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Qui si fa l’Europa o si muore

L’Europa è giunta al momento di decidere cosa vuol fare da grande. Innanzitutto, deve decidere se vuole diventare grande, o accontentarsi di rimanere una grande area di libero scambio e poco più, un insieme di Stati che per mantenere le proprie prerogative non creano altro che una piccola unione sempre più alla periferia del mondo. Ecco i punti cruciali del cammino dell’Europa, chiamata rapidamente a una grande svolta se non vuole rischiare di auto-condannarsi a scenari tutt’altro che positivi

INDOVINA CHI VIENE A CENA – Ieri sera si sono ritrovati a tavola Georges Papandreou – il premier greco deciso con una mossa kamikaze a mettere ai voti tramite referendum gli aiuti europei alla Grecia – assieme ad Angela Merkel e il suo fedele scudiero Sarkozy, oltre che agli esponenti istituzionali dell’Unione Europea Josè Manuel Barroso e Herman Van Rompuy e Christine Lagarde (Fondo Monetario Internazionale). Più che una cena, una commissione d’esame. Oggi si replica con Italia e Spagna sedute al posto dell’esaminando. Sono ore cruciali per il futuro dell’Europa. Tutte le incognite, in realtà, stanno all’interno di questa affermazione. Quale futuro, e per quale Europa? In attesa di conoscere gli eventi in queste ore, ci pare opportuno fare il punto su alcune questioni semplicissime, che vanno però sottolineate. Senza pretese di analisi esaustive in poche decine di righe, tralasciando aspetti legati alla cronaca su aiuti, modalità di affrontare la crisi e quant’altro, vogliamo qui considerare alcune questioni basilari e cruciali dello stato di salute dell’Unione Europea.

L’OTTAVO NANO – L’Europa di oggi… che cos’è? La definizione dell’Europa “gigante economico, ma nano politico e ancor più militare” ricalca bene il senso di impotenza che si percepisce nelle ultime settimane. L’allargamento dell’Unione, sino ad arrivare ad una Europa dei 27, ha trasformato l’Unione Europea in una grande area di libero scambio, e poco più, senza integrazioni più profonde sul piano politico. E senza una volontà di andare oltre, attualmente tutt’altro che percepita, si tradisce – e lo si sta facendo – lo spirito dei padri fondatori dell’Europa unita.

IN EUROPA CON UN PIEDE SOLO – Al di là di questo, il punto chiave è che gli Stati europei si sono resi disponibili a cedere delle quote di sovranità solo fino ad un certo punto. Nel momento in cui serviva fare lo scatto decisivo, quello capace di costituire veramente un’Unione forte e protagonista nello scenario mondiale, è mancato il coraggio del passo in più, della visione di lungo periodo. Senza arrivare allo scenario “estremo” degli Stati Uniti d’Europa, è però evidente come nel momento in cui sono nate occasioni per far crescere davvero l’Europa (e questa crisi nascondeva in sé una di queste occasioni), chi doveva lanciarsi in avanti è tornato a preservare in ogni modo le sue prerogative nazionali. Facciamo degli esempi concreti.

IL PROBLEMA “MERKOZY” – Un’Europa commissariata dalla premiata ditta Merkel-Sarkozy a noi non piace. E non certo perchè non piaccia a noi italiani che ci siano dei francesi o dei tedeschi che ci dicano cosa fare. Non è questione di nazionalità, è che questa non è Europa. Le istituzioni europee, in una delle fasi cruciali della storia dell’Unione, sono in secondo piano rispetto al ruolo di due degli Stati più forti dell’Europa (senza contare che sull’effettiva forza della Francia bisognerebbe discutere a lungo). E questo di certo non fa bene al cammino dell’Europa unita. C’è da dire inoltre che questa situazione è anche figlia della decisione di nominare un “funzionariotto” sconosciuto ai più come Van Rompuy, livello di personalità pari allo zero, a Presidente del Consiglio Europeo (per non parlare del fallimento del progetto di una politca estera europea in comune impersonificato da Lady Catherine Ashton). Tanto per fare il nome di un candidato del tempo ben più autorevole, piaccia o no il personaggio è indubbio che con una figura carismatica come Blair al posto di Van Rompuy avremmo in questo momento una modalità di governance europea completamente diversa. Ma nel momento in cui occorreva per la prima volta scegliere un leader realmente europeo, gli Stati hanno scelto di non dare un leader all’Europa, in un’ottica di conservazione massima delle proprie prerogative. Complimenti per la lungimiranza.

