Caffè lungo – Un’operazione segreta dei Navy SEAL in Corea del Nord, fallita e mai confermata ufficialmente, riapre interrogativi sullo spionaggio statunitense e sulla scarsità di informazioni che circondano il regime di Pyongyang.
INTERVENTO SOTTO COPERTURA
Il 5 settembre 2025 il quotidiano statunitense New York Times ha pubblicato un articolo riguardante una fallita operazione d’infiltrazione da parte del DEVGROU (conosciuto come SEAL Team Six), il Gruppo Navale di Sviluppo Tecniche di Guerra Speciali degli Stati Uniti, in Corea del Nord. Condotta, secondo il giornale newyorchese, nei primi mesi del 2019, l’azione aveva il compito di installare un dispositivo di trasmissione in grado di intercettare potenziali informazioni circa la politica nucleare nordcoreana e le decisioni di Kim Jong-un in merito a quanto negoziato al vertice di Hanoi tra Pyongyang e Washington. Più nello specifico, la Casa Bianca era interessata alle opinioni della dirigenza nordcoreana sulla questione del disarmo atomico e sullo stato delle relazioni tra i due Paesi, che apparivano in quel momento in netto miglioramento. Grazie a un sottomarino nucleare, la squadra d’assalto si sarebbe avvicinata alla costa nordcoreana per mezzo di minisommergibili, con una parte degli operativi già giunta a terra e in procinto, probabilmente, di allacciare il dispositivo d’intercettazione, mentre un’altra parte della squadra aveva il compito di mantenere in funzione i sommergibili tascabili per ritornare successivamente al battello. Tuttavia, alcuni movimenti prodotti dai veicoli subacquei, come anche la loro illuminazione, insieme a una più generale serie di movimenti non ben organizzati tra gli uomini presenti, destò l’attenzione di una nave da pesca poco distante. Entrambi i gruppi del SEAL Team Red Squadron, temendo si trattasse di un’imbarcazione delle forze di sicurezza nordcoreane, decisero di ritirarsi e abbandonare la missione. Mentre il primo gruppo, giunto a terra, fece ritorno verso il sottomarino, il secondo decise di eliminare possibili testimoni assaltando il naviglio e uccidendo coloro che erano a bordo, esclusivamente civili. Nonostante operazioni ad alto rischio di questo tipo, ancor più se in regioni sensibili sotto il profilo nucleare, il Presidente Trump ha negato di conoscere il piano e di aver appreso i fatti il giorno della divulgazione dell’inchiesta. Allo stesso modo, gli uffici della Casa Bianca e del Pentagono non hanno commentato la vicenda. E, apparentemente, neanche gli organi d’informazione di Pyongyang, in particolar modo l’agenzia di stampa KCNA, hanno riportato la notizia o, quantomeno, la pubblicazione di un formale articolo di protesta.
Embed from Getty ImagesFig. 1 – Un’esercitazione dei Navy SEAL nel Mediterraneo
ALCUNE IPOTESI
Philipps Dave e Cole Matthew, i due giornalisti autori dell’indagine, non hanno svelato, per comprensibili ragioni di sicurezza, i dettagli riguardo a numerose informazioni, come le loro fonti, il luogo di interesse o il dispositivo di intercettazione che sarebbe stato impiegato. Ciò che si sa, però, è che le azioni compiute sono avvenute in una zona costiera e che l’obiettivo prefissato, da quanto è possibile leggere, non poteva essere situato a grande distanza dalla riva. Pertanto, è possibile supporre che la località in cui sarebbe dovuta essere installata l’apparecchiatura trasmittente avesse carattere prettamente militare o governativo, e dove Kim Jong-un sarebbe stato presente. Volendo conoscere ciò che Kim pensava riguardo agli incontri con le controparti statunitensi, è da contemplare la possibilità che i SEAL si siano recati in una delle località in cui sono presenti alcune residenze della famiglia Kim. Il posizionamento di una apparecchiatura di ricezione avrebbe potuto cogliere, verosimilmente, le discussioni della dirigenza nordcoreana lì presente, consentendo ai servizi di intelligence statunitensi di comprendere più a fondo la strategia diplomatica di Pyongyang attraverso informazioni di prima mano. In particolare, Wonsan, Nampo, Ragwon e Sinuiju sono alcune delle città o contee che ospitano residenze ufficiali dei Kim e si trovano, se non affacciate alla costa, nelle loro dirette vicinanze. Per di più, Wonsan e Nampo costituiscono centri commerciali marittimi estremamente rilevanti, mentre Sinuiju, al confine con la Cina, rappresenta un’importante zona di scambio tra i due Paesi, e a Ragwon ha sede un comando della Flotta del Mare dell’Est della Marina nordcoreana. In virtù del loro valore, è plausibile valutare la presenza di sistemi radar o di telecomunicazioni, distribuiti con particolare attenzione nelle aree sensibili del territorio nazionale, dai quali sarebbe possibile intercettare significativi flussi di dati. Inoltre, l’impiego di una delle squadre SEAL più attive nel campo dello spionaggio e delle operazioni coperte indica la volontà, da parte americana, di installare microspie in aree di specifico valore per il regime nordcoreano.
