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A che punto siamo dell’emergenza Rohingya?

I Governi di Myanmar e Bangladesh hanno approvato un piano di rimpatrio per gli oltre 650mila Rohingya fuggiti dal Rakhine dopo le violenze dello scorso agosto. L’accordo è stato ampiamente criticato per la mancanza di garanzie a tutela degli sfollati, mentre due giornalisti di Reuters sono finiti in manette nel corso di indagini sulle atrocità commesse dalle forze di sicurezza birmane

IL RIMPATRIO DEI ROHINGYA

Lo scorso 23 novembre è stato firmato un accordo che prevede il graduale rimpatrio in Myanmar dei rifugiati Rohingya, fuggiti nel vicino Bangladesh in seguito alle violenze nello Stato birmano del Rakhine.
Secondo gli accordi l’inizio del processo era previsto intorno al 23 gennaio scorso, ma problemi tecnici e perplessità etiche hanno rinviato la partenza a data (per ora) da destinarsi. I primi nominativi per il rimpatrio, ad esempio, sono stati consegnati dalle autorità bengalesi a quelle birmane solo qualche giorno fa. Appare quindi improbabile che le operazioni di rientro inizino in tempi brevi.
Attualmente in Bangladesh ci sono più di 650mila Rohingya, 400mila dei quali hanno attraversato il confine verso il distretto bengalese di Cox’s Bazar nel giro di qualche settimana dopo le violenze esplose nello scorso agosto. Un esodo di massa senza precedenti per volume e rapidità, causato da una vera e propria “pulizia etnica” come definita dall’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani Zeid Ra’ad Al Hussein.

Secondo gli accordi firmati tra i due Paesi il rimpatrio sarà completato nell’arco di due anni ed avverrà su base volontaria: soltanto coloro che lo desiderano potranno rientrare in Myanmar. I funzionari bengalesi affermano di aver già selezionato 100mila persone le cui domande di rimpatrio saranno esaminate dalle autorità birmane nelle prossime settimane.
Nella realtà i tempi di realizzazione rischiano di essere ben più lunghi. A inizio gennaio i Governi hanno concordato il rimpatrio di 1500 persone alla settimana. Considerando la presenza di più di 650mila Rohingya sul territorio bengalese, con questi ritmi ci vorrebbero circa 8 anni per completare il processo.
Il Ministro degli Esteri bengalese Shahidul Haque, in un’intervista della BBC, ha detto che l’intento di Dacca sarebbe quello di velocizzare i rimpatri. “Abbiamo chiesto di inviare 15mila persone alla settimana, ma ci hanno risposto di poterne accogliere solo 1500. Abbiamo accettato il compromesso, riservandoci di rivedere le cifre tra tre mesi”.

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Fig. 1 – Una donna Rohingya con i suoi figli nel campo profughi di Cox’s Bazar, gennaio 2018

UN RITORNO SENZA GARANZIE

Le agenzie delle Nazioni Unite e le organizzazioni umanitarie che monitorano l’emergenza dei Rohingya stanno manifestando crescenti preoccupazioni circa l’accordo raggiunto tra i due Governi. Al momento nessuna organizzazione internazionale è stata direttamente coinvolta nei processi in corso, nemmeno l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati.
Le autorità birmane assicurano che i rimpatri avverranno esclusivamente su base volontaria, ma la maggior parte dei rifugiati ha detto che tornerà solo quando i loro diritti saranno assicurati, le loro case ricostruite e venga posto un freno alle discriminazioni verso la minoranza islamica. Attualmente, nessuna di queste condizioni è stata ricompresa negli accordi.
Si teme perciò che, in mancanza di volontà, i rifugiati vengano rimpatriati con la forza verso il territorio birmano – cosa che peraltro è già successa in occasione dei precedenti esodi di massa del popolo Rohingya avvenuti negli anni ‘80 e ‘90.

La settimana scorsa i leader della comunità Rohingya hanno preparato una lista di richieste minime che devono essere soddisfatte prima che i rifugiati accettino di tornare. Questa include l’ammissione della responsabilità dei militari per le violenze occorse nel Rakhine e il rilascio delle persone ingiustamente arrestate.
I Rohingya sono sempre stati considerati immigrati illegali dalla maggioranza buddista birmana. Tant’è che ad essi viene negato il diritto di cittadinanza dal 1982, rendendoli di fatto apolidi.
Quanto al piano di accoglienza una volta ritornati, il Myanmar prevede di ospitare 30mila rifugiati in un “campo di transizione”, che ha tutta l’aria di trasformarsi in un invivibile agglomerato urbano a tempo indeterminato. C’è da considerare infatti che, attualmente, circa 120mila Rohingya tornati in Myanmar dopo le violenze del 2012 vivono in un campo di internamento nel Rakhine centrale, mentre altri 200mila sono confinati in villaggi con precise limitazioni di movimento all’interno della regione.  

