Road to London 2012 – «Finalmente cade uno degli elementi di divisione del mondo sportivo» disse Franco Carraro, allora giovane dirigente alla guida del CONI, quando la XXII edizione dei Giochi dell’era moderna venne assegnata a Mosca. Prometteva di diventare l’ “edizione universale”, diventerà l’edizione del boicottaggio a stelle e strisce. Se, nel 1976, l’edizione canadese smise l’elmetto a cui Settembre Nero la costrinse per volteggiare verso la perfezione sulle spalle della ginnasta più grande che la rassegna olimpica ricordi, l’edizione russa non conoscerà nessun salvatore: saranno Presidenti e ministri degli esteri i veri protagonisti
IL SALTO AL FILO SPINATO – Stati Uniti e Unione Sovietica sembravano percorrere il sentiero della distensione quando la sessione numero 75 del CIO assegnò a Mosca, e non a Los Angeles, la XXII edizione dei Giochi. Correva il mese di ottobre, 1974. Mentre le due superpotenze tacitamente si accordavano sull’assegnazione dei Giochi ( pare infatti che nei mesi antecedenti si stato siglato un accordo segreto tra Leonid Breznev e Richard Nixon riguardo a Mosca), Henry Kissinger, confermatosi Segretario di Stato in seguito allo scandalo Watergate che travolse l’amministrazione Nixon e portò alla presidenza Gerald Ford, si recò proprio nella capitale sovietica per vagliare la possibilità di riprendere le discussioni in vista di un successore del trattato SALT, la cui scadenza era prevista per il 1977.
L’OLIMPIADE OLTRE CORTINA – Era la prima volta che l’Olimpismo saltava oltre cortina.«E’ una grande occasione di incontro delle giovani forze di tutto il mondo, che si batteranno sportivamente in un abbraccio di fratellanza e di amicizia» dichiarava soddisfatto Vitali Smirnov, vicepresidente sovietico del CIO. Intrise d’ottimismo, queste parole si rivelarono profetiche quando la Cina popolare, dopo 21 anni di assenza in segno di protesta per il riconoscimento accordato all’altra Cina, quella nazionalista di Taiwan, annunciò la partecipazione. Riuscirà, almeno in questa occasione, un’ Olimpiade ad abbattere , anche solo temporaneamente, il muro che divide est ed ovest e la Muraglia cinese sportiva eretta dalla Cina maoista?
THE ANSWER, MY FRIEND… – La risposta, parafrasando una famosa canzone di Bob Dylan, soffia nel vento e su Mosca soffiano venti di guerra. Il 27 dicembre 1979 a Kabul, per la prima volta dalla fine della seconda guerra mondiale, le truppe sovietiche aviotrasportate entrarono in azione al di fuori dell’impero di satelliti dell’Est europeo. Occupati gli edifici governativi e distrutte le strutture di comunicazione afghane, venne deposto il regime di Amin, reo di aver intrapreso un radicale programma di riforme sociali, economiche e politiche miranti a modernizzare le strutture feudali del paese, e di centralizzare il potere politico nella capitale oltre ad aver generato un’ondata di fervore islamico che avrebbe potuto diffondersi a macchia d’olio ed indebolire l’autorità sovietica nelle “sue” repubbliche d’Asia centrale a prevalenza mussulmana. Il governo statunitense reagì con indignazione: l’occupazione sovietica dell’Afghanistan avrebbe interrotto il processo distensivo, ragion per cui il Presidente Carter si vide costretto a comunicare a Breznev una serie di sanzioni all’Unione Sovietica. All’embargo sulle esportazioni del grano e di nuove tecnologie e alle restrizioni all’accesso alle acque statunitensi, si affiancò il boicottaggio politico dei Giochi Olimpici di Mosca : «noi ci opporremo alla partecipazione di una squadra americana a tutti i giochi Olimpici programmati nella città di un paese invasore». È Cyrus Vance, Segretario di Stato, a precisare la posizione statunitense.
L’EFFETTO CONTAGIO – Con 104 voti favorevoli, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite intimò, invano s’intende, all’Unione Sovietica di evacuare l’Afghanistan. Al boicottaggio statunitense fecero eco, nell’ordine, quelli di Canada, Cina Popolare, Germania Ovest, Giappone e Australia. In favore della drastica misura si pronunciò anche il Primo Ministro britannico, Margaret Thatcher, non vietando però la partecipazione ai sudditi di Sua Maestà. Fece invece molto discutere il comportamento italiano. L’allora Ministro della Difesa, il socialista Lagorio, impedì la partecipazione a tutti gli atleti inquadrati nelle forze armate e il CONI optò per l’abolizione di qualsiasi esteriorità: tuonò un secco NIET alla tradizionale parata degli atleti durante la cerimonia inaugurale, niente bandiera tricolore niente inno di Mameli. Fu dunque un’Olimpiade caratterizzata dalle corsie vuote, alle frecce nere dell’atletica, gli Stati Uniti preferirono le spese militari, dichiarando, anche attraverso lo sport, terminata ”l’era dei buoni sentimenti” tra le due superpotenze. Carter, che interpretava l’invasione sovietica in Afghanistan nell’ampia prospettiva geopolitica di destabilizzazione in un’area che non poteva essere soggetta ad occupazione alcuna, chiese al Senato di interrompere il riesame del SALT II, che giaceva, senza essere stato ratificato, nella Camera Alta del Congresso statunitense. L’olimpismo salutava dunque gelidamente la capitale sovietica e si apprestava a preparare i Giochi di Los Angeles, programmati per il 1984 e pubblicizzati dal maxischermo dello stadio Lenin negli ultimi momenti della cerimonia di chiusura. Ai presenti sarà sicuramente balenata un’idea: e se l’URSS meditasse di restituire lo sgarbo?
