Scontri in strada tra manifestanti e soldati, auto che investono persone (civili e soldati), accoltellamenti, arresti e perquisizioni, provocazioni politiche e dichiarazioni infiammate: non è la solita storia a Gerusalemme, dove le tensioni hanno già superato i livelli di guardia.
Gli eventi si sono succeduti velocemente a Gerusalemme, dove gli scontri (o anche solo i faccia a faccia tesi) tra manifestanti e forze di sicurezza sono frequenti e il rischio di ulteriori violenze si alza continuamente. Vediamo di capire meglio cosa sta avvenendo e perché con cinque domande e cinque risposte:
1 – Cosa ha causato tutto questo? Esiste un evento scatenante?
Al di là della possibilità di identificare un singolo evento come quello che ha dato il “la” a tutto, in realtà si tratta di un insieme di situazioni. Dopo il conflitto a Gaza (finito senza alcun tangibile risultato da parte di entrambi) la situazione nella West Bank è rimasta sostanzialmente tranquilla, ma a Gerusalemme e dintorni le tensioni sono continuate in seguito alla continua prosecuzione dei progetti di costruzione di insediamenti e al continuo stallo di ogni possibile trattativa negoziale. In questa situazione, alcuni gruppi estremisti ebraici hanno rinnovato l’intento di cambiare lo status della Spianata delle Moschee e ritornare a pregare lì dove una volta sorgeva il Tempio – cosa ora proibita. Questo a sua volta ha spaventato e infuriato i mussulmani della città , permettendo a gruppi estremisti islamici di soffiare sul fuoco della rivolta. Tra accuse e provocazioni la situazione è dunque degenerata, con nuove proteste, uccisioni, scontri.
2 – Dunque un punto chiave sembra essere la Spianata delle Moschee e il desiderio di alcuni ebrei di ricostruire il Tempio. Ma è davvero così?
Sì e no. Agli ebrei è proibito pregare nell’area della Spianata, come ha ricordato anche il rabbino capo sefardita di Gerusalemme, Yitzhak Yosef. Ma ciò non impedisce a piccoli gruppi di sognare comunque un ritorno al passato. E’ ad esempio il caso dell’organizzazione HaLiba, guidata da Yehuda Glick, che continua a chiedere che il Governo, in quanto militarmente in controllo della cittĂ , cambi le regole sulla gestione della spianata rendendo libero l’accesso e la preghiera agli ebrei. Il numero di persone che supportano Glick o le sue idee è in realtĂ molto esiguo, e peraltro fin dal medioevo l’ebraismo si è affrancato dall’idea di dover per forza ricostruire il Tempio. Ma nonostante i numeri relativamente esigui, la risonanza delle loro azioni e dichiarazioni è forte, anche perchĂ© ripresa fortemente da alcuni politici nazionalisti ed estremisti che portano avanti le stesse richieste e che, come Moshe Feiglin del Likud, recentemente hanno fatto una provocatoria passeggiata attraverso la Spianata. Tutto ciò ha provocato la reazione spaventata della comunitĂ araba mussulmana di Gerusalemme e anche l’attentato proprio contro Glick. Sarebbe però sbagliato limitare a questo il problema: altrettanta rabbia hanno causato le recenti decisioni israeliane di aumentare il numero di autorizzazioni per nuovi edifici nella zona di Gerusalemme est, così come la costante frustrazione, da parte palestinese, nell’osservare l’assenza di alcun concreto interesse israeliano a un negoziato.
Fig.1 – Scontri fra polizia israeliana e protestanti palestinesi nella cittadina di Kfar KanaÂ
3- Cosa fa il Governo israeliano in risposta a ciò? Quale è la posizione di Netanyahu?
La situazione politica israeliana conferma come si tratti appunto di una questione politica, e non religiosa, dove i luoghi sacri diventano solo simboli del nazionalismo da usare come bandiera. La linea di Netanyahu è quella di cercare di gestire la crisi, contenendo le proteste arabe ed richiamando genericamente alla calma: una sorta di via di mezzo che di fatto mira a non cambiare nulla, perché ogni mossa avrebbe per lui conseguenze negative. Il punto infatti è questo: il governo israeliano è ora diviso e contraddistinto da posizioni contrapposte che vedono Netanyahu stretto tra più fuochi.
Da un lato infatti è emblematica la posizione di Naftali Bennet, falco e leader del partito di estrema destra HaBayit HaYehudi, che accusa Abu Mazen di essere un terrorista e chiede una reazione militare ancora più forte, criticando Netanyahu per essersi limitato a una gestione troppo difensiva. Il Ministro degli Esteri Avigdor Liebermann, pur non apprezzando Bennet, critica anch’egli Netanyahu per la sua gestione della crisi, che non sta fermando le proteste, e richiede comunque un aumento delle misure di sicurezza anche contro gli arabi israeliani. Anche tra il Likud, il partito di Netanyahu, esistono voci dissonanti, guidate proprio dal già citato Moshe Feiglin, suo avversario politico interno. Altri ministri più concilianti (Tzipi Livni, Yair Lapid) pur chiedendo moderazione non hanno però la stessa vocale incisività nei media.
