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Il piano Kushner per la risoluzione del conflitto palestinese

In 3 sorsi – Gli Stati Uniti puntano sull’economia per risolvere il conflitto palestinese. L’occupazione israeliana, l’instabilità politica palestinese e il cattivo tempismo della proposta sembrano indicare però che questo non sarà possibile.

1. LA PROPOSTA AMERICANA

Il conflitto fra israeliani e palestinesi dovrebbe essere a una svolta, dopo che l’Amministrazione Trump ha dichiarato di aver individuato un “piano per la pace” in Medio Oriente, ma la realtà sul campo è ben più complessa. Jared Kushner, Senior Advisor e genero di Donald Trump, ha pubblicato a fine giugno 2019 il cosiddetto Deal of the Century. Si tratta di un documento di 40 pagine che ha tre obiettivi principali:

  1. Far esprimere a pieno il potenziale economico palestinese: la proposta intende creare un ambiente imprenditoriale adatto per accogliere gli investimenti esteri, dando maggior valore alla qualità dei prodotti palestinesi. 
  2. Sostenere lo sviluppo del popolo palestinese: parte centrale della visione americana è di supportare il popolo palestinese attraverso l’istruzione, lo sviluppo della forza lavoro e una migliore qualità della vita.
  3. Migliorare la governance palestinese: la proposta vuole aiutare il settore pubblico palestinese a fornire i servizi e l’amministrazione necessari affinché l’economia palestinese possa prosperare.

A detta di Kushner, il piano necessiterà di 50 miliardi di dollari (28 miliardi ai palestinesi e i restanti 22 miliardi da ripartirsi fra Egitto, Giordania e Libano) da investire in 179 progetti nei settori agricolo, turistico e manifatturiero, oltre che per le infrastrutture. Tuttavia saranno diversi donatori e investitori privati e pubblici che dovranno decidere se scommettere o meno sul piano per la pace. A tal proposito, il 25 e il 26 giugno Kushner ha tenuto una conferenza in Bahrein per sponsorizzare il proprio piano economico davanti a diversi investitori privati e pubblici internazionali. La conferenza stile TED Talk, però, non ha ottenuto il successo previsto. Per questo, all’inizio di agosto, Kushner si trovava di nuovo in Medio Oriente per sostenere il proprio peace plan e attrarre capitali stranieri attraverso un “viaggio promozionale” in Arabia Saudita, Giordania, Israele, Egitto e Marocco.

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Fig. 1 – Dimostranti palestinesi con le loro bandiere durante uno scontro con le forze israeliane a sud di Gaza, 25 ottobre 2019

2. UNA REALTÀ SUL CAMPO BEN DIVERSA

La fattibilità del piano di pace, però, sembra venir meno se si considerano due fattori centrali nell’economia del conflitto arabo-palestinese: l’occupazione israeliana e la sostenibilità politica dello Stato di Palestina.

  1. L’occupazione israeliana: a tutti, tranne per l’attuale Amministrazione Trump, sembra chiaro che l’occupazione israeliana sia il principale ostacolo per un corretto sviluppo dell’economia palestinese. Infatti il modello di attività economica testimoniato oggi nei Territori Occupati è il risultato diretto delle politiche israeliane che hanno creato dipendenza dal mercato del lavoro e dai beni di Israele. In media durante i 52 anni di occupazione, l’80% e il 90% delle importazioni ed esportazioni palestinesi si sono spostati rispettivamente da e verso l’economia israeliana. Le proposte di Kushner per il rinvigorimento dell’economia palestinese, limitata dall’occupazione israeliana e totalmente dipendente dal mercato israeliano, non sembrano quindi realistiche con queste condizioni.
  2. Sostenibilità politica: oltre a un problema di sostenibilità economica, c’è anche la questione della capacità politica dello Stato palestinese di assorbire le misure di governance proposte dal peace plan. La leadership politica dell’Autorità Palestinese (AP) è sempre stata francobollata come debole, corrotta e non rappresentativa della popolazione, mai capace di imporsi contro la forza di Israele. Piuttosto, il brusco trasferimento di responsabilità verso l’AP ha portato a un nuovo tipo di dipendenza dagli aiuti internazionali, che ha provocato un’ondata di politiche neoliberiste, bolle del credito e continui episodi di corruzione interna che hanno ulteriormente affossato la situazione economico-sociale dei palestinesi.

Analizzare in questi termini il piano di pace americano offre quindi uno scenario ben diverso e rende utopiche le proposte di Kushner, che non affrontano i problemi, ma li eludono.

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Fig. 2 – La proteste a Gaza anti-israeliane per la fine dell’assedio da parte degli israeliani al confine a sud di Gaza, 25 ottobre 2019

3. CONSIDERAZIONI FINALI

Secondo buona parte della stampa internazionale e le opinioni di diversi analisti, quindi, la proposta americana si è rivelata un fallimento e non ha alcuna possibilità di risolvere il conflitto fra Israele e Palestina. L’altra grande critica, insieme a quella relativa all’occupazione israeliana, riguarda il tempismo della proposta.
Il peace plan è stato pubblicato poco prima delle nuove elezioni presidenziali israeliane di settembre e si andrà a scontrare con l’inizio del ciclo elettorale presidenziale americano prima del voto del 2020. Israele non si è voluto sbilanciare troppo sulla proposta, per lasciare l’onere delle trattative all’Amministrazione Trump e non creare nei palestinesi ulteriori motivi di risentimento dopo le problematiche affermazioni di Netanyahu. Gli Stati Uniti non vogliono, dal canto loro, esporsi troppo sul tema in questo momento. Dovendo già affrontare due fronti caldi, quali la questione iraniana e quella curda, Trump non ha intenzione di trovarsi in un nuovo vortice politico e diplomatico che ne farebbe scendere ulteriormente il consenso prima delle elezioni.
È reale, pertanto, la prospettiva che l’idea di Kushner di pubblicare (necessariamente) la seconda parte del peace plan – quella politica – non veda mai la luce. E senza di essa la proposta economica non avrebbe più valore.

Paolo Sasdelli

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Paolo Sasdelli
Paolo Sasdelli

Bolognese di nascita, giro l’Europa per studio e lavoro. Laureato in Lettere Classiche all’UNIBO (prima grande passione), ho frequentato due master in Relazioni Internazionali ed in Politiche Europee al King’s College London e alla London School of Economics. Ora mi occupo di affari europei a Bruxelles. Le opinioni espresse negli articoli sono quelle dell’autore e non rispecchiano (necessariamente) quelle di FiscalNote, Inc.

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