Ristretto – 31 marzo 1968: Lyndon Johnson annuncia in televisione che non si ricandiderà per le elezioni presidenziali di novembre. È la fine drammatica di una delle presidenze più controverse nella storia degli Stati Uniti, iniziata con grandi speranze di cambiamento sociale e terminata con l’orrore della guerra in Vietnam.
Nato a Stonewall, in Texas, Johnson è un politico di lungo corso e ha guidato la rappresentanza del Partito Democratico in Senato sin dai primi anni ’50. La sua personalità carismatica e la sua indubbia abilità politica lo rendono presto un potenziale candidato per la presidenza, ma nel 1960 il successo schiacciante di John F. Kennedy nelle primarie distrugge le sue speranze per la nomination democratica. Kennedy però lo sceglie come candidato per la vice-presidenza, cosa che garantisce al ticket democratico il voto cruciale degli Stati del Sud nella sfida finale contro Richard Nixon. Ma la vittoria non sana il contrasto politico e personale tra i due uomini, con Johnson che tenta ripetutamente di rafforzare il suo ufficio di Vice-Presidente a scapito della Casa Bianca. D’altra parte, Kennedy e i suoi collaboratori più stretti non nascondono il loro disprezzo verso il senatore texano, affidandogli spesso incarichi di mera rappresentanza o spedendolo in missioni diplomatiche all’estero per sbarazzarsi della sua fastidiosa presenza. Nel 1963 le accuse di corruzione a Bobby Baker, amico e consigliere di Johnson, mettono in dubbio il futuro politico del Vice-Presidente, ma Kennedy sembra comunque deciso a tenerlo come “running mate” per la campagna elettorale dell’anno successivo. I drammatici eventi di Dallas cambiano però tutto: di colpo Johnson si ritrova infatti a capo di un Paese traumatizzato dall’omicidio di Kennedy e alla prese con difficili sfide sia interne che esterne. E si dimostra sorprendentemente duttile e capace nei suoi nuovi doveri presidenziali, collaborando con successo con molti consiglieri del suo predecessore e dando nuova forza al programma riformistico portato avanti dopo la vittoria elettorale del 1960.
In particolare, Johnson mette tutto il suo peso politico a sostegno della legislazione per i diritti civili degli afroamericani e delle altre minoranze etniche, che Kennedy aveva già cercato di far passare inutilmente durante gli ultimi mesi della sua vita. La scelta del Presidente non è dettata solo da ragioni di prestigio personale, ma anche dalle sua fervida fede cristiana e da ideali di giustizia sociale maturati all’epoca della presidenza Roosevelt. Grazie a spregiudicate tattiche parlamentari e alle manifestazioni del movimento popolare guidato da Martin Luther King Jr., con cui Johnson ha una relazione piuttosto difficile, il Congresso approva finalmente il Civil Rights Act nella primavera del 1964 e la Casa Bianca lo trasforma in legge alcuni mesi più tardi, dando un grosso contributo alla trionfale rielezione del Presidente in autunno. Johnson conquista infatti quasi tutti gli Stati dell’Unione, ad eccezione di alcuni nel Sud, e ottiene un vasto mandato popolare per proseguire sulla strada delle riforme sociali. Questo mandato si traduce nell’ambizioso progetto della “Great Society”, ovvero una serie di misure legislative e investimenti statali volti a diminuire la povertà e a migliorare la qualità della vita del popolo americano. Vengono raddoppiate le spese federali per l’istruzione, ad esempio, e viene lanciato un programma di assicurazione sanitaria nazionale (Medicare) a sostegno di anziani, disabili e altri soggetti vulnerabili. Inoltre il Voting Rights Act del 1965 garantisce il diritto di voto degli afroamericani e delle altre minoranze, infliggendo un colpo mortale al vecchio sistema segregazionista del Sud.
Ma i piani di Johnson per un’America più giusta si infrangono rapidamente sullo scoglio della guerra in Vietnam, perseguita ossessivamente dal Presidente e basata su una grave incomprensione della realtà socio-politica del Paese asiatico. Prigioniero degli schemi mentali della guerra fredda, il Presidente sostiene una netta escalation militare in Vietnam che va molto oltre gli interventi limitati dei suoi predecessori e che finisce per polarizzare l’opinione pubblica americana, dando vita a proteste e scontri violenti nelle strade. Inoltre questa escalation non è accompagnata da una strategia politica chiara, cosa che rende vani i successi tattici riportati dalle forze USA contro vietcong e nordvietnamiti. Le contraddizioni esplodono rovinosamente con l’Offensiva del Tet nel gennaio 1968: nonostante il sostanziale fallimento degli attacchi vietcong, l’umiliazione pubblica di Washington è così marcata da scatenare la rabbia popolare e da rendere insostenibile il proseguimento della guerra a Saigon. Alla fine lo stesso Johnson è costretto a gettare la spugna, annunciando in diretta televisiva le prime mosse per il disimpegno dal Sud-est asiatico e la fine della propria carriera politica. Ma la tragedia americana in Vietnam continuerà ancora per diversi anni, oscurando l’eredità del Presidente e delle sue riforme sociali.
Simone Pelizza
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