secessione di Cipro Nord. La reazione cipriota è stata immediata. Con l’appoggio di Atene, Nicosia ha fatto appello al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, ricevendo il sostegno del Segretario Generale dell’ONU Antonio Guterres. Anche l’Unione Europea e gli Stati Uniti si sono schierati a favore delle Istituzioni greco-cipriote riconosciute dalla comunità internazionale, parlando apertamente di azioni provocatorie e inaccettabili da parte della Turchia. Solidarietà verso Nicosia anche da Israele ed Egitto, partner energetici e con un forte coordinamento in ambito militare. Il ministro degli Esteri del Cairo si è limitato a esprimere forte preoccupazione, ricordando che la decisione unilaterale turca di aprire Varosha sia una violazione delle risoluzioni delle Nazioni Unite.
Fig. 1 – Cittadini turco-ciprioti manifestano di fronte al Parlamento scissionista di Cipro del Nord in attesa dell’arrivo del Presidente della Turchia Recep Tayyp Erdogan, 19 luglio 2021
I FRONTI DELLA DISTENSIONE TRA IL CAIRO E ANKARA
Nicosia probabilmente si aspettava una reazione più decisa da parte del Cairo, anche perché le recenti mosse dei due Paesi volte a rafforzare, insieme ad Atene, la cooperazione militare sono state pensate proprio in funzione anti-turca. La limitata risposta egiziana alle pretese turche su Cipro si spiega guardando alla progressiva distensione dei rapporti intrapresa tra Cairo e Ankara negli ultimi mesi.
Divisi su tutti i fronti dal colpo di Stato del 2013 – che portò al-Sisi alla guida del Paese dei Faraoni dopo aver deposto l’esponente della Fratellanza Musulmana, sostenuto da Ankara, Mohamed Morsi – Egitto e Turchia hanno dato vita negli ultimi anni a un’accesa competizione geopolitica. Dalla Libia alla delimitazione delle Zone Economiche Esclusive (ZEE) nel Mediterraneo Orientale, dall’approvvigionamento energetico alle divergenze ideologiche sull’Islam politico, sono diversi i terreni di scontro che hanno influenzato negativamente le relazioni bilaterali dei due Paesi. Le mutate dinamiche regionali e internazionali, però, hanno messo in moto le diplomazie di Ankara e del Cairo, le quali hanno intuito che un riavvicinamento tattico potrebbe in questo momento garantire più benefici rispetto a un rapporto conflittuale.
E così al-Sisi ed Erdogan hanno incominciato a lanciare segnali distensivi reciproci. Da parte egiziana c’era stata una prima apertura alla Turchia già a febbraio, quando, annunciando l’inizio di una gara d’appalto per l’esplorazione e lo sfruttamento di petrolio e gas nel Mediterraneo Orientale, Il Cairo aveva tenuto in considerazione le coordinate della piattaforma continentale così come proposto dalla Turchia nell’accordo con la Libia del 2019 sulla delimitazione dei confini marittimi. Un cambio di passo si è registrato anche nel dossier libico. Niente più sostegno alle scorribande delle milizie di Khalifa Haftar in Tripolitania e via libera all’apertura dell’ambasciata egiziana a Tripoli – ormai protettorato turco – con l’invio di una delegazione diplomatica per sostenere i colloqui con la controparte appoggiata da Ankara e dall’ONU. Aperture salutate positivamente dalla Turchia, attraverso alcuni passi concreti finalizzati a migliorare i legami con l’Egitto: la richiesta ad alcuni canali dell’opposizione egiziana operanti sul proprio territorio di «attenuare» le critiche nei confronti del Cairo; il silenzio sulla decisione da parte della magistratura egiziana di condannare a morte 12 membri della Fratellanza Musulmana per aver organizzato manifestazioni anti-governative nel 2013; la proposta, avanzata direttamente dal ministro degli Esteri turco Mevut Cavusoglu, di stipulare un accordo per la delimitazione dei confini marittimi.
Un corteggiamento reciproco che ha portato le delegazioni dei due Paesi, guidate dai rispettivi vice ministri degli Esteri, a incontrarsi al Cairo a inizio maggio.
Fig. 2 – Il vice ministro degli Esteri egiziano Hamdi Sanad Loza incontra il suo omologo turco Sedat Onal nella sede del ministero degli Esteri al Cairo, 5 maggio 2021
L’EGITTO E IL SUO POSTO NEL MONDO
La volontà di al-Sisi e degli apparati strategici egiziani di normalizzare le relazioni con la Turchia si inserisce in un quadro di crescente influenza del Paese dei Faraoni nella regione. Il Cairo si sta muovendo con decisione su più fronti, ritagliandosi uno spazio che gli permette di rafforzare la propria posizione di attore determinante negli equilibri del Mediterraneo Orientale. Per cui, in Libia, dopo aver sostenuto le ambizioni del generale Haftar, l’Egitto si è smarcato dall’ormai ex uomo forte della Cirenaica – aprendo canali diplomatici con Tripoli, – ma ha allo stesso tempo inaugurato una nuova base navale a Capo Gargub, a due passi dalla costa libica. Nel solco dell’allentamento delle tensioni con Ankara, al-Sisi non ha rivolto minacce alla Turchia durante l’evento – al quale ha partecipato anche il Principe ereditario degli Emirati Arabi Uniti, Mohammad bin Zayed, – ma ha offerto ai propri rivali regionali una dimostrazione di forza, con il dispiegamento di 47 unità navali, tra cui le ultime arrivate fregate Fremm vendute dall’Italia.