CHI LA FA, L’ASPETTI – Se la vendetta è un piatto che va servito freddo, quattro anni sono sicuramente un lasso di tempo ragionevole per far sì che la pietanza si raffreddi. Cambiarono i protagonisti e gli scenari, di certo non le tensioni e i motivi d’attrito. Alla Casa Bianca l’ultraconservatore Ronald Regan, il cui scopo era “rifare grande l’America”, sostituì Carter, mentre al Cremlino sedeva Konstantin Cernenko, dopo la lunga stagione brezneviana e la fugace apparizione di Andropov. A circa due mesi dalla manifestazione, l’Unione sovietica rompe gli indugi: secondo l’articolo 25 della Carta del Cio « i Comitati olimpici nazionali devono essere indipendenti ed autonomi e non devono essere soggetti ad alcuna influenza di carattere politco, religioso o commerciale». In protesta alle “ripetute violazioni alla Carta Olimpica attuate dagli Stati Uniti” i dirigenti sovietici chiesero un’urgente riunione del CIO. Secondo Mosca l’amministrazione Reagan stava scatenando negli usa una vasta e violenta campagna antisovietica allo scopo di raccogliere consensi in vista dell’appuntamento elettorale previsto, come consuetudine, in autunno. Il definitivo colpo di scure che avrebbe decapitato la 23 edizione dei Giochi si abbatté sul Comitato olimpico l’8 maggio: «L’URSS ne partecipera pas au JO de Los Angeles. Officiel.» recitava lapidario un comunicato dell’agenzia France Press. Al “niet” sovietico fecero eco quelli di Germania Est e Cecoslovacchia, Ungheria, Polonia, Bulgaria, Cuba, Afghanistan, Corea del Nord, Etiopia, Laos, Vietnam e Yemen. L’Olimpiade californiana, sbarazzatasi in fase di assegnazione della debole concorrenza di Teheran, sconvolta dalla rivolta khomeinista, sembrava dunque destinata ad essere “sportivamente” dimenticata. Le partecipazioni della Cina popolare, dopo 32 anni di esilio olimpico, e della Romania di Ceausescu, unico paese del blocco comunista a non prendere parte al boicottaggio, riuscirono solo in parte a risollevare le sorti dei Giochi.
PIU’ LUNGO DI UNA CADILLAC – Vero e proprio salvatore della rassegna californiana fu Frederick Carlton Lewis. Figlio di due splendidi atleti, il piccolo Carl si innamorò dell’atletica il 15 ottobre 1968. La televisione trasmetteva in diretta la finale del salto in lungo dell’edizione messicana dei Giochi Olimpici (1968). Quel pomeriggio vide il suo connazionale Bob Beamon volare nella storia: 8 metri e 90 centimetri, addirittura 55 centimetri in più del precedente record. Il bimbo non credeva ai suoi occhi, prese un metro e corse sulla strada davanti a casa per misurare la lunghezza del “salto fuori dal tempo” ( così venne definito). “Wow, that’s longer than a Cadillac!”. Cominciò in quel momento la rincorsa del piccolo Carl verso l’olimpo dello sport.
RUNNING AND JUMPING – Il suo mito, neanche a dirlo, era Jesse Owens: “Quel ragazzino tutt’ossa andrà lontano” disse l’eroe di Berlino 1936 quando vide, in occasione di una rassegna giovanile nel 1973, il bimbo di Birmingham. Ma torniamo a Los Angeles, più precisamente sulla pista di atletica dello stadio Coliseum. Il suo idolo a Berlino vinse 4 medaglie d’oro, il vanitoso Carl Lewis promise di emularlo. Come volevasi dimostrare, fu di parola : sabato 4 agosto vinse i 100 metri piani, mercoledì 8 agosto conquistò l’oro nei 200 metri piani e sabato 11 agosto partecipò alla staffetta veloce, dominata dalla compagine statunitense. Mancava una sola medaglia all’appello, forse la più significativa: quella del salto in lungo, il suo primo amore. Il salto che gli valse la quarta medaglia d’oro è datato 6 agosto 1984, ma la rincorsa verso quegli 8 metri e 50 di storia Carl la cominciò molto prima. Cominciò nella colored section di un autobus di linea a Montgomery il 1 dicembre 1955, 6 anni prima che nascesse. Quel giorno la signora Rosa Parks, sarta di 42 anni, si rifiutò di lasciare il suo posto ad un uomo bianco. “Dissero che ero stanca, ma non era vero. Non ero stanca, non fisicamente almeno. Ero solo stanca di arrendermi”. Fu arrestata, ma da quel giorno i neri d’America presero la rincorsa, guidati dal reverendo Martin Luther King.
I HAVE A DREAM – “Io ho un sogno, che un giorno i figli di coloro che un tempo furono schiavi e i figli di coloro che possedettero schiavi sapranno sedere insieme al tavolo della fratellanza”. Le Olimpiadi boicottate di Mosca e Los Angeles non appresero la lezione del reverendo, quando la risposta non soffia nel vento, è perché Eolo ha affidato il messaggio ad altri. A Los Angeles il messaggio lo affidò al suo “ figlio” prediletto: “gli assenti hanno sempre torto”.
Simone Grassi