Le recensioni del Caffè – La soia è diventata un elemento importante della politica diplomatica del Giappone. Il saggio “La via della soia” di Felice Farina cerca di analizzare questo aspetto.
GASTRONAZIONALISMO E GASTRODIPLOMAZIA
Il cibo non soddisfa soltanto i bisogni nutrizionali fondamentali agli esseri umani per sopravvivere ma permette anche di appagare un appetito che, come amava ripetere Lévi- Strauss, è innanzitutto simbolico. A causa di questo potere riconosciuto di generare sentimenti di legame nazionale tra la popolazione, il cibo è stato spesso sfruttato dai Governi di molti Paesi per perseguire specifici obiettivi. È nato così il fenomeno che la sociologa Michaela DeSoucey ha definito “gastronazionalismo”, ossia l’utilizzo mirato del cibo per delimitare e sostenere il potere emotivo dell’attaccamento alla nazione. La gastrodiplomazia, invece, può essere definita come una specifica politica statale finalizzata alla promozione della cucina locale all’estero e un modo per far conoscere l’identità nazionale attraverso la gastronomia. Per Paul Rockower, esperto di diplomazia, la gastrodiplomazia, è l’arte di “conquistare i cuori e le menti attraverso lo stomaco”.
Fig. 1 – La copertina del libro “La via della soia” di Felice Farina
IL GIAPPONE E LA GASTRODIPLOMAZIA
Il Giappone è probabilmente tra gli Stati che più di altri hanno sfruttato la patrimonializzazione del cibo per strategie gastronazionaliste e gastrodiplomatiche. In tali strategie, la soia occupa un posto di prim’ordine e, per certi versi più del riso, è l’elemento che contraddistingue la cucina nazionale giapponese. Il saggio “La via della soia” di Felice Farina, ricercatore e docente di Politica e istituzioni del Giappone contemporaneo presso L’Università degli studi di Napoli “L’Orientale”, ed edito da Cierre Edizioni, è un viaggio appassionante attraverso i secoli e i continenti, ripercorrendo le dinamiche economiche, politiche, diplomatiche responsabili di aver plasmato la storia della soia. Tali dinamiche hanno avuto come attore principale il Giappone che, in un primo momento, ha contribuito a favorire lo sviluppo della produzione del legume in Manciuria e, successivamente, negli Stati Uniti e in Brasile, Paesi diventati poi i principali esportatori di soia rispettivamente dopo la Seconda Guerra Mondiale e dopo gli anni Settanta. L’aspetto più interessante di tale processo storico è la grande capacità del Governo giapponese nell’essere riuscito a cogliere la doppia natura della soia, distinguendone il carattere puramente agroalimentare da quello di elemento culturale della propria gastronomia. Di fronte al vastissimo utilizzo del legume avvenuta negli ultimi anni, Tokyo ha provato a riappropriarsi del significato culturale e simbolico della soia, accentuandone il ruolo centrale nella tradizione gastronomica nazionale e provando così a restituirle un carattere identitario asiatico.
Oggi, i prodotti giapponesi a base di soia, dal tofu al miso, dalla salsa agli edamame, hanno invaso i ristoranti e i supermercati di tutto il mondo e hanno guadagnato un posto di tutto rispetto nelle diete quotidiane di moltissime persone in ogni angolo del pianeta. Non importa dove la soia sia materialmente coltivata, da dove arrivi e da chi venga commercializzata, quando si pensa al legume si pensa inevitabilmente anche al Giappone. La straordinaria diffusione dei ristoranti giapponesi in tutto il mondo, il Ministero dell’Agricoltura di Tokyo ne ha contati oltre 156mila nel 2019, e il successo di stili alimentari privi o a basso contenuto di carne, cui la soia è un ottimo surrogato, spiegano come mai molti nuovi consumatori abbiano familiarizzato con l’alimento.
Fig. 2 – La soia lavorata per divenire tofu
SOIA: CULTURAL FOOD FROM SOMEWHERE
Tuttavia, già ben prima della moda dei ristoranti di sushi e di ramen e della diffusione delle diete vegane e vegetariane, la soia era già tra le piante più coltivate al mondo e largamente utilizzata in moltissime forme, sia in agricoltura sia nell’industria. Dunque, il piccolo legume, da semplice elemento della dieta dei popoli dell’Asia orientale, è diventato una delle principali merci agroalimentari globali. In altri termini, la soia, da alimento dalla provenienza immediatamente riconoscibile, e quindi un classico esempio di food from somewhere, è diventato nel tempo un prodotto privo di confini definiti, ossia un emblematico caso di food from nowhere. Come spiega il saggio di Farina, proprio le strategie gastronazionaliste e gastrodiplomatiche hanno permesso al Giappone di riappropriarsi della soia e di trasformarla di nuovo e in maniera mirabile in un cultural food from somewhere.
Il risultato è che oggi, ogniqualvolta un consumatore avverte nella propria bocca il sapore inconfondibile dell’umami, dato proprio dalla soia e conosciuto anche come il quinto gusto, non può fare a meno di lasciarsi trasportare verso l’immaginario culturale nipponico.
Erminia Voccia
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