Il messaggio è chiaro: l’Egitto è pronto a negoziare, ma non rinuncerà alla propria proiezione in Libia, la cui stabilità è fondamentale per garantire la sicurezza interna e la difesa dei propri interessi nello scacchiere mediorientale. Ed è proprio per allargare la propria sfera d’influenza e imporsi come potenza regionale che Il Cairo si è inserito con prepotenza negli ultimi anni, insieme ad Algeria e Turchia, nella corsa al riarmo navale, per un Paese che sulla carta può vantare l’esercito più imponente del continente africano e il secondo del Medio Oriente, dietro solo a quello dell’Iran. Se da un lato al-Sisi mostra i muscoli trascinato dal ritorno della politica di potenza, dall’altro lato si presenta agli occhi del mondo come attore cruciale per la risoluzione delle controversie regionali. Il ruolo svolto nella mediazione tra Israele e Hamas ha, infatti, avuto il duplice scopo di intestarsi la causa palestinese – per placare l’opinione pubblica ancora fortemente simpatetica nei confronti della popolazione di Gaza – e di ricordare alla nuova Amministrazione Biden che l’Egitto resta perno indispensabile del conflitto israelo-palestinese. Distintosi per aver contribuito alla tenuta del cessate-il-fuoco tra Stato ebraico e Hamas, Il Cairo è tornato partner autorevole al cospetto di Washington, giudizio implicitamente condiviso da Biden con la chiamata ad al-Sisi, avvenuta dopo i pesanti giudizi riservati al Presidente egiziano.
D’altronde per contare nel quadrante mediorientale l’Egitto non può inimicarsi gli Stati Uniti ed è per questo che cerca anche di raccontarsi al mondo in modo diverso, fornendo ad esempio qualche concessione sul tema dei diritti umani, discorso pregnante per l’attuale Amministrazione a stelle e strisce. Nel frattempo al-Sisi compie altre mosse volte a costruire un’idea di potenza: gioca di fino in Iraq e Libano per espandere la propria tela diplomatica; tenta, neanche fosse Erdogan, di spaventare l’Europa con il ricatto migratorio per attirare la sua attenzione nella vicenda della diga sul Nilo; pianifica la costruzione di altre centrali nucleari a scopi civili che potrebbero trasformarsi in futuro in impianti per l’arricchimento dell’uranio.
Fig. 3 – Il Presidente turco Erdogan e il Primo Ministro libico del Governo di Unità Nazionale Abdul Hamid Dbeibah (a destra) durante un incontro ad Ankara, aprile 2021
EGITTO E TURCHIA: PERCHÉ LA TREGUA POTREBBE NON DURARE
La ricerca del dialogo tra Egitto e Turchia è imposta in questo momento dalle rispettive necessità tattiche. Che per definizione, però, concernono il breve periodo, essendo a disposizione della strategia, autentico fattore che muove le potenze nell’arena internazionale, soprattutto quelle a vocazione imperiale. È il caso della Turchia, ormai da tempo impegnata a espandere la propria influenza anche attraverso l’utilizzo della forza militare se necessario: dai Balcani al Nordafrica, arrivando fino al Sahel e in Somalia.
Lo scontro con l’Egitto in Libia è in questo senso dirimente. La tregua tra Cairo e Ankara serve anche a capitalizzare i vantaggi ottenuti dalle guerre condotte nell’ex Jamahiriya, ma per l’Egitto una presenza militare stabile e duratura dei turchi a Tripoli non sarebbe sostenibile nel lungo periodo. La postura imperiale impressa da Erdogan alla Turchia non conosce battute d’arresto, ma solo accorgimenti tattici al servizio di un disegno più grande. Al-Sisi lo sa ed è per questo motivo che non si fida dell’idea di un docile progetto neo-ottomano. Qualora, ad esempio, Erdogan decidesse di rimuovere da Tripoli i mercenari siriani filo-turchi farebbe un passo verso una maggiore, sicuramente più concreta, normalizzazione dei rapporti con l’Egitto. Sebbene attraverso la Fratellanza Musulmana continui a esercitare una notevole influenza in tutto il Nordafrica e non solo, costituendo un elemento di pressione per il Paese dei Faraoni. Anche l’instabilità in Tunisia potrebbe incrinare i progetti di appeasement tra Egitto e Turchia.
Gli ultimi avvenimenti nel Paese dei gelsomini lasciano presagire un’offensiva anti-turca del blocco che si contrappone ad Ankara. L’estromissione da parte del Presidente Saied del Primo Ministro Mechichi – sostenuto dal partito Ennahda vicino alla Fratellanza Musulmana – appare come una mossa incoraggiata da Francia ed Emirati (che insieme a Egitto e Arabia Saudita si oppongono alla Turchia) per cercare di fermare l’avanzata turca in Nordafrica. Quindi, per esercitare concreta deterrenza ai fatti ostili di Tunisi, Erdogan potrebbe decidere addirittura di rinforzare la presenza militare in Tripolitania. Creando una spirale pericolosa che si ripercuoterebbe nei rapporti con l’Egitto, terrorizzato sia dalla prospettiva di una Libia perennemente instabile, sia da un consolidamento del potere degli odiati Fratelli Musulmani a un passo dai propri confini. Insomma, dato che Il Cairo sta riacquistando centralità negli equilibri della regione, Ankara deve trovare un modus vivendi geopolitico con quello che è il suo primo partner commerciale in Africa. Inoltre l’isolamento dettato dall’assertività della politica estera di Erdogan potrebbe diventare insostenibile nel lungo periodo. La tregua tra le due potenze musulmane, però, rischia di naufragare sia per il difficile compromesso da trovare in Liba, sia per la ritrosia di Ankara di abbandonare definitivamente ogni appoggio all’organizzazione dei Fratelli Musulmani tanto invisa al Cairo.
Vittorio Maccarrone
Immagine di copertina: Photo by Srikrishnadeva is licensed under CC BY-NC-SA