Embed from Getty ImagesFig. 2 – Le facce di Trump e Kim spiccano sulla prima pagina di un giornale sudcoreano nel 2018. All’epoca i rapporti tra Washington e Pyongyang sembravano attraversare una fase di netto miglioramento, poi svanita l’anno seguente
IL ‘BUCO NERO’ NORDCOREANO
Benché nei giorni successivi al fallimento dell’operazione sia stato riscontrato, attraverso fotografie satellitari, un aumento della presenza militare nell’area interessata, Pyongyang né prima né dopo ha rilasciato alcun tipo di dichiarazione a riguardo. Tale silenzio è forse dovuto all’evento in sé: confermare che soldati statunitensi siano giunti in territorio nordcoreano senza incontrare alcuna resistenza o presenza di forze militari, sebbene l’imponente apparato securitario, minerebbe il prestigio del Paese e la sua retorica di fortezza impenetrabile. È anche credibile che la Corea del Nord non voglia comunicare pubblicamente l’evento per poterlo utilizzare poi in futuri tavoli negoziali, consolidando così la pretesa del possesso dell’arma nucleare come garanzia per attività o azioni da parte di attori esteri sul proprio territorio. In ogni caso, non si tratta della prima operazione sotto copertura effettuata da Washington nel Paese asiatico. Durante e dopo la Guerra di Corea, gli Stati Uniti, insieme alla Corea del Sud, effettuarono l’inserimento di oltre 10mila agenti in tutta la Corea del Nord, senza tuttavia particolare successo, dato che solo 2mila riuscirono a tornare. Negli anni Sessanta, stando ad alcuni rapporti sudcoreani, le attività di spionaggio proseguirono sotto l’egida della CIA, che confermò le difficoltà di penetrazione in territorio nordcoreano. Più di recente, durante la sua prima Amministrazione, Trump ereditò da Obama un programma di cyberwarfare contro i test missilistici nordcoreani, con qualche successo. La pubblicazione dell’inchiesta potrebbe però aver complicato la situazione. Appare difficile che Pyongyang non sia venuta a conoscenza della vicenda, ed è plausibile che, in futuro, come già evidenziato, possa strumentalizzare l’evento a suo favore. Inoltre, la replica di simili operazioni non appare più percorribile, almeno con uomini e mezzi sul campo, dato che anche l’opzione di un’infiltrazione tramite fasce marittime, ritenute certamente più vantaggiose rispetto al confine con la Cina e alla zona demilitarizzata (DMZ), si è rivelata estremamente complessa. Secondo alcuni l’attuale presidenza Trump potrebbe riproporre iniziative di questo tipo in futuro, ma ciò rende ancor più evidente come Washington, malgrado le grandi capacità di elaborazione e analisi dei dati, oltre alla presenza di alcune tra le più efficienti ed efficaci agenzie di spionaggio e intelligence, continui a considerare Pyongyang “un buco nero” di informazioni, rendendo ancor più difficile orientare la propria strategia diplomatica verso la Corea del Nord. Una situazione che, purtroppo, sembra destinata a protrarsi a lungo.
Tommaso Tartaglione
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