Netanyahu sa che la situazione sta oltrepassando i livelli di guardia, ma non abbassa i toni perché non vuole perdere consensi a favore di chi si sta dimostrando più a destra di lui (Bennet, Liebermann, Feiglin). A tal riguardo infatti la sua mente è già rivolta alle probabili elezioni della primavera prossima – in una situazione surreale dove “essere dialoganti” viene rappresentato come “essere deboli”. La soluzione dunque rimane la stessa: mantenere toni forti, accusare l’avversario arabo, non fornire una alternativa a uno status quo che si crede di poter mantenere indefinitamente.
4 – E da parte palestinese? Quale è la reazione della leadership?
Neanche da parte palestinese si osservano sforzi particolari per calmare gli animi. In parte ciò avviene perché Gerusalemme è fuori dal controllo dell’Autorità Nazionale Palestinese e pertanto, al di fuori di eventuali dichiarazioni concilianti (che comunque mancano), non sarebbe possibile intervenire direttamente per bloccare le proteste. In parte il motivo risiede sempre nella disputa Fatah-Hamas. Quest’ultimo sta soffiando sul fuoco e chiede un aumento delle proteste e perfino degli attacchi con autoveicoli contro civili e militari ebrei, cercando di sfruttare gli eccessi israeliani per giustificare un ritorno allo scontro dove potrebbe proporsi nuovamente come guida e per continuare a giustificare la propria linea di resistenza armata, delegittimando quella più moderata del presidente Abu Mazen. Ciò preoccupa la leadership di Fatah, che, come ha dichiarato un ufficiale palestinese al giornalista israeliano Avi Issacharoff, non può permettersi di perdere popolarità nell’opinione pubblica palestinese, la cui rabbia ora è a livelli altissimi; pertanto si preferisce optare per dichiarazioni altrettanto infiammatorie, che ovviamente contribuiscono a rendere ancora più tesa la situazione e, anche da parte palestinese, contribuiscono alla spirale negativa di violenza.
Fig.2 – Dimostranti palestinesi perforano un tratto del muro di separazione fra Israele e West Bank e mostrano la bandiera nazionale palestinese
5 – Siamo dunque arrivati alla terza intifada, come molti giornali iniziano a ipotizzare?
Nonostante l’enfasi di tanti giornali su questo termine, il punto non è tanto l’affibbiare l’etichetta di “intifada” o meno agli eventi (questo tipo di valutazioni va sempre fatto a posteriori), ma piuttosto il fatto che gli attori in gioco continuino a soffiare sul fuoco – cosa che, alla lunga, non può che portare la situazione a un progressivo peggioramento e quindi, presumibilmente, a un aumento degli scontri, che infatti stanno già espandendosi oltre Gerusalemme.
Il problema infatti, come notano numerosi analisti, non è solo la Spianata delle Moschee, o un singolo progetto di ingrandimento degli insediamenti di coloni a Gerusalemme Est. La questione riguarda in generale la mancanza di un’alternativa credibile allo status quo. Le iniziative di pace internazionali sono fallite. La leadership palestinese, di qualunque movimento, fino ad oggi si è dimostrata incapace sia di convincere sia di costringere Israele a cambiare corso. Israele stesso dice no alle proposte altrui ma non fornisce le proprie, credendo di poter contenere e gestire il conflitto per non affrontare i problemi sociali interni che troppe concessioni creerebbero nella sua società civile, apparentemente unita ma in realtà anch’essa piena di divisioni e contraddizioni. Così facendo però non cancella, ma rimanda solo il confronto con l’inevitabile.
Tutte le parti, incapaci di immaginarsi un futuro diverso (e per questo avendone paura) preferiscono rimanere attaccati a scelte già vecchie e già dimostratesi inefficaci (stringere le maglie della sicurezza da una parte e chiamare alla lotta armata violenta dall’altra non hanno risolto la situazione finora ed è improbabile la risolvano adesso), ma confortanti, perché non obbligano a cambiare mentalità e mettere in discussione le proprie scelte passate. Un futuro differente richiede invece proprio quest’ultima cosa.
Lorenzo Nannetti
[box type=”shadow” align=”aligncenter” ]Un chicco in piĂą
Tra tutti i discorsi sulla possibilità di avere due Stati separati o un solo Stato, poca attenzione viene rivolta a come la situazione demografica e urbanistica della città sia cambiata in questi ultimi anni. Come suggerisce Paola Caridi nel suo libro “Gerusalemme senza Dio”, la divisione della città in due parti non sembra più essere realistica – tuttavia questo, invece di scoraggiare, dovrebbe spingere a trovare nuove soluzioni originali (e perfino, perché no, creative) che non abbiano più legami col passato e, così facendo, siano più adeguate all’oggi. Gerusalemme, così come l’intero conflitto israelo-palestinese, avrebbe bisogno proprio di questo. [/box]
Foto: hoyasmeg