In 3 sorsi – Gli attacchi sferrati per mezzo di droni il 14 settembre scorso contro le raffinerie petrolifere del colosso Saudi Aramco, rivendicati dal gruppo armato Houthi e più ampiamente attribuiti all’Iran, alimentano le tensioni nella penisola arabica. Ma nonostante il rilievo e la gravità degli avvenimenti nessuno sembra intenzionato a creare un’escalation con Teheran.
1. GLI ATTACCHI DEL 14 SETTEMBRE TRA RIVENDICAZIONI, SMENTITE E SILENZIO
Sono in corso accertamenti investigativi internazionali sulle origini degli attacchi che hanno colpito le due critiche raffinerie di Abqaiq e Khurais nella parte nord-orientale dell’Arabia Saudita, ma dalle prime verifiche non sembra emergere un quadro chiaro. Alcuni membri della comunità internazionale hanno così potuto screditare le rivendicazioni Houthi in assenza di prove “credibili e convincenti”. Ad esempio il Segretario di Stato americano Michael Pompeo ha prontamente condannato l’Iran, individuando nel Paese il responsabile dell’attacco descritto come un “atto di guerra”.
Sebbene anche l’Arabia Saudita abbia accertato la fabbricazione iraniana dei 10 droni che hanno colpito le cisterne petrolifere, il Paese guidato da Mohammed Bin Salman (MBS) non si è spinto oltre il puntare il dito contro l’Iran. È possibile che questa cautela indichi una volontà di Riad di aprirsi al dialogo con Tehran anziché creare un’escalation. Da indiscrezioni provenienti dal New York Times, Riad avrebbe infatti chiesto a Iraq e Pakistan di incrementare gli sforzi di mediazione con l’Iran. È altresì plausibile che la monarchia saudita semplicemente non voglia riconoscere la legittimità degli Houthi, né ammettere la propria vulnerabilità nei confronti dei ribelli contro i quali è militarmente impegnata da quattro anni per appoggiare il Governo internazionalmente riconosciuto di Aden.
Fig. 1 – Sostenitori Houthi in una marcia per il quinto anniversario della conquista della capitale Sana’a, 21 settembre 2019
2. DRONE DIPLOMACY: UN CONFLITTO CHE GRIDA TREGUA
A breve distanza dall’attacco del 14 settembre, gli Houthi hanno dichiarato di aver catturato 2mila soldati sauditi in un’offensiva mirata a un convoglio nel nord del Paese. È plausibile che gli Houthi stiano mostrando le loro capacità militari per avere una leva maggiore nella prospettiva di un eventuale tavolo negoziale con l’Arabia Saudita per risolvere un conflitto che sembra essere arrivato a uno stallo per ambe le parti. La consegna di 300 soldati, di cui 3 sauditi, alle Nazioni Unite il 1° ottobre è stato senza dubbio un atto di apertura. Anche il ritiro degli Houthi dal porto strategico di Hodeida (preso a caro prezzo), negoziato con la Commissione ONU attenendosi alle linee tracciate dai colloqui di Stoccolma, è stato un passo per accreditarsi come interlocutori affidabili.
Embed from Getty ImagesFig. 2 – Sostenitori Houthi durante una manifestazione contro la guerra in corso, Sana’a, 4 ottobre 2019
3. RAPPORTI DI FORZA E SFERE DI INFLUENZA
Oltre a queste considerazioni, andrebbe visto anche il lato geopolitico della medaglia.
La vicinanza iraniana alle milizie di fede sciita fa di loro un problema di primo rilievo per la sicurezza nazionale saudita, per il rischio di un accerchiamento sciita con Hezbollah a nord, l’Iran a est e lo Yemen a sud. Questa preoccupazione deriva dalla volontà di Riad di affermare la propria visione dell’Islam politico sunnita contrapposta a quella sciita sostenuta dall’Iran, una dinamica che caratterizza la contesa per l’influenza nella regione tra queste due potenze. Anche gli Stati Uniti vedono gli attacchi dei droni come una sfida lanciata verso di loro. Oltre a percepire gli Houthi come una minaccia contro un suo alleato ferreo, Washington considera l’influenza iraniana a favore dei ribelli come un’estensione della proiezione militare di Teheran, valutata di natura destabilizzatrice e aggressiva nella regione. Questo è diventato un mantra da quando il Presidente Trump ha fatto ritirare gli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare (JCPOA) e ha applicato contro l’Iran pesanti sanzioni per attanagliare il Paese nella strategia di “massima pressione”.
In ultima analisi, ciò che si può estrapolare dagli attacchi del 14 settembre è che essi hanno costituto una escalation di violenza tra Houthi e Arabia Saudita. Emerge anche l’apparente vulnerabilità difensiva dell’Arabia Saudita nel contenere attacchi nel cuore geografico del proprio territorio, oltre che il suo progressivo isolamento politico, come emerso dalle azioni divergenti adottate da Abu Dhabi negli scorsi mesi. Trapela tuttavia da questo evento, e dal conflitto più in generale, l’evidente conflittualità tra Usa-Iran che dovrà essere mitigata se non si vuole rischiare di accentuare l’instabilità nel Medio Oriente.
Giorgio Trichilo