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(AB)BATTERE MONETA – Capitolo euro. Siamo alle solite. Senza affrontare grandi questioni economico-finanziarie, la questione cruciale è che si è creata un’unione monetaria senza una politica economica comune, e scendendo nel dettaglio senza una politica fiscale e di bilancio comune, e senza che la BCE abbia poteri lontanamente paragonabili a quelli della Federal Reserve americana. Una zoppìa, per dirla con un espressione cara a Carlo Azeglio Ciampi, che non si poteva non pagare nel tempo. Ancora una volta, ci si è fermati a metà. Ci si è messi in gioco solo fino ad un certo punto. E così la scelta storica della moneta unica, reale momento di cessione di sovranità, senza passaggi ulteriori sembra fatta quasi controvoglia. Va bene l’euro, passi la moneta unica, ma non sia mai che metto in gioco la mia politica fiscale. E allora, di strada così se ne fa pochina, e l’euro diviene uno strumento, seppur eccezionale, destinato sin dalla nascita ad incontrare tremende difficoltà. E gli esempi potrebbero proseguire, basti pensare alla lotta che da anni la Germania intraprende per ottenere un seggio permanente all’Onu, osteggiata dalla Francia. Detta in maniera brutale: cosa se ne fanno? Anche qualora la Germania lo ottenesse, cosa succederebbe? Davvero crediamo che in questa fase storica Germania, Francia e Gran Bretagna siano tra i sei Paesi più potenti al mondo, per il fatto di essere membri permanenti del Consiglio di Sicurezza Onu? Non avrebbe maggior senso oggi un unico seggio permanente all’Ue, anche a costo di una faticosa rinuncia del proprio seggio ottenuto sessant’anni fa in un mondo completamente diverso? La visione di lungo periodo purtroppo si scontra con la conservazione di privilegi ormai anacronistici.

AUT AUT – Insomma, noi europei dobbiamo ricominciare a guardare la cartina del mondo. Chi ci crediamo di essere, a fine 2011? Guardiamo i fatti: siamo l’appendice dell’Asia. I più grandi paesi europei producono Pil inferiori a diverse province cinesi ai più sconosciute. L’Europa del ventunesimo secolo o è unita o non è. Se adesso ci leghiamo a vetusti e puerili egoismi nazionalisti e conservativi, la pena sarà quella di vivere de facto entro pochi decenni non al centro del mondo, come ancora adesso erroneamente rappresentiamo, ma all’estrema periferia.

DUE VELOCITA’ – Non siamo certo qui a proporre lezioni su come risolvere tutto questo. Solo vorremmo rivedere quello spirito europeo originario, che sulle macerie di una guerra disastrosa riuscì nell’intento di creare un’Europa non solo capace di rimanere in pace per sessant’anni, caso praticamente unico nella sua storia, ma anche in grado di costituire un’unità di intenti, visioni e programmi assolutamente impensabili solo dieci-quindici anni prima. In concreto, è utopistico ipotizzare che un’Europa a ventisette marci compatta verso un cammino di maggiore unità. È però ora forse di riprendere quel cammino di Europa a due velocità, invocato da tanti europeisti convinti ormai da anni, che veda i primi fondatori con pochi altri camminare verso un’integrazione più profonda, non solo economica, ma anche col tempo politica. Guardando al lungo periodo, grandi alternative non ce ne sono. Qui o si fa l’Europa o si muore. Occorre il coraggio dei grandi statisti, occorre trasformare la crisi in opportunità.

TROVARE IL MODO DI GARANTIRE – L’alternativa estrema, quasi apocalittica, non è solo scenario degli euroscettici. Qualche giorno fa la Merkel ha parlato di aiuti, provvedimenti, condizioni da rispettare, e tutti i media hanno riportato fedelmente dati e aggiornamenti. In mezzo, quasi come inciso, l’unica espressione che davvero doveva fermare tutti quanti a riflettere. “Nessuno può considerare garantiti altri 50 anni di pace in Europa”. Non stiamo certo dicendo che ipotizziamo conflitti all’interno dell’Europa da qui a cinquant’anni, sarebbe una fanta-geopolitica da quattro soldi. La provocazione però vuole porre attenzione sulla necessità di guardare tutti quanti al di là del proprio naso, pensare al lungo periodo, e ipotizzare scenari che creino una vera Unione Europea, e non solo di facciata, per non mettere neanche minimamente in dubbio di poter garantire altri cinquant’anni così. Se non vogliamo farlo, accomodiamoci, ma le cose andranno sempre peggio, non solo da un punto di vista economico-finanziario. E i libri di storia un giorno racconteranno di quelle ore in cui le opportunità della crisi non sono state colte, e per mantenere prerogative da prima metà del ventesimo secolo, l’Europa ha scavato la fossa al suo ventunesimo, decidendo di suicidarsi invece che rinforzarsi.

Alberto Rossi

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Alberto Rossi
Alberto Rossi

Classe 1984, mi sono laureato nel 2009 in Scienze delle Relazioni Internazionali e dell’Integrazione Europea all’Università Cattolica di Milano (Facoltà di Scienze Politiche). La mia tesi sulla Seconda Intifada è stata svolta “sul campo” tra Israele e Territori Palestinesi vivendo a Gerusalemme, città in cui sono stato più volte e che porto nel cuore. Ho lavorato dal 2009 al 2018 in Fondazione Italia Cina, dove sono stato Responsabile Marketing e analista del CeSIF (Centro Studi per l’Impresa della Fondazione Italia Cina). Tra le mie passioni, il calcio, i libri di Giovannino Guareschi, i giochi di magia, il teatro, la radio.

Co-fondatore del Caffè Geopolitico e Presidente fino al 2018. Eletto Sindaco di Seregno (MB) a giugno 2018, ha cessato i suoi incarichi nell’associazione.

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