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Moqtada Al Sadr, è lui oggi l’uomo forte dell’Iraq

Moqtada Al Sadr è oggi probabilmente il leader iracheno più rispettato e ascoltato nel Paese. Sciita, 43 anni, è figlio dell’ayatollah Muhammad Sadiq Sadr, assassinato nel 1999 dal regime di Saddam Hussein.

Si è fatto conoscere al mondo a partire dall’invasione americana nel marzo del 2003, quando le sue milizie, l’Esercito del Mahdi, sono state protagoniste della “insurgency” irachena, ovvero la sollevazione armata contro le truppe di occupazione americane. All’epoca la sua città natale Najaf, così come Kerbala, Bassora e Sadr City (ovvero uno dei quartieri più popolosi di Baghdad, dove il religioso comanda senza temere rivali) furono l’epicentro della rivolta e tutt’oggi rimangono i centri del potere politico e militare di Al Sadr.

Il quale, in questi anni di caos, è rimasto uno dei pochi punti di riferimento per la ricostituzione di un ordine sociale e politico di questo Paese dilaniato dalla guerra civile. Così, ecco che alle ultime elezioni parlamentari – tenutesi in Iraq lo scorso 12 maggio, le prime dalla sconfitta dello Stato Islamico – Al Sadr ha trionfato nei seggi: la coalizione Sairoon (che significa “Alleanza per le riforme”) da lui guidata ha sbaragliato ogni avversario, grazie a una serie di alleanze trasversali e a efficaci slogan di stampo populista-nazionalista, la maggior parte dei quali rivolti contro la corruzione, le disuguaglianze e l’ingerenza delle potenze straniere. A riverberare il suo messaggio è stato utile anche il settimanale da lui creato Al Hawzah e subito bandito dalle autorità irachene perché considerato un veicolo d’incitazione all’odio e alla violenza.

Nelle invettive di Moqtada Al Sadr sono finiti anche stavolta gli Stati Uniti, ma soprattutto l’Iran e in una certa misura anche l’Arabia Saudita, rei di aver interferito come e più di Washington nella gestione del post Califfato. «Basta interferenze» ha gridato il capopopolo, ottenendo un consenso inaspettato agli occhi degli osservatori internazionali.

La sua coalizione, che mescola socialisti, comunisti e religiosi sciiti di provenienza iraniana, è riuscita a primeggiare in ben 16 delle 18 provincie irachene, a eccezione di quelle a maggioranza curda di Dohuk e Kirkuk. La scommessa del leader non era di poco conto: Al Sadr è da tempo in rivalità con i due più grandi ayatollah iracheni, Kazim al-Hairi e Ali Sistani, quest’ultimo l’anziano religioso di origine iraniana che ancora oggi è considerato la guida politica e spirituale per eccellenza dell’Iraq.

Ma l’uomo ha capacità di resilienza uniche. Nel 2004 un tribunale iracheno aveva emesso nei suoi confronti un mandato d’arresto: lo si accusava dell’omicidio politico del leader moderato sciita, Abdul Majid al-Khoei. Grazie anche alla mediazione di Ali Sistani, quel mandato fu poi ritirato per consentire la fine delle ostilità con gli americani. Nonostante ciò, l’Esercito del Mahdi ai suoi ordini ha continuato a mantenere intatto il proprio consenso e, anzi, l’ostilità nei confronti di ogni intromissione straniera ne ha accresciuto il mito.

Moqtada Al Sadr è entrato ufficialmente in politica nel 2005, raccogliendo attorno a sé il consenso di molte comunità sciite dell’Iraq e sfruttando la popolarità ottenuta durante la lotta armata nella seconda guerra del Golfo, per poi ritagliarsi un ruolo di rilievo nel governo del premier sciita Nouri Al Maliki. Tuttavia, nell’aprile del 2007 il suo partito, il Movimento Sadrista, ha rotto con il governo e i suoi sei ministri si sono dimessi in blocco. Nello stesso anno, si è trasferito in Iran nella città santa di Qom, dove ha approfondito i suoi studi religiosi, per poi fare ritorno a Najaf nel 2011.

Nell’agosto del 2008 ha ordinato la sospensione a tempo indefinito delle attività militari dell’Esercito del Mahdi – altra efficace mossa populista – e successivamente, nel 2014, ha promosso la formazione delle Brigate della Pace, con l’intento di ricreare una forza di sicurezza legale, dopo che molti uomini del disciolto regime di Saddam erano finiti per ingrossare le file del Califfato. Nel maggio del 2015 ha quindi lanciato un messaggio di sfida allo Stato Islamico, guadagnandosi il consenso di vari leader delle Brigate dell’Unità di Mobilitazione Popolare (Hashed al-Shaabi), ovvero le milizie che si sono poi rivelate decisive nella vittoria contro l’ISIS. Nel 2016, infine, ha guidato una grande protesta anti-corruzione, che ha spinto centinaia di suoi sostenitori a occupare il parlamento a Baghdad, facendo temere un golpe (poi rientrato).

Oggi, la sua influenza politica si può dedurre dall’incontro avvenuto a Gedda lo scorso luglio con il principe ereditario saudita Mohammed Bin Salman. Un faccia a faccia che lo ha ulteriormente allontanato da Teheran. Da quel momento, infatti, gli Ayatollah hanno provato a osteggiare Al Sadr in ogni modo, consapevoli che un suo avvicinamento a Riad sarebbe una iattura per le mire geopolitiche iraniane nella regione: nel febbraio scorso Ali Akbar Velayati, massimo consigliere del leader supremo della Repubblica Islamica Ali Khamenei, aveva dichiarato che né a lui né ai comunisti sarebbe mai stato permesso di governare l’Iraq. Tuttavia adesso Teheran, visto il risultato elettorale di Sairoon, non sa più come impedire a Moqtada Al Sadr di avere un ruolo centrale nel nuovo esecutivo. Unica consolazione è che Al-Sadr non può diventare primo ministro, perché non si è candidato e non è un parlamentare.

Ma, anziché una debolezza, questa sua “distanza di sicurezza” dalla politica di palazzo è la sua forza principale. Moqtada Al Sadr ha dunque oggi più che mai nelle proprie mani il destino dell’intero Iraq. E dove deciderà di spostare il suo peso, determinerà in larga parte i giochi di potere nella regione. Se ad esempio deciderà di mantenere aperto il canale di comunicazione con Bin Salman – di certo più moderato degli iraniani – avrà reso un servizio al suo Paese, ma si sarà anche fatto un nemico potente. Più probabilmente, la sua lunga esperienza da leader lo porterà a scegliere una soluzione intermedia, al fine di evitare quegli attriti e scontri intertribali che l’Iraq non può più permettersi.

Lucio Tirinnanzi

Articolo pubblicato nella rubrica Oltrefrontiera di Panorama.it

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