Caffè Lungo – Gli equilibri del Sud-est asiatico sono nuovamente in discussione in seguito al golpe in Myanmar del febbraio scorso. L’ASEAN, in risposta, ha agito in deroga al principio di non intervento, attuando una linea dura contro la giunta. Si tratta di una svolta storica o di un cambiamento momentaneo?
MYANMAR: LA GIUNTA MILITARE DI NUOVO AL POTERE
L’ASEAN e il Myanmar intrattengono un rapporto molto particolare: dal 1997, anno dell’adesione, il Paese è considerato dagli altri membri come una spina nel fianco dell’Organizzazione. Governato prevalentemente da giunte militari fin dal colpo di Stato del 1962, il Myanmar stesso è stato tradizionalmente legato al concetto di rigorosa indipendenza in politica estera. Una breve parentesi democratica ha avuto inizio solo in seguito alle elezioni del 2015, in cui la leader del partito National League for Democracy (NLD) e premio Nobel Aung San Suu Kyi vinse a stragrande maggioranza. Il processo di state building e democratizzazione è stato però bruscamente cessato il 1° febbraio scorso, quando il Tatmadaw Kyi, l’esercito della Birmania guidato dal generale Min Aung Hlaing, ha promosso un colpo di Stato, destituendo Suu Kyi. Questo evento ha gettato nuove ombre sulla presenza del Paese nell’ASEAN, da sempre un’Organizzazione dedita al contenimento di fenomeni militari come questo, spesso giudicata “inerte” dalla comunità internazionale.
Embed from Getty ImagesFig. 1 – Il generale Min Aung Hlaing, capo della giunta militare attualmente al potere in Myanmar
L’ASEAN AGISCE IN DEROGA AI PROPRI PRINCIPI(?)
L’intera Organizzazione si basa infatti su due valori fondanti: il non intervento negli affari interni dei Paesi membri e il consenso nel processo decisionale. Tuttavia la questione del Myanmar sembra avere in parte smosso questi principi. Il Summit speciale dello scorso aprile, tenutosi a Giacarta, è stato indetto con il preciso scopo di discutere della situazione nel Paese. In questa occasione l’interesse dell’Organizzazione è stato duplice: confutare l’etichetta globale di “associazione inerte” affibbiata, ma soprattutto contenere gli effetti del colpo di Stato, evitando una ricaduta a livello regionale. L’incontro dei leader ha prodotto un Five Point Consensus, che si è focalizzato sulla risoluzione delle violenze perpetrate e sulla designazione di un emissario dell’ASEAN per normalizzare la situazione. Il documento ha segnato un ulteriore punto di svolta, attuando sulla carta un’ingerenza negli affari interni di uno Stato membro. A supporto dell’ASEAN, si sono aggiunti partner quali Stati Uniti, Unione Europea e Cina, che hanno richiesto un’immediata cessazione della repressione nei confronti dei dimostranti anti-golpe. In particolar modo una risoluzione dell’Assemblea Generale ONU a giugno ha ribadito la necessità della restaurazione della democrazia nel Paese e la cessazione del flusso di rifornimenti di armi ai militari. L’ONU ha inoltre spinto l’ASEAN a forzare la mano sull’applicazione del Consensus. Ciò che fa riflettere è la natura contraddittoria dell’intera azione, anche alla luce della recente decisione di escludere il generale Min Aung Hlaing dal Summit autunnale dell’ASEAN di ottobre.
Embed from Getty ImagesFig. 2 – Il premier vietnamita Pham Minh Chinh partecipa al summit autunnale dell’ASEAN, tenutosi prevalentemente in forma virtuale a causa della pandemia di Covid-19, 26 ottobre 2021
SVOLTA STORICA O ABILE MOSSA DIPLOMATICA?
La decisione promossa dal Brunei, ora in capo all’Organizzazione, segna un ulteriore mutamento, ossia un’ingerenza ormai concreta. Le motivazioni sono molteplici: la mancata attuazione del Consensus, il perpetrarsi delle violenze e il rifiuto di dialogare con l’inviato speciale. L’ASEAN ha optato invece per Chan Aye, “membro non-politico” del Myanmar, diplomatico di più alto rango del Paese, il quale però ha scelto di non partecipare al Summit del 26-28 ottobre ad Hanoi. Le reazioni da parte della giunta non si sono fatte attendere: dura la risposta da parte del portavoce, che accusa l’Organizzazione di aver infranto il principio di non intervento, e di aver agito in seguito a pressioni esterne. D’altronde la comunità internazionale valuta l’intero quadro in maniera ambivalente: se da una parte l’ASEAN sembra aver agito unitamente per arginare la crisi, dall’altra si palesano evidenti divisioni interne. Oltre alle posizioni contrastanti sul Consensus, ciò che preoccupa è la relazione tra alcuni Stati membri e il Myanmar. La Thailandia ad esempio intrattiene legami con alte cariche dell’esercito birmano, giustificandole come un tentativo di dialogo costruttivo e rigettando nel contempo i rapporti con i rappresentanti degli organi democraticamente eletti. L’azione dell’ASEAN sembra quindi essere, per ora, un’abile mossa diplomatica atta a migliorare la propria immagine internazionale, contenere la situazione e attendere nel contempo che questa si stabilizzi. Di certo la decisione di escludere il generale Hlaing dal Summit porta con sé degli interrogativi: data la sua storica linea di indipendenza in politica estera, potrebbe il Myanmar uscire dall’ASEAN? La risposta potrebbe arrivare nel 2022, quando la guida dell’Organizzazione passerà proprio al Myanmar.
Leonardo Vittori
“Border Flag” by Anthony is licensed under CC BY-ND