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Il ‘no’ in Scozia: verso un nuovo Regno Unito?

Niente da fare per gli indipendentisti scozzesi: il 55% degli elettori ha scelto di restare nel Regno Unito. A incidere l’aggressiva campagna per il ‘sì’ e i timori per l’eventuale condizione economica di Edimburgo. Adesso la responsabilità passa sulle spalle di Londra, che deve rispettare gli impegni presi per una maggiore autonomia della Scozia e cominciare a riflettere sul futuro dello Stato.

INTRODUZIONE – Nell’Italia dei sondaggisti – ancor prima che dei sondaggi – in molti staranno annuendo solennemente di fronte alle notizie sul referendum scozzese, convinti di aver indovinato un esito quasi scontato. Tuttavia, nonostante le previsioni della vigilia (poi rivelatesi corrette), nel Regno Unito i risultati della consultazione non erano poi così sicuri, soprattutto quando, a inizio settembre, i dati parlavano dei “sì” in vantaggio. A spaventare era la tendenza: i sostenitori dell’indipendenza scozzese stavano lentamente riducendo la distanza rispetto alla controparte, mostrando una maggiore aggressività mediatica e una più efficace pervasività tra la popolazione. E non è un caso che la regina Elisabetta abbia invitato i cittadini a «pensare bene» a cosa scegliere nell’urna, oppure che lo stesso Barack Obama sia intervenuto nel dibattito augurandosi l’unità del Regno. La partita giocata in Scozia, infatti, aveva un’ampia rilevanza internazionale, poiché una vittoria degli indipendentisti avrebbe condotto a scenari assai complessi, incoraggiando i gruppi separatisti di tutta Europa a tentare una strada analoga. Senza contare che le origini della consultazione potrebbero essere più nella trasposizione ideologica della crisi economica che nella storia dei rapporti tra Inghilterra e Scozia.

Scozia 1I RISULTATI – L’esito del referendum è netto: 55% per il “no”, ossia a favore della permanenza della Scozia nel Regno Unito. La percentuale è molto superiore alle aspettative, nonostante, di fatto, sia quella emersa da più parti poche ore prima della consultazione. I sondaggi di inizio settimana riportavano “no” e “sì” rispettivamente a 50% a 45%, con cinque punti ancora in ballo. Notevole è stata l’affluenza all’84,5%, ma in alcune zone si è raggiunto addirittura il 100%, cifre che alla chiusura dei seggi rassicuravano gli unionisti di Better Together. Secondo gli osservatori la campagna degli indipendentisti è stata così ampia e pervasiva che gli elettori sono stati propensi a non dichiarare apertamente la preferenza per Londra, rendendo quindi più incerte le rilevazioni – nota a margine: i sondaggisti britannici ieri sera hanno affermato che i metodi impiegati per le statistiche dovranno essere rivisti per il futuro. Su Twitter, addirittura, alcuni attivisti del “no” parlavano di decine di cittadini che fuori dal seggio strizzavano loro l’occhio in silenzio. Al momento della chiusura delle operazioni di voto, YouGov ha reso pubbliche le proprie valutazioni: il “sì” avrebbe raggiunto massimo il 46%, con un calo a ridosso della giornata di ieri, e la vittoria del “no” era certa al 99%. Un buon oracolo. Mentre dalla Scozia settentrionale arrivavano notizie di ritardi nello scrutinio, soprattutto a causa della nebbia che impediva lo spostamento delle schede, lo sguardo degli addetti ai lavori era rivolto da un lato ad Aberdeen, dove il “no” stava avanzando (59%), dall’altro a Dundee, definita «Yes City», laddove i numeri sotto le aspettative per i “sì”, fermi al 57%, hanno anticipato il risultato finale. Constatato il 53,5% degli indipendentisti a Glasgow, il 60% di “no” a Edimburgo ha sancito la definitiva sicurezza della vittoria degli unionisti: «Accettiamo il risultato e riconosciamo la scelta democratica degli elettori. – Ha detto il premier scozzese Alex Salmond. – Adesso tutta la Scozia chieda che le promesse di Londra siano onorate».

