Sebbene si tratti di una pratica antica, la bio-pirateria è stata negli ultimi anni al centro del dibattito internazionale. In seguito della registrazione di numerosi brevetti da parte di multinazionali estere, alcuni Paesi in via di sviluppo si sono mobilitati per ottenere una fetta dei profitti derivanti dall’utilizzo della biodiversità.
Ma in cosa consiste la bio-pirateria e qual è la sua rilevanza oggi?
IL CASO DELLA GOMMA – Nel 1876 Henry Wickham, esploratore inglese esperto di botanica, sbarcava a Londra dal Brasile con più di settantamila semi di Hevea Brasiliensis, la migliore varietà esistente per l’estrazione di gomma naturale. In meno di un decennio l’Hevea era stata trapiantata in ogni angolo dell’impero britannico, dall’Africa Occidentale allo Sri Lanka, dall’India alla Malesia. Qui i botanici e gli agronomi europei avviarono una coltura di piantagione per far fronte alla crescente domanda di gomma da parte dell’industria automobilistica. Prima della gomma la stessa cosa era successa con la cincona, un potente alcaloide, unico rimedio allora conosciuto per le febbri malariche, che fu trasferito dalle foreste amazzoniche ai giardini botanici di Londra. Così facendo le potenze europee, Gran Bretagna in testa, riuscirono a trasferire importanti produzioni nelle loro colonie, a renderle estremamente competitive e ad acquisire il controllo di materie prime cruciali per l’industria, distruggendo il monopolio dei Paesi in via di sviluppo. Nel caso della gomma, ciò comportò il rapido declino della città brasiliana Manaus, che negli ultimi decenni del ‘800 si era imposta come principale centro di produzione della gomma.
UNA VECCHIA STORIA – La gomma naturale è solo uno degli innumerevoli esempi storici di bio-pirateria. Nel suo significato più ampio, la bio-pirateria consiste nel trarre profitto dalla biodiversità, trasferendo le specie presenti in un determinato territorio (spesso non controllato politicamente) presso un altro dotato di caratteristiche simili (ma sotto controllo). Fino a qui nulla di nuovo, anzi il trasferimento delle colture è una tra le più antiche forme di contrabbando. I casi più famosi riguardano la seta cinese e le piante americane e africane portate in Europa fin dal XVI secolo: caffè, cacao, pomodori e patate solo per citarne alcune. Prima dell’avvento della nave a vapore, le difficoltà di comunicazione e trasporto, la diffusa frammentazione dei mercati e la mancanza di regole precise sul piano internazionale facevano sì che questo tipo di attività non venisse percepita come violazione di un diritto. Fino al 1970 la biodiversità era considerata parte del “patrimonio dell’umanità”, dunque accessibile a tutti, ma non posseduta da alcun individuo, gruppo o Stato. In quest’ottica il suo consumo sarebbe dovuto rimanere non-esclusivo e non-competitivo, perciò utilizzabile soltanto per il miglioramento della conoscenza scientifica. Tuttavia, l’esplosione dell’economia globale e il rapporto sempre più stretto tra ricerca scientifica e business hanno alterato questa prospettiva.
LA BIOPIRATERIA OGGI – Di recente si è cominciato a parlare di bio-pirateria con riferimento alla foresta amazzonica, la più ricca riserva di biodiversità al mondo. Il termine ha acquisito il significato più specifico e negativo di “sottrazione illecita di specie vegetali o animali indigene da parte di compagnie (estere) a fini commerciali”. La registrazione da parte di multinazionali del settore farmaceutico e della cosmesi di brevetti basati su conoscenze tradizionali autoctone ha innervosito i governi di molti Paesi latinoamericani, in particolare il Brasile. Il pomo iniziale della discordia è stata la graziosa rana Kambô, le cui secrezioni velenose contengono un potente analgesico, la deltorfina. L’uso di questa sostanza per ragioni curative fa parte della medicina tradizionale di numerose tribù indigene dell’Amazzonia. Quando nel 2003 i ricercatori dell’Università del Kentucky brevettarono la deltorfina in collaborazione con il colosso farmaceutico Zymogenetics, in Brasile la NSSA (National Sanitary Surveillance Agency – Agenzia Nazionale per la Sorveglianza Sanitaria) prese posizione in difesa della biodiversità locale e iniziò un movimento di sensibilizzazione dell’opinione pubblica.
Successivamente, nel 2009, il Perù riuscì a impedire l’approvazione di brevetti che usavano conoscenze mediche sviluppate dalle popolazioni locali. Nel 2010 il Brasile multò trentacinque compagnie accusate di bio-pirateria per un totale di 44 milioni di dollari. Sempre nel 2010, in occasione della conferenza sulla biodiversità delle Nazioni Unite, gli Stati membri siglarono il Protocollo di Nagoya che regola l’accesso alla biodiversità al fine di garantire una condivisione equa dei benefici conseguenti al suo sfruttamento economico. Sebbene il protocollo sia entrato in vigore nell’Ottobre 2014, gli Stati Uniti, attualmente il maggiore produttore di brevetti, devono ancora ratificarlo.
Un’immagine della foresta amazzonica
UNA LINEA SOTTILE TRA SCIENZA E BUSINESS – Fino a che punto la conoscenza scientifica è in grado di progredire senza il supporto di una struttura produttiva orientata al mercato? È giusto impedire alle compagnie il libero accesso alla biodiversità, se con i loro mezzi possono raggiungere risultati utili al benessere dell’umanità? Come vanno distribuiti gli utili tra chi fornisce la biodiversità e chi si incarica di renderla commerciabile? Tra gli esempi che fanno riflettere ci sono la rana Kambô e la patata. Da una parte, recenti ricerche indicano che le secrezioni della rana Kambô potrebbero essere impiegate per la cura di gravi malattie come l’AIDS e alcune specie di cancro. Dall’altra, l’introduzione della patata in Europa da parte dei conquistadores spagnoli sembra aver contribuito per più di un quarto alla crescita della popolazione del nostro continente tra il 1700 e il 1900.
Ancora una volta la chiave sembra stare in un onorevole compromesso. Un accordo soddisfacente per tutti gli attori coinvolti nello sfruttamento della biodiversità dovrà necessariamente muoversi sulla linea di una condivisione equa dei profitti. Se da una parte le popolazioni locali possono vantare un patrimonio di conoscenze ancestrali che va salvaguardato e riconosciuto, dall’altra le grandi compagnie occidentali hanno a disposizione i mezzi finanziari e tecnici per ottenere non solo prodotti accessibili a tutti, ma soprattutto per sviluppare ulteriormente queste conoscenze.
Valeria Giacomin
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Un chicco in più
La famosa attivista indiana Vandana Shiva nel suo libro “Biopiracy: The Plunder of Nature and Knowledge” ha messo in luce la nuova frontiera di sfruttamento dei paesi in via di sviluppo da parte delle multinazionali occidentali: dopo la terra, i mari e l’atmosfera, ora è la volta del corpo delle donne, delle piante e degli animali. Il libro riprende le linee di argomentazione della “dependency theory”, una teoria dello sviluppo risalente agli anni Settanta che si basa sulla contrapposizione tra il Nord ricco e predatore e il Sud povero e sfruttato.
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