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Fig. 2 – Il Ministro degli Esteri bengalese Shahidul Haque (destra) e la sua controparte birmana U Myint Thu siglano alcuni termini dell’accordo per il rimpatrio dei Rohingya a Dacca, 19 dicembre 2017

I GIORNALISTI ARRESTATI

L’emergenza dei rifugiati Rohingya è un argomento a dir poco sensibile per le autorità birmane, tanto che anche Papa Francesco, in visita in Myanmar lo scorso dicembre, aveva preferito evitare di nominare la minoranza islamica durante i suoi incontri pubblici.
Due giornalisti di Reuters, Wa Lone (31 anni) e Kyaw Soe Oo (27 anni), sono stati arrestati il 12 dicembre scorso con l’accusa di essere entrati in possesso di informazioni riservate, attraverso l’aiuto di due poliziotti locali. I due reporter lavoravano da qualche mese nello Stato del Rakhine, indagando sulla crisi umanitaria in corso e sulle violazioni dei diritti umani perpetrate dalle forze di sicurezza birmane.
Il Ministero dell’Informazione di Naypyidaw ha dichiarato che i giornalisti sono stati “arrestati per essere entrati in possesso di documenti riservati riguardanti lo Stato del Rakhine e le forze di sicurezza” con l’intento di “condividere tali informazioni con i media stranieri”. Se riconosciuti colpevoli, Wa Lone e Kyaw Soe Oo rischiano fino a 14 anni di reclusione.
Ufficiali governativi dei principali Paesi occidentali – inclusi USA, Canada e Gran Bretagna – rappresentanti delle Nazioni Unite e della società civile hanno chiesto l’immediata liberazione dei giornalisti, incarcerati con un’accusa che sembra costruita a tavolino con l’unico scopo di mettere a tacere una scomoda inchiesta. Gli stessi accusati hanno raccontato ai parenti che l’arresto è avvenuto pochi attimi dopo che due poliziotti, mai incontrati prima, li avevano avvicinati al ristorante consegnandogli i documenti incriminati.
“Sono innocenti, e deve essere concesso loro di tornare a svolgere il proprio lavoro e parlare di quello che sta accadendo in Myanmar” ha affermato l’agenzia di stampa Reuters in una dichiarazione.
Durante l’udienza del 1 febbraio scorso, la corte distrettuale competente del caso ha negato il rilascio su cauzione dei due giornalisti. Il Giudice Ye Lwin ha genericamente motivato che il reato contestato non prevede rilascio su cauzione, senza ulteriori spiegazioni.

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Fig. 3 – Il giornalista di Reuters Wa Lone scortato dalla polizia al sua arrivo al Tribunale di Yangon, 10 gennaio 2018

Emanuel Garavello

[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]Un chicco in più
L’ultima ondata di violenze nello Stato del Rakhine è iniziata dopo che il gruppo ribelle Arakan Rohingya Salvation Army (ARSA) ha attaccato 30 avamposti dell’esercito regolare birmano, alla fine dello scorso agosto. La reazione delle forze di sicurezza di Naypyidaw è stata brutale e sproporzionata, causando la distruzione di 350 villaggi e la fuga di decine di migliaia di persone. [/box]

Foto di copertina di Jordi Bernabeu Licenza: Attribution License

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Emanuel Garavello
Emanuel Garavello

Sono nato nel 1989, in provincia di Torino. Mi sono laureato in Giurisprudenza nel giugno 2015 con una tesi di Diritto Internazionale sullo Status legale dei Rifugiati Palestinesi. Lavorando per UNICEF si è accesa la passione per i Diritti Umani e lo Sviluppo Sostenibile, e attraverso esperienze di lavoro e studio all’estero ho imparato ad apprezzare il fascino delle relazioni internazionali.

Quando non disturbo i vicini con la mia chitarra, macino chicchi per (la macchina del) Caffè Geopolitico.

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