CHE COSA ACCADRÀ ADESSO? – Secondo le malelingue e gli scettici niente. In realtà, dopo un evento del genere, difficilmente tutto potrà restare così com’è. Anche perché Londra si è esposta notevolmente, affermando che in caso di vittoria di Better Together Edimburgo avrebbe goduto di una maggiore autonomia. I tre principali leader britannici, ossia il premier conservatore David Cameron, il liberaldemocratico Nicholas Clegg e il laburista Ed Miliband sono stati piuttosto compatti nel difendere l’unità del Regno e nel promettere l’avanzamento del processo di devolution: disattendere gli impegni non sarebbe conveniente, soprattutto perché gli indipendentisti hanno descritto la politica londinese proprio come un unico grande comitato d’affari che pretende di dirigere dall’alto la Scozia con misure neoliberali e storicamente anti-scozzesi. In realtà, i partiti britannici potrebbero subire contraccolpi devastanti qualora non mantenessero i patti con Edimburgo. Cameron, per esempio, perderebbe di credibilità davanti all’opinione pubblica sia interna (sono vivi i dibattiti sul referendum per l’uscita dall’UE e sul futuro di Galles e Irlanda del Nord), sia europea. Miliband, invece, deve fare i conti con una base laburista traversata da forte simpatia per la causa indipendentista e con la consapevolezza che il partito, senza la Scozia – storicamente fedele al Labour – avrebbe perso gran parte della propria forza. Il tutto a meno di un anno dalle elezioni politiche, con l’Ukip di Farage (che ha chiesto ai parlamentari scozzesi a Westminster di non votare più su questioni inglesi) in perenne rincorsa e la dimostrazione che il fronte indipendentista unisce il 45% della popolazione scozzese.
La devolution proseguirà, pertanto, sia con l’attuazione di misure già approvate, sia con l’ampliamento dei poteri del Parlamento di Edimburgo, soprattutto in merito a politiche sociali, servizio sanitario e poteri d’imposizione fiscale. Attenzione, però: prescindendo dal risultato, il referendum in Scozia è un evento che potrebbe radicalmente modificare la Gran Bretagna. Intervenendo ieri notte alla BBC, il noto storico britannico Peter Hennessy è stato molto diretto: «Il Regno Unito sarà un Paese diverso comunque vada a finire la consultazione. La questione inglese è da tempo un borbottio, ma presto diventerà un ruggito». Negli stessi minuti alcuni esponenti politici in Galles e Irlanda del Nord dichiaravano che ormai i tempi siano maturi per la ripresa del processo di devolution nelle rispettive regioni. Non è da escludersi quindi che il Regno Unito debba nel medio periodo confrontarsi con una riforma strutturale del proprio assetto costituzionale, andando a intervenire con misure che – di fatto – potrebbero del tutto alterare lo Stato che adesso conosciamo. Per di più, la permanenza di Edimburgo nel Regno potrebbe paradossalmente giovare al contrasto delle spinte euroscettiche in Gran Bretagna, considerato che tra le garanzie chieste dagli scozzesi per riaffermare l’unità con Londra ci sarà anche una convinta azione in àmbito UE. Qualora la Scozia fosse diventata indipendente, infatti, avrebbero probabilmente avuto un rapido sviluppo le idee antieuropeiste radicate nell’elettorato conservatore inglese, con netto vantaggio per i fautori dell’uscita di Londra dall’UE e per quei movimenti secessionistici o indipendentisti che avrebbero tratto insegnamento da una vittoria o da una sconfitta risicata dello Scottish National Party.

Il primo ministro scozzese Alex Salmond
Il primo ministro scozzese Alex Salmond

PERCHÉ HA VINTO IL ‘NO’? – Le motivazioni sono molteplici. Innanzitutto una premessa. Fino ad agosto i “no” erano in netto vantaggio, ma la tendenza si è invertita nell’ultimo mese, con dati che riportavano un sorpasso nella prima settimana di settembre. L’effetto, probabilmente, non è stato dissimile dal referendum in Québec (1995), con gli elettori che sono stati mossi dall’entusiasmo fino al momento di entrare nell’urna. Tuttavia non è da escludersi che l’incessante campagna a ogni livello degli indipendentisti scozzesi abbia convinto molti sostenitori di Better Together a non esporsi troppo. Riprendendo le parole di Peter Kellner, presidente di YouGov, «chi ha votato ‘no’ era molto più spaventato dall’indipendenza rispetto a quanto fosse spaventato dallo status quo chi ha votato ‘sì’». In effetti, gli scenari di una nuova Scozia non erano tra i più rassicuranti. Nel breve periodo l’economia del Paese avrebbe potuto trarre alcuni benefici, ma già nel medio periodo le criticità sarebbero emerse rapidamente. Secondo il premier Salmond, per esempio, Edimburgo avrebbe potuto continuare a usare una sterlina collegata a tasso fisso con la sterlina britannica: un’ipotesi che la Banca d’Inghilterra aveva esplicitamente respinto, anche perché le riserve valutarie scozzesi sarebbero state piuttosto esigue. Oltretutto, oggi la Scozia può contare su un costante sovvenzionamento della propria spesa pubblica – soprattutto sanitaria, sociale e scolastica – proveniente da Londra, ma con l’indipendenza il nuovo Paese avrebbe dovuto provvedere da solo a tenere contenuto il debito, con la necessità di drastici tagli o elevati aumenti della tassazione. Senza dimenticare che si sarebbero potuti verificare un aumento rapido dei prezzi dovuto alla mutata gestione della distribuzione da parte delle aziende britanniche e una fuga generale dei capitali, tendenza della quale si sono avuti alcuni esempi già nella settimana del voto – la stessa Royal Bank of Scotland ha annunciato di essere pronta a trasferire la sede in Inghilterra. Tentiamo di fornire qualche dato: a fronte di un debito britannico di circa 1.300 miliardi di sterline, la Scozia avrebbe dovuto farsi carico di una parte di tale debito compresa tra 104 e 143 miliardi di sterline. Ci sarebbe poi stato il problema del posizionamento internazionale: la Scozia sarebbe entrata nell’Unione europea? Secondo Salmond non ci sarebbero stati problemi per la procedura di ammissione, ma la realtà sarebbe potuta essere diversa, perché non sarebbe stata per niente scontata l’assenza di veti da parte dello stesso Regno Unito, dei Paesi che hanno problematiche interne con i separatisti (per esempio la Spagna e il Belgio) o della Germania, che male avrebbe accettato la situazione economico-finanziaria di Edimburgo. Discorso analogo per l’eventuale adesione della Scozia alla NATO, considerato che vicino a Glasgow si trova la base dei sottomarini nucleari del programma Trident, cosicché l’ingresso delle nuove Forze Armate nell’Alleanza sarebbe stato un passaggio quasi obbligato, nonostante gli indipendentisti critichino anche le servitù militari decise da Londra.
Queste sono forse le maggiori motivazioni che hanno spinto gli scozzesi a restare nel Regno Unito (soprattutto le donne, che pare abbiano votato in maggioranza per il “no” – appunto interessante). A dominare è stata la testa, piuttosto che il cuore. Ovviamente anche Londra avrebbe avuto i propri enormi svantaggi, a cominciare dalla perdita di circa il 10% del PIL, però difficilmente le valutazioni dei danni alla controparte hanno gravato sulle scelte degli elettori.

Il castello di Edimburgo
Il castello di Edimburgo

UN TENTATIVO DI INTERPRETAZIONE – Proviamo a pensare adesso che lo “scontro” elettorale tra Scozia e Regno Unito sia su un altro versante. Dei dati economici si può parlare, anche perché non è da escludersi a priori che Edimburgo, con un’oculata gestione degli accordi monetari e l’attuazione di politiche di scala in un mercato medio-piccolo integrato in àmbito europeo, potesse realizzare un mezzo miracolo. Il referendum sull’indipendenza potrebbe non tanto derivare solo dalla secolare storia che ha unito Scozia e Inghilterra, quanto essere un’ennesima scossa di assestamento della crisi di questi nostri anni Dieci. Provando a innalzare l’immagine della consultazione elettorale a un livello macro, emerge che sulla scheda ci fossero due diverse visioni della Scozia che corrono lungo il Vallo di Adriano. Tra il “sì” e il “no” transitano concezioni valoriali diverse dello Stato (Country, State, Nation?) e della costruzione della società/comunità. Basti pensare alle differenze tra le politiche scolastiche e sanitarie a Edimburgo e Londra: investire nel Sistema sanitario nonostante i debiti o procedere con le privatizzazioni? Ecco, se da un lato l’Inghilterra sta diventando sempre meno equa, dall’altro lato la Scozia ha potuto mantenere un’alta spesa pro-capite grazie ai trasferimenti dello Stato centrale. Gli indipendentisti scozzesi miravano a interrompere il decisionismo britannico, caratterizzato da politiche neoliberali, ma, al contrario di altri attori del regionalismo, il progetto prevedeva il percorso europeo.
Adesso, comunque, la Scozia è di fatto divisa in due (55-45), sebbene non si tratti di una ripartizione meramente ideologica. Ci sono stati interessanti commenti di indipendentisti che hanno scelto il “no”, tra i quali quello di Henry McLesih, già Primo Ministro scozzese, che si è definito «a reluctant NO voter»: «Sono stato fortemente infastidito dalla campagna di paura e terrore del comitato del ‘no’. C’è un’antica parola scozzese, thrawn, cioè più si dice alle persone che non possono fare qualcosa, più loro sono propense a dire: ‘Potrei volerlo fare’».
Per il Regno Unito comincia forse una sfida ancora più difficile rispetto alla fuoriuscita di Edimburgo, perché adesso si tratta di riflettere seriamente su come costruire il futuro assetto britannico, a cominciare dai rapporti con Galles e Irlanda del Nord. La priorità non è più fronteggiare un’emorragia, bensì donare nuova salute all’organismo in generale.
Come recita un proverbio scozzese: chi vuole il miele, non tema le api.

Beniamino Franceschini

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Beniamino Franceschini
Beniamino Franceschini

Classe 1986, vivo sulla Costa degli Etruschi, in Toscana. Laureato in Studi Internazionali all’Università di Pisa, sono docente di Geopolitica presso la Scuola Superiore per Mediatori Linguistici di Pisa. Mi occupo come libero professionista di analisi politica (con focus sull’Africa subsahariana), formazione e consulenza aziendale. Sono vicepresidente del Caffè Geopolitico e coordinatore del desk Africa.

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